Musica

Joan Baez: “Bob Dylan? Non lo sento più. Da bambina ho subito abusi che avevo rimosso”

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La voce simbolo della canzone di protesta americana Joan Baez si racconta in versi: il distacco da Bob Dylan, l’impegno politico, gli abusi rimossi da bambina e la liberazione attraverso la scrittura e la terapia.

La domanda arriva inesorabile, attesa, puntualissima. «Speravo che almeno nella prima non fosse citato Bob Dylan», ride Joan Baez, che di battaglie ne ha combattute tante, ma forse nessuna lunga come quella contro l’etichetta di «ex di Dylan». Sessant’anni dopo la loro relazione – leggendaria, turbolenta, artisticamente potentissima – Baez alza le spalle: «Ci sono abituata». Dice: «Il film A Complete Unknown mi è piaciuto ma Bob non mi ha mai cercata per parlarne». Ed è possibile che lei lo cerchi? «No».

Ottantaquattro anni appena compiuti, i soliti mille braccialetti gitani ai polsi, Joan Baez si muove piano e sorride molto

La voce che ha cantato We Shall Overcome tra gas lacrimogeni e marce sui ponti dell’Alabama, è arrivata a Milano per presentare il suo libro di poesie e prose Quando vedi mia madre, chiedile di ballare, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo, prima dell’incontro alla Milanesiana in dialogo con Sandro Veronesi, l’elegante laboratorio culturale ideato da Elisabetta Sgarbi.

«Molte poesie le ho scritte come sotto dettatura», spiega. «Mi è stato diagnosticato un disturbo dissociativo dell’identità. Dentro di me ci sono molte Joan, e una di loro è una scrittrice. Questo libro non è un manifesto politico. È qualcosa di intimo. Risponde a un’altra voce».

La voce, però, a un certo punto si alza e nella stanza si leva il suo leggendario vibrato: One in a million di Janis Ian: We are one, we are one in a million strong… Intonazione perfetta, ma l’addio ai live è definitivo: «No, non voglio più fare tournée. Troppo faticoso. Il tour bus, i trasferimenti… non ce la faccio più. Ma scrivere? Scrivere è ancora un modo per resistere».

E per ricordare. Dylan riappare, stavolta nel suo sguardo sul film A Complete Unknown di James Mangold, dove Timothée Chalamet interpreta il giovane Bob e l’attrice Monica Barbaro è proprio lei. «Non ne ho parlato con lui. Ma il film mi è piaciuto. Barbaro è stata bravissima. E poi dai, Chalamet era troppo pulito per essere Dylan…».

Nel libro c’è anche una poesia dedicata a Jimi Hendrix

Non lo conoscevo così bene, ma quell’alba a Woodstock, con la sua chitarra che straziava l’inno americano, resta una delle immagini più potenti che abbia mai visto. Un vulcano, Jimi. Un talento purissimo»

Tra i versi, c’è anche la malattia, e quella bambina che era Joan

Da piccola ho subito abusi fisici e sessuali. Non ricordavo nulla. L’avevo rimosso. È comune tra le vittime. Ma prima o poi, se vuoi sapere, ricordi. Per anni ho avuto ansie, fobie, paure. Ho funzionato grazie alla disciplina. Niente droghe. Solo farmaci, sport, alimentazione controllata. Ma l’oscurità era lì. Così ho iniziato una terapia più profonda. Questo libro è parte di quel percorso»

L’infanzia ritorna anche nel titolo, Quando vedi mia madre, chiedile di ballare, che parla di affetti e memorie. E del padre, il fisico Albert Baez, che rifiutò di lavorare al Progetto Manhattan per motivi religiosi. «Era quacchero. Diceva: posso soffrire, ma non far soffrire. Parlava della bomba come qualcosa di inaccettabile. È stato il primo a insegnarmi la disobbedienza civile».

Che oggi ha ancora senso, secondo lei, anche in piccolo:

Ogni giorno succede qualcosa di disgustoso. Viviamo in un tempo crudele. Guardate cosa sta succedendo ad Harvard. Io mi sto dedicando a sostenere gli avvocati che lavorano per i ricongiungimenti delle famiglie immigrate. Il secondo mandato di Trump è un incubo sadico. Oggi la parola empatia è un insulto, è una cosa da deboli. Non pensavo che potessimo arrivare a tanto»

E la musica? Può ancora cambiare le cose? «Forse. Ma manca l’inno. We Shall Overcome ci faceva sentire forti, uniti. Ora ci sono tante buone canzoni, ma nessuna che impari a memoria, nessuna che canti in coro. Forse arriverà una nuova Imagine, una nuova Blowin’ in the Wind. O forse no».

Nel frattempo Joan Baez scrive poesie

E sta lavorando a un poema civile da pubblicare a puntate sui social. «Parla male di certi milionari», dice ridendo. «Sì, anche di Elon Musk». A proposito: lei una Tesla l’aveva comprata. «Sono andata a sbattere contro un albero poco dopo. Aggiustata. Poi di nuovo. Alla terza ho capito: non era destino. Forse era un segnale».

C’è spazio anche per l’Italia nei ricordi: Furio Colombo, l’amico di una vita, fu quello che la convinse a cantare C’era un ragazzo che come me e a collaborare con Ennio Morricone per Sacco e Vanzetti. «Un vero gentiluomo. Mi cantò la melodia di Here’s to You, e io scrissi le parole. L’ultima volta che lo sentii mi disse: Sono nato col fascismo, morirò col fascismo. Aveva ragione. È tornato».

E mentre si parla di Ucraina, Gaza, guerre che non finiscono, Joan non si illude

Non vedo una risposta chiara. Sono conflitti diversi, ma la dinamica è sempre la stessa: il potere che schiaccia chi ha meno. Ho dipinto un ritratto di Zelensky, l’ho appeso vicino a quello di Martin Luther King. È il mio piccolo altare della resistenza»

(articolo di Valentina Colosimo – link)

— Onda Musicale

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