Recensioni e Interviste

Il “mondo vinile” può salvare la vita. Parola di Marco Tesei

Tra concerti annullati, negozi di dischi (per ora) chiusi, e rare possibilità di incontro tra pubblico e artisti, il settore musicale sembrerebbe essere tra i più colpiti e fiaccati dall’emergenza covid.

Si tratta di un altro paradosso del periodo che stiamo vivendo, perché è proprio nei momenti di maggior difficoltà che la musica sembra venire incontro a chi ne abbia maggiormente bisogno, senza chiedere (o poter chiedere, in questo caso) nulla in cambio. Gli ascolti spesso scandiscono le nostre giornate e le loro varie fasi, diventando talvolta un mero sottofondo, talvolta un’esperienza contemplativa in cui cercare qualcosa di altro rispetto ai suoni del quotidiano.

L’emergenza che ci sta costringendo in casa, tuttavia, potrebbe aver riavvicinato e mutato il rapporto stesso con la musica e i suoi supporti di riproduzione. Cuffiette e cellulare possono aspettare di fronte alla rara possibilità di ripescare dalla propria soffitta quei vecchi dischi di qualche anno fa, magari facendo ruggire nuovamente il proprio impianto per vinile, o allestendone uno nuovo di sana pianta. Già, il vinile, questo sconosciuto… o questo vecchio che avanza (visto il recente ritorno). Non di rado capita, nel corso di ascolti lenti e consapevoli, di soffermarsi a guardare il supporto più che la musica stessa, cercando storie, sensazioni, vissuti o sogni che quel vecchio medium soltanto sa conferire.

Il vinile è come un libro e le sue diverse modalità di fruizione e attivazione di sensi, reminiscenze e fantasie. A volte pare di rileggere le prime pagine di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino, quando l’autore ironizzava su tutti i modi possibili in cui il rapporto tra lettore e libro – libro fisico di carta e inchiostro – vada a compiersi prima e durante la lettura che è lo stesso, per certi versi, che coinvolge l’ascoltatore e il suddetto supporto. E, proprio come i libri, il vinile può raccontare delle storie, non soltanto quelle relative alla musica o gli artisti che l’hanno creata: possiamo ricordare esperienze passate, compagnie di ascolti, il giorno in cui lo si è acquistato, i propri gusti mutati nel tempo.

E a proposito della storia e delle storie di (e dei) vinili, è uscito qualche mese fa un interessantissimo libro del poliedrico giornalista Marco Tesei che ha raccolto nel suo “Mondo vinile” (Editrice Zona), vicende di un passato privato e pubblico sotto il comune denominatore, appunto, del vinile. La casa editrice ha reso possibile, vista l’esigenza in corso, l’acquisto del testo in ebook, permettendomi di immergermi in una lettura che altrimenti avrei ritardato.

È un flusso di emozioni e memorie, senza tralasciare aspetti tecnici relativi all’evoluzione nel tempo, in una polifonia di testimonianze di “addetti ai lavori” vari e prestigiosi. Proprio in questi giorni ho contattato l’autore del testo in questione per intervistarlo, non solo per parlare di musica e supporti, ma per fare il punto sullo “stato dell’arte” in senso lato.

Viviamo in un periodo ricco di contraddizioni, c’è molto dolore sicuramente. A tuo avviso – qualora ci fosse – quale è l’“opportunità” più grande che il covid-19 sta dando alla musica?

“La premessa è che mi auguro che questo incubo finisca il prima possibile e che possiamo tornare a una vita normale o quasi normale, poiché ci sono stati tolti dei valori primari, come il libero arbitrio di fare le cose più semplici. È una novità per la nostra esistenza, non solo per i giovani o chi non ha vissuto l’ultimo conflitto mondiale, credo si debba tornare indietro di secoli, ai tempi della peste di Firenze, per riscontrare un precedente. Lì però c’era una situazione di sotto (o altro) sviluppo, subito dopo arrivò il rinascimento. Era un’altra epoca. Ricordo che l’ultima presentazione del mio ultimo libro, che ho fatto il 22 gennaio, avevo dentro di me la gran gioia di poter parlare di musica, non tanto sul mio libro, quanto sulla musica in sé. Una gioia che ho scoperto, malgrado quello che è successo, essere ancora più grande ora. Ho capito che la musica è un vero farmaco salvavita anche e soprattutto in momenti molto difficili. Mi viene in mente qualche episodio recente: la regina Elisabetta, in discorso alla nazione, ha citto una canzone della Seconda guerra mondiale: “We will meet again” che è una canzone che si cantava ai soldati per farsi coraggio. Sono andato a cercarmela e, come me, lo ha fatto moltissima gente, ed è una canzone bellissima. Oltre al contesto originale ha un significato aggiunto in questi momenti di maggiore difficoltà. È già stata fatta in Rai una trasmissione lunga con interventi di moltissimi musicisti che si sono prestati da casa cantando le loro canzoni, hanno reso possibile un programma, nonostante le difficoltà, di grande qualità, con interventi di illustri cantanti tutti insieme. La musica è una panacea importante, la tecnologia per fortuna ci permette di ascoltarla, così come di tornare ai ricordi del passato, come per la canzone che dicevo prima.”

