I Black Sabbath stanno per salutare definitivamente i palchi, ma il loro impatto sulla musica resta indelebile.
Ozzy Osbourne e compagni si esibiranno il 5 luglio 2025 per un’ultima volta a Villa Park, nella loro città natale (Birmingham), un addio segnato da ospiti d’eccezione come Metallica e Slayer. Un’occasione perfetta per ricordare quanto fosse provocatoria la loro musica nel periodo d’oro.
A testimoniarlo, basta la vibrante recensione di un giornalista di Aberdeen, pubblicata sul Press and Journal nel maggio del 1978. «Ho passato una serata inquietante ieri sera in compagnia dei Black Sabbath», scrive con un misto di sgomento e fascinazione, descrivendo il concerto come un «rituale macabro». Il batterista, una figura barbuta che evocava un Cristo impetuoso, si esibiva a torso nudo, mentre la musica risuonava ossessiva, aggressiva, quasi mistica. La voce, indecifrabile, sembrava un incantesimo oscuro.
Il giornalista conclude con una confessione emblematica: «Devo ammettere che i Black Sabbath non mi sono piaciuti, almeno all’inizio. Alla fine, però, mi sono sentito sopraffatto da un volume tale da colpire allo stomaco e fare tremare i jeans». Un elogio involontario, che testimonia la carica rivoluzionaria della band anche dieci anni dopo la sua nascita. Se il loro sound poteva spiazzare e conquistare gli ascoltatori più diffidenti, significava che avevano creato qualcosa di veramente pionieristico.
I Black Sabbath, con Ozzy Osbourne e Ronnie James Dio, sono stati una delle formazioni più straordinarie della storia del rock e del metal. Qual è la loro opera definitiva?Ecco la nostra opinione e la classifica dei loro migliori album.
10) Technical Ecstasy (1976)

Potrebbe far storcere il naso a molti, e forse a ragione: Technical Ecstasy non è certo il capolavoro dei Black Sabbath. Alcuni lo considerano addirittura il punto più basso della loro discografia. Eppure, a ben vedere, merita almeno un riconoscimento perché rappresenta comunque uno sforzo teso a rompere gli schemi. Per una band che, nel tempo, ha finito per emulare sé stessa più del necessario, questo album rappresenta un tentativo, seppur imperfetto, di evoluzione. Ultimo lavoro della prima fase di Ozzy Osbourne come frontman, Technical Ecstasy si apre con il discreto vigore di Back Street Kids, per poi sorprendere con It’s Alright, un brano dal sapore Beatlesiano. She’s Gone, con la sua sobrietà insolitamente delicata per i Sabbath, aggiunge un’ulteriore sfumatura inaspettata, mentre Dirty Woman lascia intravedere un futuro che, con un’ispirazione più marcata, avrebbe potuto portare la band verso una reinterpretazione più moderna. Lo amerai? Lo detesterai? È un album divisivo, senza dubbio. Ma se c’è un modo giusto per giudicarlo, è ascoltarlo senza preconcetti e lasciare parlare la musica.
9) Mob Rules (1981)

The Mob Rules segna un ritorno allo spirito di Heaven and Hell, ma con sfumature più decise e una nuova intensità vocale che, per quanto breve, lascia il segno. Il momento più alto dell’album arriva con The Sign of the Southern Cross, un crescendo monumentale che permette a Ronnie James Dio di espandere la sua potenza vocale su un tappeto sonoro ipnotico e imponente. L’headbanging è lento e costante, la melodia avvolgente, mentre il brano si trasforma in una dichiarazione di forza e teatralità.
8) Sabotage (1975)

Il sesto e ultimo capitolo di una serie di album straordinari segna il momento in cui i Black Sabbath raggiungono l’apice del loro successo. Ozzy Osbourne tocca vette vocali che difficilmente avrebbe eguagliato in seguito, sia in studio sia sul palco. Grazie a Symptom of the Universe, la band spalanca le porte del metal, tracciando la strada per generazioni di gruppi progressive metal che seguiranno. Supertzar, con la sua imprevedibile svolta “metal-gospel”, è la prova tangibile di una band ormai sicura di sé, che osa sperimentare solo per il piacere di farlo, e ci riesce. L’apertura dell’album, Hole in the Sky, è una perla spesso sottovalutata, dove il basso graffiante incontra il twang ipnotico della chitarra di Tony Iommi, creando un’atmosfera magnetica e feroce. Suona quasi come un proto-Oasis in chiave metal? Forse è un’interpretazione azzardata. O forse no.
7) 13 (2013)

Il loro primo album in studio dopo 18 anni (e il primo di Ozzy dopo 35) è davvero buono. La produzione di Rick Rubin sfrutta al massimo il tempo che è passato dall’ultimo lavoro per tornare a fare quello che i Black Sabbath sanno fare meglio, con qualche ritocco qua e là per allineare il suono in modo sorprendente alla scena metal moderna. Sembra ovvio dirlo, ma c’è una maturità evidente nella paziente e potente God is Dead?, che ha fatto vincere alla band il suo primo Grammy in 14 anni, mentre Zeitgeist rimette in moto la vecchia macchina e regala una dose inebriante di grande musica.
6) Heaven and Hell (1980)

