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In Step di Stevie Ray Vaughan, la rinascita di un genio del blues

In Step

Alla fine degli anni Ottanta, il blues sembrava ormai relegato al ruolo di genere di culto. Gli anni d’oro erano passati, e l’epoca dei grandi shouter e dei chitarristi elettrici sembrava confinata nei libri di storia. Poi arrivò In Step, l’ultimo album in studio di Stevie Ray Vaughan.

Un disco che non solo riportava il blues al centro del panorama chitarristico, ma lo faceva con la forza e la lucidità di un sopravvissuto. Perché In Step non è solo un grande disco: è la testimonianza di una rinascita. Purtroppo, brevissima.

Ma facciamo un passo indietro.
Stevie Ray Vaughan nasce a Dallas, Texas, nel 1954. Cresce all’ombra del fratello maggiore Jimmie, già promettente chitarrista e futuro fondatore dei Fabulous Thunderbirds. È proprio Jimmie a passargli il virus della chitarra, il blues come forma di espressione totale, urlo e carezza insieme. Stevie inizia presto a suonare nei locali, stringendo amicizie musicali e coltivando una passione per i grandi del blues elettrico: B. B. King, Freddie King, Buddy Guy, ma soprattutto Jimi Hendrix e Albert King.

Tra le altre grandi influenze di Stevie, due nomi di culto, quasi sconosciuti al grande pubblico: Lonnie Mack e Danny Gatton.
La Stratocaster è quasi la sua estensione naturale. Negli anni ’70, Stevie Ray diventa una figura di culto nella scena texana: suona ovunque, spesso gratis o per pochi dollari, ma sempre con un’intensità fuori scala. Il talento è limpido, ma manca la scintilla che accenda il fuoco del successo.

La svolta arriva nel 1982, al Montreux Jazz Festival. È la prima volta che un artista senza contratto discografico viene invitato a esibirsi sul palco della prestigiosa rassegna svizzera. Il pubblico, più incline al jazz da salotto che agli assoli infuocati, non lo capisce fino in fondo. Ma in platea ci sono David Bowie e Jackson Browne. Il primo lo vuole subito per suonare in Let’s Dance. Il secondo gli offre i propri studi a Los Angeles. Nasce così Texas Flood  del 1983, un debutto folgorante che restituisce dignità e potenza al blues elettrico.

Da lì in poi, Stevie Ray non si ferma più. Incide album acclamati, anche se non ispiratissimi (Couldn’t Stand the Weather, Soul to Soul), sale sui palchi di tutto il mondo, collabora con nomi del calibro di Jeff Beck, Carlos Santana e Albert King. Ma dietro la facciata brillante si cela una discesa silenziosa ma costante nell’abisso.

Cocaina, alcol, sfinimento fisico. Stevie suona ogni sera come se fosse l’ultima, e intanto consuma se stesso. Alla fine del 1986, dopo un tour estenuante in Europa, crolla. Viene ricoverato per collasso e pancreatite. Solo a quel punto, con la morte davanti agli occhi, decide di fermarsi. Si disintossica, frequenta gruppi di supporto, riprende in mano la sua vita.

Quando torna, nel 1989, è un altro uomo. E lo dimostra con In Step, l’album che lo racconta in controluce, traccia dopo traccia.
Ma non è solo un ritorno artistico: Stevie Ray è di nuovo in piedi, e più determinato che mai. Torna sui palchi con energia nuova, divide la scena con B.B. King, Eric Clapton, Robert Cray. A ogni concerto, racconta il percorso fatto per uscirne, come un bluesman redento che vuole salvare anche gli altri. Pare quasi in missione per conto di Dio, come i Blues Brothers.

Poi, il destino decide di interrompere la corsa. È il 27 agosto 1990. Dopo un concerto memorabile con Clapton e altri giganti a East Troy, nel Wisconsin, Stevie sale su un elicottero che dovrebbe riportarlo a Chicago. Poco dopo il decollo, il velivolo si schianta contro una collina. Non ci sono superstiti. Stevie Ray Vaughan muore a 35 anni, al culmine della sua parabola.

Ma ci lascia In Step, il suo testamento musicale. L’album di un uomo che ha guardato in faccia i suoi demoni e ha deciso di restare in piedi. Uno dei dischi blues più potenti, maturi e sinceri degli ultimi quarant’anni.

In Step nasce in un momento preciso, e non è un caso. È il 1989, Stevie Ray Vaughan è finalmente pulito, dopo anni di autodistruzione chimica. È tornato dalla clinica con la mente lucida, la chitarra tra le mani e una voglia di riscatto che si sente in ogni nota. Il titolo dell’album è emblematico: “in step” è un’espressione che indica l’andare al passo, allinearsi, rientrare nel ritmo della vita. Un riferimento diretto al programma dei Dodici Passi degli Alcolisti Anonimi, che Vaughan aveva intrapreso.