Per tornare a questi ricordi, dunque, può essere importante raccontarli e scriverli. Scriverli per trasmetterli nella lettura. Che ruolo ha la letteratura oggi e, soprattutto, che ruolo ha la letteratura rispetto alla musica?

“Direi che libro e musica si legano molto bene insieme. Mi viene in mente una frase che mi sembra calzi: “La musica agisce come uno sbadiglio, come una risata. Non ho voglia di dormire, eppure sbadiglio se vedo qualcuno che sbadiglia. E così, anche se non c’è alcuna ragione di ridere, io rido se sento qualcuno che ride”. È una frase di Tolstoj e non di un musicista: grande sensibilità, uno scrittore di questo peso che dice cose simili sulla musica. Ha una forza quasi “contagiosa”, utilizzando questa parola in senso positivo questa volta. Le parole non sono mai né belle né brutte, è il contesto che ne da una valenza: bella o brutta che sia.”

E il discorso lo si può estendere anche alla musica, all’ascolto emotivo. Citavi Vera Lynn e la Seconda Guerra mondiale. Secondo te il covid ci sta regalando emozioni d’ascolto inedite: negative o positive?

“Cercare di collegare qualcosa di positivo al coronavirus può avvenire soltanto se pone noi stessi di fronte a un’osservazione della realtà un po’ diversa da come l’abbiamo avuta fino a ora. Capire quanto alcune cose prima date per scontate siano importanti: un sorriso rispetto alla chiusura, guardare un paesaggio o un panorama che spesso osserviamo distrattamente. Se mai servirà a qualcosa servirà a questo. Tutti questi elementi, il contenitore dell’esistenza, poi sono il supporto reale della musica, delle canzoni, perché sono il loro contenuto che a sua volta è inserito nei supporti che la diffondono. Ho scritto un libro sul vinile perché dopo settant’anni un oggetto che subisce anche delle aggressioni da alte modalità di diffusione, allora lo scontro fu col CD, che riesce a recuperare terreno, tornare in auge e sul mercato, al di là di come potrà andare nel prossimo futuro, è sicuramente una novità che meritava di esser sottolineata. Perché per me è stato anche un pretesto per raccontare questi settant’anni di musica che hanno rappresento, a vai livelli, qualcosa di davvero irripetibile. Il libro ha voluto essere questo, un libro non tecnico ma che smuove gli affetti e, dando al tempo stesso alcune indicazioni (la gommalacca, il 75 giri, ecc.) e note sulla nascita e gli usi nel tempo dell’oggetto, che metta insieme l’elemento emotivo e la cultura intesa come percorso tra epoche che si succedono l’un l’altra. Credo che l’ascolto della musica, così come avviene in questo momento disgraziato, possa essere un ascolto anche più avanti consapevole, ricco di riflessione di emozioni e di gioia. Un concerto ti dà un’emozione, lo dico anche nel libro, ma si può ascoltare la musica anche in solitudine: dentro la propria stanza, con le cuffiette, come adesso ci è concesso. In attesa del ritorno alla condivisione. Non c’è un modo migliore per ascoltare la musica, c’è un modo nostro che preferiamo, ma la musica ha una natura di condivisione talmente forte che anche quando sei solo ti porta lontano e ti porta a pensare a quello che in quel momento non è vicino a te ma comunque esiste.”

Cosa consiglieresti di ascoltare in questi tempi dilatati? Magari riavvolgendo il nastro nei decenni, da dove consiglieresti di ripartire negli ascolti, o meglio: da dove cominciare, per un giovane?

