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Mario Bava e i Black Sabbath: I tre volti della paura

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Nemo propheta in patria, la frase pronunciata da Gesù nei Vangeli, si addice molto bene alla figura di cui parleremo oggi: Mario Bava.

Tim Burton, anni fa, a Roma per presentare Il Mistero di Sleepy Hollow, rimase molto sorpreso quando, pensando di accattivarsi le platee italiane, dichiarò che nel suo nuovo film aveva citato apertamente Mario Bava. Bene, i giornalisti cinematografici in sala si guardarono perplessi: non conoscevano il grande cineasta italiano.

Figlio di un direttore della fotografia degli albori del cinema, lo stesso Bava fu un regista che non si prese mai troppo sul serio; amava raccontare un aneddoto di quando, per un breve periodo, parte della critica si accorse delle sue doti: “Sono venuti quelli dei Cahiers du cinéma (nota rivista francese n.d.r.), e mia figlia mi diceva che volevano sapere il tessuto connettivo tra quella targa che oscilla all’inizio del film Sei donne per l’assassino, dove c’è un temporale, e il telefono che casca quando la Bartok muore. Io non mi ricordavo neanche come finiva il film…”

Come il padre, Mario Bava iniziò come piccolo artigiano del cinema. Direttore della fotografia, aiuto regista ed esperto nel togliere le castagne dal fuoco ai produttori; spesso capitava nelle produzioni di serie “B” che i registi ufficiali fossero impossibilitati a concludere le riprese – perché magari giravano più film in una volta, per motivi economici o per disaccordi vari – e Bava si incaricava di condurre in porto il film. Ma il romano era anche un mago coi pennelli, e così, oltre alle scenografie, era abile nel creare effetti speciali caserecci ma molto efficaci. Se cercate in rete, ci sono molti spassosi filmati che illustrano alcuni trucchi, come quello con cui Bava ottiene l’invecchiamento istantaneo di un’attrice semplicemente cambiando il colore delle luci.

La carriera del regista, nonostante il suo proverbiale basso profilo, fu di culto da subito. La Maschera del Demonio, suo film d’esordio tratto da Gogol, detta le regole del Gotico italiano e riscrive quelle del genere a livello internazionale. L’uso espressionistico del bianco e nero, la violenza tutt’altro che suggerita – come invece usava all’epoca – i movimenti sinuosi della macchina da presa, l’utilizzo spregiudicato dello zoom, rimarranno la cifra stilistica del cineasta per tutta la carriera. La ragazza che sapeva troppo, nel 1962, inaugura il filone d’oro del giallo all’italiana, di cui Bava codificherà i canoni ufficiali due anni dopo, con l’insuperato Sei donne per l’assassino.

I topoi del genere sono tutti presenti: l’assassino con volto coperto, impermeabile e guanti di pelle – che sarà ripreso da Dario Argento – i delitti seriali tutti con modalità diverse e l’uso pittorico del colore. A questo proposito Bava è stato definito come uno dei pochi registi che usasse davvero i colori come elemento portante dei suoi film. Tra opere rinnegate – 5 bambole per la luna d’agosto, cult con le musiche de Il Balletto di Bronzo – e capolavori minori, la carriera di Bava prosegue fino al 1980, anno della morte. In mezzo inventa il pulp di Cani Arrabbiati – film caro a Tarantino – lo slasher di Reazione a catena e dà un saggio pop con Diabolik.

Il film di cui vi parliamo oggi è I tre volti della paura e, per gli appassionati rock, ha un’estrema importanza. È proprio grazie a questa pellicola che la band di culto dei Black Sabbath si chiama così e non più Earth. Infatti, per il mercato internazionale, il film fu ribattezzato proprio Black Sabbath e quando i ragazzi di Birmingham decisero che Earth suonava troppo banale, fu il bassista Geezer Butler, appassionato di horror ed esoterismo, a ricordarsi del film che tanto l’aveva colpito anni prima.