Ma non è solo questo: In Step è il disco di un uomo che ha rischiato di perdersi per sempre e ha deciso, invece, di tornare a suonare come se ogni assolo fosse il primo. O l’ultimo.
Il disco viene registrato tra gennaio e marzo del 1989 nei Sound Castle Studios di Los Angeles e nei Kiva Studios di Memphis. Accanto a Stevie Ray, i fedelissimi Double Trouble, cioè Chris Layton alla batteria e Tommy Shannon al basso, che lo accompagnavano fin dai tempi di Texas Flood. Ma c’è anche una nuova entrata fondamentale: il tastierista Reese Wynans, già in orbita southern rock, capace di aggiungere colori gospel e soul al suono grezzo e potente della band.

La presenza delle tastiere sarà determinante per l’equilibrio del disco: niente a che vedere con gli orpelli elettronici tipici degli anni Ottanta, qui il sound resta crudo, viscerale, ma guadagna in profondità.
La produzione è curata da Jim Gaines, che aveva già lavorato con artisti del calibro di Santana e Luther Allison. La copertina dell’album è sobria: Vaughan in trench scuro, cappello e chitarra, con lo sguardo basso e assorto, quasi a indicare che il tempo dell’eccesso è finito. Non c’è bisogno di pose da guitar hero: basta che sia la musica a parlare.

Ma non dimentichiamo il contesto. Alla fine degli anni Ottanta, il blues non è certo il genere più in voga. I suoni sintetici, la plastificazione delle produzioni, l’edonismo dei videoclip e dei lustrini MTV sembrano aver confinato la musica del diavolo in una nicchia per nostalgici.

Il rock si è fatto arena da stadio, il pop è diventato prodotto e i chitarristi blues sembrano reliquie. Ma proprio quando il blues sembra definitivamente tramontato, artisti come Vaughan, Robert Cray, e pochi altri riescono a riportarlo al centro della scena. E lo fanno senza troppi compromessi.
In Step, in questo panorama, è un’anomalia: un album blues che suona vivo, contemporaneo, ma senza cedere alla tentazione di aggiornarsi a tutti i costi. Non c’è una sola drum machine, nessuna tastiera fuori posto, nessun effetto che non sia lì per servire l’emozione. E questo è uno dei suoi miracoli: sembrare attuale nel 1989 pur affondando le radici nella tradizione più pura.

Come già Texas Flood, In Step alterna pezzi vocali e strumentali, brani veloci e lenti dolorosi, shuffle texani e incursioni quasi funk. C’è lo spazio per i virtuosismi, certo, ma non sono mai fini a se stessi: ogni assolo è al servizio del pezzo. La struttura dell’album, in fondo, è quella del grande classico blues che porta l’ascoltatore tra demoni e redenzioni, e lascia con la sensazione di aver viaggiato attraverso la vita di un uomo. Solo che stavolta quell’uomo ha davvero rischiato tutto.

L’album si apre con un pugno allo stomaco: The House Is Rockin’ è un’esplosione di boogie texano senza freni. È come se Stevie Ray volesse dire subito: sono tornato, sto bene, e la mia chitarra sta pure meglio. Ritmo serrato, voce graffiata, assolo fulminante. Il piano aggiunge un tocco da juke joint anni Cinquanta e la voce di Stevie Ray echeggia quasi quella di Elvis. Il suono della Strato di SRV è quello proverbiale, i suoi ganci sempre gli stessi. Eppure, c’è qualcosa di nuovo e salvifico, che forse mancava: la misura.

A ruota arriva Crossfire, forse uno dei brani più “moderni” del disco, con un groove quasi funky e un basso prepotente che fa da tappeto alla Stratocaster indemoniata.
È un pezzo di gruppo, dove si sente quanto i Double Trouble siano ormai una macchina perfetta, e dove il nuovo assetto con le tastiere di Wynans aggiunge quella sfumatura in più che mancava nei dischi precedenti. Non è proprio blues, ma sarà uno dei pezzi più imitati dai futuri eroi del genere.

Con Tightrope, il tono cambia. È il brano manifesto del disco, anche nel testo: l’equilibrio tra il passato oscuro e il presente ritrovato, il filo sottile tra ricaduta e rinascita. “I’m walking the tightrope, both sides of the blade”: è autobiografia pura, e la chitarra lo traduce in frasi tese, sfrigolanti, sempre in bilico tra rabbia e consapevolezza.

