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Comus, storia degli orchi del folk psichedelico

Nel 1969, mentre il mondo si riempie di fiori, acidi e buoni sentimenti, nel sottobosco del folk britannico qualcuno comincia a guardare il lato oscuro del bosco. E no, non parliamo di Tolkien. O forse sì, ma con gli occhi di chi ha letto troppo William Blake, ascoltato Captain Beefheart e passato un’adolescenza difficile tra i corridoi della Royal Academy of Art. Signore e Signori, nascono i Comus.

È proprio dal sottobosco oscuro che spuntano fuori i Comus, figli bastardi della Swinging London e dell’immaginario medievale più tetro. A tirare le fila del gruppo è Roger Wootton, un tipo che sembra uscito da un quadro di Hieronymus Bosch. Capelli arruffati, sguardo spiritato e un’ossessione per il corpo, il dolore, la religione e tutto ciò che inquieta. È lui a scegliere il nome della band, pescandolo da una mascherata secentesca di John Milton e dalla mitologia greca. Comus, infatti, è il dio degli eccessi, della notte e del caos sensuale. È il fratello maledetto di Pan, uno che non ti accompagna nei boschi a vedere le fate ma per sventrarti a mani nude.

Wootton, cantante e chitarrista autodidatta, si porta dietro un nugolo di musicisti fuori standard. La prima a unirsi è Bobbie Watson, voce femminile eterea e inquietante, che con lui condivide non solo il palco ma anche la vision. Bobbie ha una voce angelica che sa farsi demoniaca in un attimo, e una presenza scenica che mescola la santa e la strega. Il suo canto, spesso intrecciato a quello rauco e animalesco di Roger, diventa la firma inconfondibile del gruppo.

A dare corpo e ossatura al suono ci pensa un ensemble più da madrigale barocco che da rock band. Alla viola e al violino c’è Colin Pearson, studente anche lui alla Royal Academy, mentre Andy Hellaby si occupa del basso, con un tocco jazzato e profondo. Il flauto (strumento prog per eccellenza, ma qui suonato come se fosse uno strumento da evocazione demoniaca) è nelle mani di Rob Young, che alterna soffi dolci a vere urla strumentali. Infine, alle percussioni c’è Glen Goring, batterista anomalo, più incline al tribalismo che ai ritmi regolari. Il suo set è spesso ridotto all’osso, ma l’impatto è tutto nervi e tensione.

Le influenze? I Comus sembrano non avere genitori. O forse, per dirla con Freud, li hanno uccisi. A voler cercare a tutti i costi, si potrebbero evocare i primi King Crimson per l’attitudine folle, i Pentangle per il folk colto.

Ma anche il Frank Zappa più malato per la libertà formale e Captain Beefheart nella vocalità di Wootton. Ma la verità è che i Comus sembrano spuntare da un mondo parallelo dove il folk si è accoppiato col delirio e ha generato una creatura a sei teste che ulula alla luna.

Le loro prime apparizioni live sono più performance art che concerti. Wootton sul palco non canta, ringhia, striscia, si dimena come posseduto. Bobbie è impassibile e agghiacciante, una sorta di Ofelia risorta per vendetta. La band intera suona con furia ma con estrema precisione, in una spirale continua di tensione erotica e panico esistenziale. In mezzo a tutto ciò, testi che parlano di violenza, di rapimento, di mostri interiori – ma anche di estasi, trasformazione e beatitudine mistica.

Nel 1970 i Comus cominciano a farsi notare. Non nei circuiti ufficiali, ma tra chi ascolta musica cercando l’esperienza totale. Per dire, David Bowie, già nel pieno della sua mutazione aliena, si dice affascinato dal loro approccio crudo e teatrale. Qualcuno li accosta persino ai Velvet Underground in versione pastorale, con meno eroina e più incubi bucolici.

L’occasione per incidere arriva grazie all’etichetta Dawn Records, sussidiaria della Pye, specializzata in musica psichedelica e progressive. Ma i Comus non sono facili da gestire. Le prime sessioni sono un caos, tra improvvisazioni dissonanti e litigi su ogni virgola del suono. Wootton è un perfezionista maniaco, Bobbie ha idee chiarissime e non sempre compatibili, e il resto della band si divide tra mistiche visioni e frustrazioni artistiche.

Eppure, lentamente, il suono prende forma. Quello che emerge non è né folk, né prog, né rock. È un rituale pagano inciso su nastro. È un canto sciamanico che alterna momenti di bellezza estatica a discesa negli abissi. Il preludio di qualcosa per cui il mondo musicale non è pronto, ma che resterà impresso nella mente di chi lo ascolta come una cicatrice.