Un buon album, senza dubbio. Se sia un capolavoro dipende tutto da quanto si apprezzano gli elementi fantastici che Ronnie James Dio ha introdotto nei testi della band. Tralasciando le “parole” che possono risultare discutibili, la sicurezza musicale è semplicemente innegabile. Neon Knights apre la corsa con un ritmo serrato e irresistibile, che non concede tregua fino all’ultima nota dell’album. L’energia non si disperde, anzi, si rigenera con freschezza in Walk Away, un pezzo vibrante e positivo. Poi arriva Lonely is the Word, che suona quasi come un malinconico sguardo retrospettivo al regno di Ozzy Osbourne, una riflessione velata ma potente. Infine, non è possibile non parlare della copertina. Un’immagine iconica che, ancora oggi, incarna perfettamente l’estetica e il simbolismo della band.
5) Sabbath Bloody Sabbath (1973)

Tre anni dopo che i Led Zeppelin avevano superato un blocco creativo chiudendosi in una grande vecchia casa di campagna finché non ne fossero usciti con qualche canzone, i Black Sabbath affrontarono la stitichezza creativa di Tony Iommi facendo la stessa cosa. E funzionò! Subito! Iommi scrisse il riff portante della title track già il primo giorno, e da lì nacquero la ipnoticamente enigmatica A National Acrobat, il vertiginoso intreccio melodico di Sabbra Cadabra e Killing Yourself to Live, prima che le ultime tre tracce dell’album ci offrissero un’anteprima del suono futuro, realizzato poi pienamente da Sabotage.
4) Vol. 4 (1972)

Stiamo davvero spaccando il capello in quattro in questa classifica, tanta è il livellamento verso l’altro della loro qualità. Nascoste in un angolo di Vol. 4 ci sono la ballata pianistica alla Elton John Changes, il Sabbath a doppia concentrazione di Supernaut e, naturalmente, l’ode alla cocaina Snowblind. In questo disco erano una band che faceva quello che voleva, e lo realizzava molto, molto bene.
3) Master of Reality (1971)

A poco più di un anno dal loro debutto, i Black Sabbath danno vita a un terzo album straordinario, un’opera che testimonia la piena maturità artistica della band. Ogni brano trasuda una forza inaudita, che si tratti del fragoroso muro sonoro di Sweet Leaf o dell’innovativa tecnica chitarristica di Tony Iommi. Dopo avereperso due polpastrelli in un incidente in fabbrica anni prima, Iommi trovò un modo per trasformare la sua difficoltà in un tratto distintivo: abbassò l’accordatura della chitarra di un tono e mezzo, soluzione che non solo gli permise di suonare con minore dolore, ma contribuì a dare ai brani un suono ancora più oscuro e imponente. Children of the Grave, Lord of this World e Into the Void ne sono la prova: riff pesanti, profondi e carichi della sicurezza che la band aveva conquistato con il suo successo iniziale.
2) Black Sabbath (1970)

Un album di debutto registrato in due giorni che avrebbe cambiato la musica per sempre. Il disco inizia con una title track dal tono definitivo, carica di minaccia e cattiveria, un furioso rifiuto della sensibilità hippie della cultura in cui è nato. Le acrobazie del basso di Geezer Butler in N.I.B rivelano una grande abilità di eccitare con quello strumento, e Sleeping Village non lascia dubbi all’ascoltatore, se in qualche modo ne avesse ancora a quel punto dell’album, sul fatto che questo nuovo “heavy metal” non sia arrivato per fare il bravo. Sporco, depravato, demoniaco. Diabolicamente buono.
1) Paranoid (1970)

A volte, la risposta più ovvia è anche quella giusta. Da dove partire? Naturalmente dall’inizio. War Pigs, originariamente concepita come title track dell’album, incarna perfettamente la sua essenza: un’invettiva politica potente e viscerale, un viaggio musicale che raccoglie tutte le caratteristiche distintive del primo sound dei Black Sabbath. Accanto a essa, Hand of Doom si pone come un altro esempio della loro visione sonora. E poi c’è Iron Man, dimora di uno dei riff più iconici mai creati con una chitarra, un monumento del rock destinato a scolpirsi nella memoria collettiva. E tra i brani che avrebbero meritato di dare il titolo al disco spicca anche Paranoid, un’aggiunta dell’ultimo minuto alla tracklist. Scritta da Tony Iommi in una pausa pranzo, con testi improvvisati da Geezer Butler, la canzone si è trasformata in un inno immortale, capace di trascendere generazioni. Mai la nave dei Black Sabbath ha navigato con una tale sicurezza, spinta da un forte vento di creatività e audacia musicale.
(Articolo originariamente pubblicato su GQ UK)