“Non ti nascondo che ho ripreso un po’ di vinili ricordandomi anche di quali fossero le mie preferenze nel momento in cui sono stati acquistati. Sono tantissime le canzoni o i cantanti che potrei menzionare. Mi viene in mente: Fabio Concato, “Domenica bestiale”, canzone molto melodica ma d’autore. Mia Martini, oppure, se vogliamo andare sui cantautori che hanno scosso negli anni Settanta: Lucio Dalla o l’altro Lucio (Battisti ndr) che sono completamente diversi. Ricordo che al tempo c’era una trasmissione che si chiama “Hit Parade” che andava in onda dalle 13.00 alle 13.30 e la conduceva Lelio Luttazzi e c’era l’ingresso di “Mi ritorni in mente” di Battisti che era al nono posto e dopo pochi giorni la ritrovavi già al primo, restandoci per intere settimane. Può sembrare un po’ anacronistico, oggi abbiamo diversi modi si ascoltarla la musica e tanti sono i modi per avere le informazioni relative alla musica e agli artisti oggi (web, radio, ancora la televisione). Se vogliamo andare su ascolti più lontani, consiglierei certamente i Beatles ma anche il Blues. Ecco, mi viene in mente Little Richards, che è stato un artista rivoluzionario, uno dei pochi negli anni Sessanta a poter far convivere bianchi e neri nello stesso locale. Erano gli anni Sessanta, potrebbe sembrare assurdo ma abbiamo vissuto anche questo. Tutti i gruppi più importanti del passato in generale però hanno una loro storia, ma non è per forza un male ascoltare anche cantanti molto popolari, da Rita Pavone a Gianni Morandi. Forse richiamano un modo di avvicinarsi alla musica più ingenuo ma molto molto reale. I cantanti rappresentavano un modo per sognare, soprattutto per i giovani di allora. Quando c’era il Cantagiro, con questi artisti che andavano nelle varie città, i ragazzi che gli correvano dietro… sono immagini che sono scomparse. Mi viene difficile vedere nei giovani di oggi quel medesimo entusiasmo, l’ingenuità era dovuta anche al fatto che allora non esistevano mezzi tecnologici e questa velocità di trasmissione del pensiero e delle immagini. Questo creava un mistero dietro gli artisti, mistero che oggi non c’è più. Molti artisti si creano un’immagine e una carriera condividendo sui social la loro musica e la loro vita.”

E a proposito di questa fase “ingenua” e “pura” della musica e dei suoi protagonisti, tu hai partecipato, a vari livelli, come cronista e co-protagonista di quegli anni. Hai qualche ricordo particolare che vorresti raccontare qui?

“Sì, ero già giornalista Rai, mi pare nell’ottantaquattro. C’era Michele Mondella, che era un grandissimo discografico. Ecco i discografici: lui era uno di quelli che seguiva il cantante dalla prima conoscenza fino a coltivarlo. La casa discografica ti faceva un contratto per tre anni e aspettava che ne uscisse fuori qualcosa. Ogni mattina nelle sale discografiche c’erano tanti artisti, un’atmosfera cui oggi non siamo più abituati. Ricordo quella mattina Michele Mondella mi chiese se avessi la macchina, eravamo nella sede della RCA che stava sulla Tiburtina. Mi disse: “Andiamo”, non volendo dirmi dove. Mi indicò la strada, verso Mentana, davanti questa bellissima villa a due piani. A un certo punto ci fermammo, suonò il campanello, si aprì il cancello e ad aprire arrivò Gianni Morandi, perché era casa sua. Non è che accogliesse tutti, ma Mondella faceva da garante. Ci presentammo, lui fu molto Gentile, mi mise subito a mio agio. C’era il figlio Marco che suonava in un’altra stanza. Dopo un po’ suonò il campanello e poco dopo entrò nel salotto un’altra persona che era venuta a trovarlo. Era Lucio Dalla, che conobbi in quella circostanza. Si sedette vicino a me, mi resi conto di avere sottomano un bel materiale da un punto di vista giornalistico. Non bastò, dopo pochi minuti suonò nuovamente il campanello e arriva Mogol, che al tempo collaborava come paroliere per tutti questi cantanti. Era una grande occasione perché le interviste ai cantanti da allora, ma ancora oggi, sono diventate le più difficili. Io ho potuto intervistare personaggi come Fellini, Monicelli, Risi, Manfredi, Sordi, con molta più facilità dei cantanti, perché c’è tutto un filtro c’è la promozione dei dischi, la concorrenza, ecc. Averli lì, per un’intervista informale, fu molto raro. Fortunatamente, avendo l’abitudine di portarmi sempre qualcosa per registrare, avevo una via di mezzo tra un registratore professionale e uno per giocare. Potei fare un’intervista a tre voci più la mia che poi mandammo in onda. Fu un bel successo ma è il fattore umano, quell’atmosfera che si era creata intorno a me a fare la differenza. Non ho mai capito se fosse stata una situazione casuale o organizzata, ma a un certo punto me ne andai perché capivo dovessero parlare di cose tra di loro.”

Oggi più di ieri: intervistare un cantante pop è diventato impossibile. Magari avrebbero molto da raccontare ma c’è una lunga trafila prima dell’intervista.