A fine 1970, dopo un anno passato tra concerti in piccoli club, scontri creativi e viaggi interiori di dubbia legalità, la band entra finalmente in studio per registrare il suo primo album, First Utterance. In quel momento, mentre i Pink Floyd cominciano a smettere di inseguire rumori astrali e i Genesis ancora non si sono messi le maschere, quel gruppo di freak scolpiti nel legno di Sherwood decide di suonare l’orrore. A notare quel manipolo di fauni indemoniati che si fa chiamare Comus è Barry Murray, il produttore che poco prima ha portato alla gloria il Liege & Lief dei Fairport Convention. Non proprio l’ultimo arrivato.

Murray li fa entrare in studio nel cuore del 1970, a Londra, ma First Utterance ha poco o nulla dell’Inghilterra da salotto buono e ora del tè. Il disco prende vita in un’atmosfera claustrofobica e primitiva, come se i musicisti fossero stati rinchiusi in una cripta con un bongo, un flauto e un po’ di LSD. L’etichetta pubblica anche i Mungo Jerry (sì, quelli di In the Summertime). Il contrasto è surreale: da una parte la hit estiva, dall’altra un concept album che parla di stupro, follia e riti nei boschi.

A detta dei testimoni – pochi, confusi e probabilmente sotto acidi – le sessioni si svolgono in condizioni semi-tribali. Bobbie Watson canta scalza, Roger Wootton suona come se avesse una premonizione di morte e il violino di Colin Pearson sembra invocare qualcosa di antico e pericoloso. Tutto viene inciso dal vivo in studio, con pochissime sovraincisioni. La scelta è drastica ma efficace: quel senso di urgenza, di terrore non ricomposto, è figlio della presa diretta.

Il suono è una creatura mitologica. Niente batteria – se non qualche percussione delirante – e nessuna chitarra elettrica. In compenso: flauto, oboe, violino, contrabbasso, chitarre acustiche pizzicate fino allo sfinimento. Il folk, qui, non è un rifugio bucolico, ma un rito iniziatico. È come se i Comus prendessero gli strumenti dei Pentangle e li usassero per evocare Pan con l’ayahuasca. L’influenza è quella del progressive, certo, ma in una declinazione spaventata e arcana: nessun virtuosismo, nessun Moog, solo psicosi e strumenti acustici.

Wootton, che ha avuto un’educazione classica e un’ossessione per la poesia visionaria, scrive testi che sono un misto tra il teatro elisabettiano e gli incubi di un tossico sotto acido. L’intero album si muove come un flusso narrativo disturbante, tra la voce angelica e sinistra di Bobbie Watson e quella animalesca di Wootton, che urla, sussurra e ringhia come una bestia ferita. La loro interazione vocale è qualcosa di più che un duetto: è un’epifania disturbante, un orgasmo e un esorcismo nello stesso momento.

La copertina merita un discorso a parte. Viene disegnata proprio da Roger Wootton e non lascia spazio a fraintendimenti: una figura mostruosa – forse un satiro, forse uno psicopatico – sorride con denti affilati su uno sfondo bianco. Un disegno infantile e perverso insieme, quasi un autoritratto schizofrenico. Il nome Comus compare in piccolo, quasi fosse un dettaglio; a dominare è quella faccia da incubo. Quando uscirà, il disco finirà censurato in alcuni negozi: troppo inquietante per le vetrine, troppo horror per l’epoca delle utopie flower power.

Il titolo, First Utterance, non è casuale. Non è “debutto”, è “prima enunciazione”. Come se il gruppo non pubblicasse un album, ma proferisse la prima di una serie di verità scomode e sacrileghe. Un sussurro che viene dalla terra, dai boschi, dai sogni spezzati. Un atto magico, una formula da non ripetere ad alta voce.

Nonostante tutto, o forse proprio per quello, l’album non vende quasi nulla. È troppo oscuro per il pubblico folk, troppo acustico per i rockettari, troppo profondo per chi dalla musica vuole solo svago. Ma la piccola comunità degli iniziati – che oggi chiamiamo culto – comincia già a formarsi. Alcuni lo scoprono in vinile usato, altri ne sentono parlare come di un disco proibito. Chi ci inciampa, raramente ne esce illeso.

Il suono dei Comus non assomiglia a nulla, né prima né dopo. Un disco che arriva troppo presto per essere accolto e troppo tardi per essere dimenticato. Un’eresia incisa su nastro, che oggi consideriamo uno degli atti fondativi del dark folk e una delle esperienze più destabilizzanti del prog inglese.

Il disco si apre con un attacco frontale, Diana. Il brano non è un’introduzione, è un agguato. Parte con la chitarra acustica che galoppa come un animale inseguito, e subito arriva la voce tremante, incalzante, fuori controllo di Wootton. La canzone racconta uno stupro nel bosco. Il duello vocale tra Wootton e Bobbie Watson è disturbante e rituale: lui è la follia, lei la coscienza. Il tutto si chiude con un crescendo acustico che sembra una corsa nel fitto degli alberi. Se reggete la furia di Diana, potete provare ad ascoltare tutto il disco. Altrimenti, lasciate stare.