Let Me Love You Baby è una cover di Willie Dixon, spesso suonata da Buddy Guy, ma qui sembra scritta apposta per Stevie: è veloce, tirata, e lascia spazio a un assolo che è una sassata. Soprattutto, è una boccata d’aria fresca per i cultori del blues duro e puro.

Il revival delle dodici battute prosegue con la quiete apparente di Leave My Girl Alone, lento e doloroso, dove SRV canta con un’intensità che fa pensare più a Otis Rush, Buddy Guy e tutta la nobile schiatta dei bluesmen di Chicago. Qui il virtuosismo si fa discreto: la chitarra piange, respira, si prende il tempo di raccontare. Anche qui però la maturazione di SRV è palese. Se qualche anno prima avrebbe preso il toro per le corna e sciorinato assoli per dieci minuti, qui si contiene, ma fa gemere la Strato come nessuno forse farà più.

Un plauso va poi alle prestazioni vocali di Stevie Ray. Sempre osannato per la chitarra – giustamente, per carità – ma troppo poco valorizzato per la sua splendida e sofferta voce. Persino John Lee Hooker, uno che doveva portare gli occhiali da sole perché piangeva mentre cantava, ne tessé le lodi.

In Travis Walk invece si torna a correre: è uno strumentale frenetico, un tour de force chitarristico dove Vaughan può finalmente sfogarsi senza filtro, senza parole, solo con le dita. Una corsa sulle corde nello stile quasi surf dell’idolo di gioventù Lonnie Mack.

Wall of Denial riporta il discorso sul piano personale. Il riff è potente, quasi minaccioso, e accompagna un testo che parla del rifiuto di affrontare la verità, del nascondersi dietro muri immaginari. È un blues rock cupo e viscerale, quasi sabbioso, e uno dei momenti più intensi del disco. Scratch-N-Sniff alleggerisce l’atmosfera con uno shuffle scanzonato, texano fino al midollo, che sembra uscito da un club pieno di birra e risse tra camionisti al sabato sera. Forse somiglia un po’ all’iniziale The House is Rockin’, a conferma di una vena compositiva non sempre all’altezza.

Love Me Darlin’, altro omaggio a Willie Dixon, che restituisce Stevie alle sue radici più profonde, quelle che non ha mai dimenticato, neppure nei momenti più bui. Si torna di nuovo in un fumoso club della Chicago di fine anni Cinquanta, quella dove i neri arrivati dal Mississippi in cerca di lavoro finirono per rivoluzionare il blues elettrico.

Chiude tutto Riviera Paradise, otto minuti di pace sospesa. È una ballata strumentale jazzata, elegante, quasi fuori dal tempo. Niente distorsione, niente foga: solo sensibilità, controllo, bellezza. È il Vaughan che non ti aspetti, quello che sa quando rallentare, quando togliere invece che aggiungere. Col senno di poi, un pezzo di una serenità che commuove.

E così si chiude In Step, disco straordinario dove Stevie Ray Vaughan trova finalmente il suo punto di equilibrio tra il virtuosismo sfrenato dei primi anni, la furia autodistruttiva del passato e una maturità artistica che stava solo cominciando a fiorire. È un album potente, sincero, senza fronzoli: il blues come dovrebbe essere.

Certo, a voler essere pignoli, si potrebbe dire che la struttura del disco ricalca un po’ troppo quella di Texas Flood e degli altri album precedenti: lenti, shuffle, strumentali, tutto al posto giusto come da manuale SRV. Alcuni brani somigliano a cose già sentite, e forse è vero che, a livello di scrittura, non c’è una vera svolta.

Ma resta il grande rimpianto: cosa avrebbe potuto fare ancora, Stevie Ray Vaughan, se il destino non avesse deciso di fermarlo l’anno dopo, con quel maledetto elicottero?
Perché In Step è l’inizio di qualcosa, non la fine. È il primo disco di un musicista rinato, che aveva appena imparato a dominare i suoi demoni e a metterli al servizio della musica.

E l’eredità si sente ancora oggi. Da quel momento in poi, quasi tutti i chitarristi bianchi che si avvicinano al blues—da Joe Bonamassa a Kenny Wayne Shepherd, passando per John Mayer nei momenti ispirati—stanno, più o meno consapevolmente, cercando di suonare “alla Stevie”.
Quelle frasi veloci e taglienti, il suono ruvido ma controllato, quella miscela di potenza e precisione è diventata la grammatica del blues contemporaneo. Stevie Ray Vaughan non ha solo riportato il blues in vita: gli ha dato una nuova voce, e quella voce ancora risuona.

— Onda Musicale

Tags: Stevie Ray Vaughan, Jeff Beck, Albert King
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