“A tal proposito ho un altro ricordo, una volta a Sanremo, ero lì non come cantante in gara – in epoche preistoriche avevo collaborato con i Camaleonti – ma per la radio. Mi intrufolavo riuscendo a fermare Massimo Ranieri, è una persona deliziosa, molto disponibile. Poi molti artisti che hanno avuto vite non propriamente facili ti danno prima il cuore e poi il resto. Riuscii anche in quel caso a fare un’intervista diversa dal solito. Era il sabato e conclusi dicendogli che secondo me con la canzone avrebbe avuto una buona possibilità di vincere. Lui non era molto convinto della cosa anche se era il 1988 ed era lì con “Perdere l’amore” che vinse effettivamente il Festival. C’era tutta una dimensione umana nella professione stessa, per esempio l’amicizia con Fellini anche quella nata a partire da un’intervista. Rapporti personali di cui poi si “vive di rendita”, per esempio le ben 21 interviste confluite nel libro sono conoscenze fatte nel tempo: da Massimo Cotto a Marta Bonetti, Carlo Montana, e tantissimi altri.”

Prima accennavi a produttori, discografici, figure che hanno perso la loro funzione di allora?

“Oggi ci sono situazioni molto diverse. Ci sono case discografiche che danno una sola possibilità di fare un disco: se non va, hai chiuso. Un tempo la casa discografica ti prendeva per mano, cercava di capire eventualmente le ragioni dell’insuccesso e ne venivano fuori artisti maturi. Mi viene in mente Dalla o De Gregori. In questi giorni leggevo l’autobiografia di Woody Allen. Il suo percorso artistico è stato aiutato dal fatto che ci fossero delle persone con buon intuito, leggevano le tue possibilità e ti davano il tempo di crescere e maturare. Così avveniva anche con la musica, e credo sia anche per questo che molti artisti, attivi ancora oggi, che hanno scritto canzoni straordinarie ancora oggi validissime, perché questi cantanti venivano seguiti, accompagnati. Ci sono molte meteore oggi, cantanti che durano poco. Le case discografiche investono meno e, quelle poche che ci sono, sono delle multinazionali che hanno assorbito tutte le altre. Per questo, leggere e vivere il “Mondo vinile” per continuare a coltivare la musica. A breve ci sarà il “Maggio dei libri” che io ho seguito per anni e sostengo donando un libro come autore. La lettura è un veicolo importante, insostituibile. Può aiutarci anch’essa a capire il mondo, insieme alla musica. La superficialità è il più grande nostro nemico, non il resto, paradossalmente. Dobbiamo combatterla.”

O forse era sempre quell’ingenuità a combattere la superficialità? Nel libro racconti molte storie che sono piene di quell’entusiasmo, è un racconto emotivo a cui non siamo abituati. Forse ci crediamo più “maturi”, o forse perdiamo una parte del “mondo musica”, oltre che del “mondo vinile”?

“Beh, il mio intento era questo, questo è ciò che avrei piacere di comunicare con il libro soprattutto. Raccontare delle storie di musica o che hanno a che fare con la musica, anche indirettamente. Ad esempio, c’è un capitolo dedicato allo sbarco sulla luna o a quei dischi che furono mandati nello spazio qualche anno fa e che forse girano intorno alla terra per futura memoria; ma poi ho parlato di curiosità varie. Le varie arti che il vinile ha attirato a sé: la pop art, le copertine. Il CD vede la copertina molto ridursi mentre prima c’era il doppio album o quelle copertine che si aprivano a ventaglio da cui uscivano dei quadri e sono quadri a tutti gli effetti: Mirò, Dalì, Warhol ecc. Poi c’è il discorso del collezionismo, da noi diffuso in ritardo. C’è gente che se ne va viaggiando a cercando varie curiosità anche in paesi diversi dal nostro. Ad esempio, io ho trovato in Romania un disco di Mina che canta in turco e questo è la vera curiosità della canzone: sfugge, ha una sua ampiezza che non ha confini. Purtroppo, parlare oggi di confini pensiamo al covid, ma è bello pensare che quello che non ha confini ci tiene costantemente in contatto e in vita, dà un senso ulteriore all’esistenza.”

Tu hai lavorato per moltissimi anni in radio. In questa ottica presente-passato, secondo te, la radio ha conservato la sua funzione? Che ruolo avrà nel diffondere la musica nel futuro?

“Ha sempre un grande ruolo per la diffusione della musica. Lo stesso ruolo di prima se non di più, ci sono molte più rado di prima. La radio è ascoltata nel doppio senso di udita e creduta: le canzoni trasmesse in radio sono le canzoni che la gente impara e vuole riascoltare. Ha mantenuto una sua forza anche con il passare degli anni ed è rimasta uno strumento di comunicazione importantissimo. Quello che conta è trasmettere tante cose. È uno strumento bellissimo, io volevo fare il giornalista ma non pensavo alla radio. Pensavo alla terza pagina, che oggi è sparita, invece la radio che apre molte più prospettive.” 

Matteo Palombi

— Onda Musicale

Tags: Festival di Sanremo, Adriano Celentano, Lucio Dalla, Radio, Rai, Feltrinelli, Matteo Palombi
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