Alla fine degli anni ’60, il rock inglese freme per cambiare pelle. Le canzoni di tre minuti si fanno complesse, i testi filosofici, le melodie si strutturano, entrano fiati, archi, suoni distorti e strumenti da conservatorio. I Beatles hanno aperto la via, i King Crimson l’hanno stravolta, e in quel vuoto fertile nasce il progressive rock che darà vita anche a Pawn Hearts: un ibrido colto e barocco, che sconfina nella musica classica, nel jazz, nell’elettronica e nella follia pura.
In questa nuova geografia sonora, nomi come Genesis, Yes, Gentle Giant ed Emerson, Lake & Palmer diventano miti. Ma c’è una band che brilla di una luce particolare nel pantheon del prog. Cupa, teatrale, letteraria.
I Van Der Graaf Generator di Pawn Hearts.
Un nome impronunciabile, una proposta sonora a tratti respingente, e un frontman, Peter Hammill, che sfoggia una delle voci più belle del movimento
La storia inizia a Manchester nel 1967, tra le aule dell’università. Peter Hammill, studente di lettere con il pallino della musica, forma una band con il tastierista Chris Judge Smith. Il nome scelto è preso in prestito da una macchina inventata nel XIX secolo per produrre energia elettrostatica: il Van de Graaff generator. Hammill, amante delle metafore, ne fa un simbolo: la loro musica sarà altrettanto carica, instabile e pronta a sprigionare scintille.
La prima formazione si scioglie quasi subito, ma Hammill non molla. Si trasferisce a Londra e rifonda il gruppo, coinvolgendo Hugh Banton (organo e tastiere), Guy Evans (batteria) e poco dopo David Jackson, sassofonista e flautista dotato di tecnica spaventosa e immaginazione ancora più selvaggia. Il basso, quando serve, lo fa l’organo con pedali e filtri. Niente chitarra, se non in rari momenti: i Van Der Graaf viaggiano su binari diversi, elettrici, liturgici e disturbati.
Nel 1969 esce The Aerosol Grey Machine, disco di debutto inizialmente pensato come album solista di Hammill, ma poi pubblicato a nome della band. È un lavoro ancora acerbo, ma già venato da spettri, alienazione e tormenti interiori.
È con The Least We Can Do Is Wave to Each Other (1970) che il gruppo trova la sua vera voce. Un concept malinconico e apocalittico, dove i testi di Hammill – a metà tra il romanzo distopico e la poesia metafisica – si intrecciano a una musica scura e sghemba, più simile a un rito che a un concerto
Il successivo H to He, Who Am the Only One (1970), registrato con la collaborazione di un certo Robert Fripp alla chitarra, è un salto quantico. Il titolo fa già tremare i polsi – un riferimento all’idrogeno ed entità divine interiori – e le canzoni sono veri incubi orchestrati. Nessuna concessione alla melodia facile. Le strutture sfuggono, si piegano, implodono. È prog, sì, ma senza gli arabeschi leziosi di tante altre band coeve. Qui non ci sono fate o giardini d’Inghilterra: ci sono ossessioni, vuoti cosmici e creature della mente.
La critica comincia a riconoscerne l’audacia, il pubblico (quello colto, nerd e un po’ masochista) li adora. I Van Der Graaf diventano un culto. In patria restano ai margini, ma in Italia esplodono: nel 1971, durante una delle prime tournée nel nostro Paese, la band viene accolta come una divinità dell’Olimpo prog. Hammill si esprime spesso in italiano nei concerti, il pubblico impazzisce, i dischi vanno a ruba. Un amore reciproco che dura ancora oggi.
Ed è proprio nel novembre del 1971 che i Van Der Graaf Generator pubblicano quello che per molti è il loro capolavoro assoluto. Un disco cupo, esoterico, monolitico. Un viaggio nei recessi della coscienza, della politica, del tempo e della morte. Un disco che distrugge la forma-canzone e la ricompone come un puzzle impazzito.
Il suo nome è Pawn Hearts.
Siamo nell’estate del 1971, e i Van Der Graaf Generator sono nel pieno del loro momento creativo più incendiario. Dopo il tour europeo e l’inaspettato successo in Italia, la band si chiude nei mitici Trident Studios di Londra – tempio sacro del rock britannico, dove avevano inciso o lo faranno anche Beatles, Bowie e Queen – per dare vita al nuovo lavoro
Alla produzione torna John Anthony, già al timone del precedente H to He. Anthony è uno di quei produttori che non si mettono in mezzo, ma assecondano la follia creativa della band, lasciandole carta bianca. E con i Van Der Graaf, questa è spesso una mossa tanto rischiosa quanto necessaria: cercare di contenerli sarebbe come voler dare forma narrativa a un sogno.
La formazione è la più iconica del gruppo: Peter Hammill: voce, chitarra acustica, piano elettrico e “presenza scenica esistenziale”. Hugh Banton: organo Farfisa, Hammond, Mellotron, basso a pedali, sintetizzatori. David Jackson: sassofoni (spesso suonati in contemporanea grazie a un sistema di respirazione circolare degno di un fachiro), flauto. Guy Evans: batteria, percussioni, spirito ritmico e corpo solido del caos.
Non manca anche un ospite illustre, ormai di casa: Robert Fripp, che infila le sue chitarre oblique in due tracce e aggiunge un tocco crimsoniano al suono già torbido della band.