I tre volti della paura è un film antologico, diviso in tre episodi. Nonostante come ispirazioni vengano citati nei titoli di testa Maupassant per Il telefono, Tolstoi per I Wurdalak e Cechov per La goccia d’acqua, solo il secondo episodio è tratto realmente da una novella del grande scrittore russo. Il telefono è invece ispirato da F.G. Snyder e l’episodio finale da P. Kettridge, pseudonimo di Franco Lucentini.

Il telefonoè forse l’episodio più debole; la trama è – scusate il gioco di parole – piuttosto telefonata e il twist finale prevedibile. Tuttavia i colori, i movimenti di macchina fantasiosi, l’ambiente claustrofobico dell’appartamento – che anticipa Polanski – e la tensione erotica tra le due ragazze protagoniste, ne fanno comunque un interessante esempio di come Bava fosse avanti per i tempi.

I Wurdalak è una magistrale incursione nel gotico, impreziosita dall’interpretazione di Boris Karloff, star horror in declino rilanciata proprio da Bava. Sorvoliamo sulla trama, un archetipico intreccio di vampiri; la sostanza è ancora una volta nei colori e nelle atmosfere che Bava, con pochi trucchi e sapienti accorgimenti, riesce a orchestrare. La storia si svolge in un’antica dimora, nella nebbiosa e terrificante foresta e tra i ruderi di vecchie rovine. Nonostante si capisca ben presto dove la vicenda vada a parare, Bava riesce con alcune scene terrificanti, specie per il pubblico meno avvezzo dell’epoca, a far saltare più di una volta lo spettatore dalla poltrona. Ma è l’insieme a colpire, si ha l’impressione di assistere a un distillato del cinema horror e gotico di lì ai successivi sessant’anni.

La goccia d’acqua conclude l’antologia con l’episodio più terrificante. Anche qui la storia è piuttosto scarna: un’infermiera, chiamata a ricomporre il corpo di un’anziana medium appena deceduta, le sfila un anello. Sarà perseguitata da un’oscura maledizione. Bava, anticipando colori e suggestioni tipicamente argentiane, terrorizza letteralmente lo spettatore. La scena col corpo della medium che sembra quasi avanzare su dei binari, sarà omaggiata da John Landis in una gustosa citazione all’inizio dei Blues Brothers, mentre l’effetto claustrofobico e ansiogeno anticipa il Polanski di Repulsione e de L’inquilino del terzo piano.

Il finale, che non vi anticipiamo, vede poi lo stesso Karloff nel ruolo di anfitrione, in un particolare esempio di metacinema.

Il genio visivo di Mario Bava, a quasi quarant’anni dalla scomparsa, continua a fare scuola e, sebbene meno di un tempo, a rimanere pressoché sconosciuto in Italia. Diversa la situazione nel mondo del cinema; tanti sono i documentari, reperibili anche in rete, dove i maestri americani e non solo ne riconoscono l’importanza, da Scorsese a Tim Burton, da Joe Dante a John Landis fino a Tarantino. Sofia Coppola fa morire la prima ragazza de Il giardino delle vergini suicide come la donna all’inizio di Operazione Paura; David Lynch ripropone tout court una scena dello stesso film nel cult Twin Peaks, mentre Alien sembra ispirarsi al suo Terrore nello spazio. Per non parlare di Dario Argento, dapprima rivale e poi collaboratore nel suo Inferno, che ne mutua quasi tutti gli stratagemmi.

Mi piacciono molto anche i film di Mario Bava, nei quali non c’è praticamente storia, solo atmosfera, con tutta quella nebbia e le signore che camminano lungo i corridoi: sono una sorta di gotico italiano. Bava mi sembra appartenere al secolo scorso” – ebbe a dire di lui Martin Scorsese. Vedere un film di Bava, infatti, è come assistere a una partita di calcio fatta esclusivamente di azioni da gol.

Eppure il tributo che rimane più caro a noi appassionati di rock, è proprio quello che sta nel nome dei Black Sabbath. I rintocchi di campana all’inizio del pezzo omonimo, oltre ad aver creato il doom, racchiudono tutta la suggestione e il terrore del sottovalutato maestro dell’horror all’italiana.

— Onda Musicale

Tags: Black Sabbath/Dario Argento/Geezer Butler/David Lynch/Martin Scorsese
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