Dopo il bagno di sangue, un’apparente pace. Apparente. The Herald è la canzone più lenta e melodica del disco, ma nasconde un’inquietudine sotterranea. È come se i Comus volessero cullarti per farti abbassare la guardia. Il violino piange, il flauto sospira, Bobbie canta come una driade stanca. C’è dentro l’eco del progressive pastorale alla Genesis, ma con una tristezza che prelude alla fine del sogno hippy. “He will come… he will come…” ripete, e non è chiaro se sia una speranza o una minaccia.

Drip Drip è il cuore nero del disco. Nove minuti di delirio folk, la voce di Wootton che sbraita e sussurra, cambia registro, diventa animale. La canzone è una discesa nella psicosi: un uomo che uccide la donna amata e poi la seppellisce nel fango. Non è solo un racconto macabro, è un’esplorazione della mente che cede. Il ritmo è ossessivo, circolare, con strumenti acustici che suonano come strumenti di tortura. I cori finali sembrano invocazioni a qualcosa di primordiale. Non esiste nulla di simile nel prog. Ma, forse, non esiste nulla di simile e basta.

Song to Comus è il manifesto del disco. Sette minuti e mezzo di panico acustico e danza orgiastica. È il brano che prende per mano l’ascoltatore e lo offre direttamente a Comus, dio del vino e del caos, spirito libertino e inquietante della notte.

Le chitarre sono rapide, nervose, il flauto è indemoniato, le voci si rincorrono in un climax che ha qualcosa del teatro elisabettiano e qualcosa dei sabba stregoneschi. Se esiste un brano che riassume l’essenza della band, è questo. Non a caso è l’unico in cui il nome del gruppo viene cantato: “Comus, Comus…”. E non sembra un nome, ma un’invocazione.

Passiamo a The Bite, forse il brano più sottovalutato del disco. Parte con un riff nervoso e grottesco, poi si apre in un flusso vocale delirante. Il testo parla di tortura, di denti, di carne e paura. È una danza macabra, breve ma intensissima. Il lavoro di percussioni è magistrale: sembrano battiti cardiaci accelerati, colpi di bastone sul terreno. La voce di Wootton è al limite: ringhia, strilla, supplica. Una miniatura horror.

Bitten è un intermezzo strumentale di nemmeno due minuti. Potrebbe sembrare un riempitivo, ma è invece un passaggio cruciale: un morso, un sussulto, un suono scheletrico. Sembra la colonna sonora di una scena tagliata da The Wicker Man. Serve a preparare il terreno per l’epilogo, come una pausa tra due rituali.

The Prisoner, infatti, è la chiusura perfetta. Una sorta di elegia dissonante. Il prigioniero del titolo non è solo fisico, ma mentale: è il folle, il dannato, l’emarginato. Il brano alterna momenti di calma apparente a sfoghi vocali disperati. C’è qualcosa di teatrale, da monologo shakespeariano sotto acido. Il finale si spegne lentamente, come un fuoco sacro che si estingue dopo il sacrificio.

First Utterance non è solo un disco, è un rituale. Una seduta spiritica incisa su vinile. È troppo disturbante per diventare un classico mainstream, troppo unico per essere ignorato. È l’esempio perfetto di come si possa fare musica acustica senza essere rassicuranti, anzi: facendo paura. E lo fa ancora, oggi, con la stessa forza.

Dopo questa sorta di parto demoniaco, i Comus si sciolgono nel nulla. Spariscono tra i funghi, i debiti e gli insuccessi. Tornano solo nel 1974 con To Keep from Crying, un disco più accessibile, più prog, più normale – cioè, meno interessante. Poi il silenzio. Per decenni.

Ma come ogni culto che si rispetti, Comus non muore. Rinasce. Negli anni 2000, la crescente schiera di fan li convince a riformarsi. E nel 2012 – sì, 2012! – pubblicano Out of the Coma, un disco che suona come una resurrezione dal profondo dei boschi. Non ha l’impatto del debutto, ma dimostra che il fuoco stava ancora covando sotto la cenere.

A oltre cinquant’anni dallo straniante ingresso nel mondo della musica inglese, i Comus restano un culto perché non assomigliano a niente e a nessuno. Perché sono riusciti a trasformare il folk in un’esperienza psichica, oscura, disturbante e visionaria. Perché non hanno mai ceduto al compromesso, alla normalizzazione. I Comus sono il lato oscuro della luna folk.
E chi ci entra, spesso, non ne esce.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, Frank Zappa, Genesis, David Bowie, Fairport Convention, Captain Beefheart
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