Musica

Joy Division e “Closer”, il saluto di Ian Curtis alla vita

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Ian Curtis

Il 18 maggio 1980 Ian Curtis si toglieva la vita. Aveva solo 23 anni. Il giorno dopo i Joy Division sarebbero dovuti partire per il loro primo tour americano.

Poco dopo usciva Closer, secondo e ultimo album della band capitanata da Ian Curtis: non un semplice epitaffio, ma un requiem lucido, glaciale, attraversato da fantasmi e crolli, ma anche da una strana forma di pietà. Riascoltarlo oggi è come aprire una tomba e scoprire che la voce al suo interno è ancora viva.

Il disco

Closer non è un disco goth, né un monumento al dark: è qualcosa di più profondo e fuori dal tempo. È un’opera esistenzialista, figlia di un’epoca e insieme fuori da ogni epoca, in cui la disperazione non si maschera mai da estetica ma si fa materia viva, crudele, necessaria. È un viaggio che ricorda quello dantesco: Curtis ci prende per mano e ci accompagna nei meandri più oscuri dell’esistenza, ma non per compiacerci dell’oscurità. Piuttosto, per mostrarci che soltanto attraversandola è possibile intuire la luce, o almeno la verità.

L’apertura del sipario

Il disco si apre con Atrocity Exhibition, una discesa immediata nel delirio, dove le parole si fanno rito e le chitarre si contorcono come ferri arroventati. È uno spettacolo dell’orrore, ma anche una critica all’osservatore passivo: “Questa è la via, entrate”, ci dice Ian Curtis, e non è un invito rassicurante. La canzone, che prende spunto da un romanzo sperimentale di Ballard “La fiera delle atrocità”, è un invito a guardare in faccia la follia del mondo. Isolation, subito dopo, costruisce una danza artificiale, glaciale ed epilettica (malattia della quale peraltro soffriva lo stesso Ian) sotto la quale si cela un grido di abbandono che nessuna macchina potrà mai rendere meno umano.

Joy Division

Frammenti di addio

Ogni brano di Closer è un frammento di addio, inciso nel marmo sonoro dei Factory Studios. Passover suona come una resa lucida, “questa è la crisi che sapevo sarebbe arrivata”, verso la “gente che non cambia per niente al mondo”; Colony è rabbia e rifiuto, chitarre lancinanti e sezione ritmica ipnotica trasportano l’ascoltatore nel mezzo della colonia (la società umana) impazzita, dove non basta “un grido di aiuto, un accenno di anestesia”; A Means to an End è già nostalgia per qualcosa che si è scelto di lasciare. Ma non c’è mai autocommiserazione, solo una consapevolezza tagliente. L’incedere è sgangherato e marziale allo stesso tempo, punk rallentato e disillusione. “Una casa da qualche parte in terra straniera/Dove gli amanti anziani chiamano/È questo il tuo obiettivo, i tuoi bisogni finali”, canta Ian

Esistere nel migliore dei modi possibili

In Heart and Soul, Ian Curtis mette in discussione l’intero concetto di identità e significato: “L’esistenza, beh, che importa? Esisto nel migliore dei modi possibili/ Il passato ormai fa parte del mio futuro/Il presente è ormai fuori controllo” Un quesito che sembra nichilista, ma che in realtà scava nell’essere umano più di mille inni alla speranza. Basterebbero questi sei gemme per consegnare Closer alla storia non solo della musica ma della conoscenza dell’animo umano. Ma la discesa nell’abisso non è finita. Ian la completa con i tre brani finali, che sono una lenta e struggente preparazione all’addio. 

La trilogia dell’addio

Twenty Four Hours inizia con una dolcezza indescrivibile per poi esplodere di tensione emotiva. L’innocenza si perde nel ricordo, il mondo si allontana, le nuvole sono sempre più incombenti. “Devo trovare il mio destino prima che sia troppo tardi”, canta Ian.

The Eternal è una processione funebre dove il canto di Curtis diventa preghiera. Potete ascoltare questa canzone un milione di volte, adattarla a qualsiasi situazione, il risultato sarà sempre lo stesso: la colonna sonora di un paesaggio che resta immutato mentre la vita scorre via in speed-motion. Disteso vicino al cancello ai piedi del giardino. Un pezzo eterno, appunto, con Ian che resta immobile, pronto all’ultimo passo:

“Il mio sguardo si estende dalla recinzione fino al muro/Nessuna parola può spiegare,
nessun’azione determinare/Si può solo guardare gli alberi e le foglie che cadono”

Decades chiude tutto in un sussurro spettrale, come se la voce fosse già oltre la soglia, a raccontare l’inferno di una generazione affondata nel silenzio, il canto disperato di un giovane soldato mandato al macello, il feroce trauma della crescita. Le “decadi” che scorrono e i le parti che si ripetono. Ian guarda i giovani, categoria dalla quale lui si  tira già fuori nonostante i suoi soli 23 anni, divorati da un mondo che non li capisce, che non li ha mai capiti: Ogni rituale apriva la porta ai nostri vagabondaggi. Aperta, poi chiusa, poi sbattuta in faccia.

Più della speranza: la verità

Quello che resta dopo l’ascolto di Closer non è la depressione. Non è nemmeno la morte. Closer non è un disco tetro, né un disco “maledetto”. È un disco che guarda nell’abisso, ci si perde, e ci mostra ciò che si trova quando si ha il coraggio di non distogliere lo sguardo. Non offre speranza, ma qualcosa di più raro: la verità. E, come spesso accade, solo entrando nell’oscurità si riesce davvero a vedere la luce.

Autore: Joy Division
Titolo: Closer
Genere: Post Punk, New Wave
Anno: 1980 (Factory Records)
Voto redazione: 10/10 

(articolo di Pietro Rossi – link)

— Onda Musicale

Tags: Joy Division
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