Il titolo del disco, Pawn Hearts, è l’ennesima creatura ambigua di Hammill. Un gioco di parole tra “pawn” (pedone degli scacchi o oggetto dato in pegno) e “porn hearts”, come suggerito in alcune interviste. Cuori usati, manipolati, sacrificabili. Un’umanità ridotta a pedine. Una dichiarazione di poetica e di poetica politica, in piena era post-’68.
La copertina è firmata Paul Whitehead, lo stesso artista che aveva creato gli artwork più celebri dei Genesis. Stavolta, però, il tono è molto più onirico e angosciante: figure stilizzate, quasi ectoplasmi, si muovono in un paesaggio sospeso, come in un sogno lucido o in una partita a scacchi cosmica. L’artwork, denso di simbolismo, incarna perfettamente l’album: misterioso, stratificato, alieno.
Ma è la struttura musicale a rendere Pawn Hearts un unicum nel panorama prog. Nel Regno Unito, il disco esce con tre tracce: due suite sulla prima facciata e una lunga composizione da venti minuti sulla seconda, che occupa l’intero lato B
In altri Paesi – tra cui l’Italia – viene pubblicata un’edizione con un brano in più (Theme One, strumentale prodotto da George Martin per la BBC), ma è nella versione inglese originale che l’album sprigiona tutta la sua coerenza.
Qui non si tratta solo di prog. Pawn Hearts è un organismo cangiante, a metà strada tra un dramma da camera e una sinfonia postmoderna. Gli strumenti si piegano, si rincorrono, si sovrappongono. Le linee del sassofono di Jackson diventano urla, i tasti di Banton evocano cattedrali gotiche, mentre la voce di Hammill attraversa tutte le gradazioni del delirio umano: sussurra, piange, accusa, profetizza.
Il Mellotron domina molte sezioni, evocando atmosfere tanto solenni quanto distorte. I pedali d’organo, usati come basso, creano un suono profondissimo e quasi subsonico, mentre le sovraincisioni di sax – spesso dissonanti e trattate elettronicamente – danno al disco una qualità allucinatoria, quasi da jazz elettrico apocalittico.
Le influenze sono molteplici, ma mai letterali: Bach e Stravinskij si affacciano tra le pieghe dei brani, ma ci sono anche echi di Brecht, delle avanguardie dada, del free jazz più estremo e della science fiction esistenziale di Philip K. Dick
L’album si muove in bilico tra musica da camera post-prog e un teatro dell’assurdo in forma sonora. La canzone, semplicemente, muore dentro Pawn Hearts. Quello che resta è una liturgia visionaria in tre atti. Una messa laica in cui l’ascoltatore è chiamato a perdersi, con o senza guida.
Pawn Hearts si apre con una vertigine: Lemmings (including Cog) è un flusso sonoro che travolge subito l’ascoltatore, senza preparazione. Nessun riff, nessuna introduzione “amichevole”: solo un organo che si apre come un sipario sinistro e poi la voce di Hammill che comincia a interrogare il mondo. Il brano è costruito come un precipizio: si parte con un’apparente calma, poi tutto si rompe, si frantuma, si decompone. È una composizione fluviale, disseminata di interruzioni e momenti stridenti.
I lemmings del titolo – notoriamente associati al suicidio di massa a causa di una vecchia bufala dura a morire – sono una metafora feroce dell’umanità, dei suoi automatismi, delle sue illusioni. La parte “Cog”, in particolare, assume i contorni di un meccanismo impazzito, dove sassofoni e tastiere collassano su se stessi. Una sorta di prog da fine del mondo, che non cerca mai il bello: solo il vero.
Il secondo brano, Man-Erg, è probabilmente uno dei vertici poetici di tutta la discografia della band. Parte come una dolente ballata pianistica, quasi romantica, con Hammill che canta: “The killer lives inside me: yes, I can feel him move.” L’uomo e l’assassino convivono nello stesso corpo, nello stesso animo, nello stesso canto. Il brano, però, non si accontenta della malinconia: a metà si apre in una sezione violenta e stridente, con i sax sovraincisi di Jackson che sembrano trapani cerebrali. Poi torna il tema iniziale, ma deformato, come se l’identità stessa si fosse scomposta.
È un brano sull’ambiguità, sull’impossibilità di ridurre l’essere umano a una categoria. Un viaggio psichico che fa a pezzi il concetto di “io” con la forza della musica
Ma è sul lato B che Pawn Hearts mostra tutto il suo coraggio. Lì c’è una sola traccia: A Plague of Lighthouse Keepers. Venti minuti di suite, divisa in dieci sezioni, in cui Van Der Graaf Generator abbattono definitivamente ogni convenzione musicale. Nessun ritornello, nessun formato strofa-assolo-strofa: è una narrazione frammentata, allucinata, visionaria. Un guardiano del faro – simbolo della solitudine estrema, del confine tra luce e abisso – è il protagonista di questo poema sonoro. Si interroga, si colpevolizza, assiste a naufragi interiori e reali, combatte la propria impotenza di fronte al caos del mondo.
Le parti musicali vanno dal piano appena sfiorato alla furia orchestrale; ci sono frammenti di jazz, cori gregoriani sintetizzati, sezioni noise ante-litteram. La voce di Hammill cambia registro di continuo: narra, urla, bisbiglia, supplica. Robert Fripp appare come un fantasma sonoro, distillando frammenti di chitarra che sembrano più pensieri che note. La suite si conclude in modo ambiguo, con un finale che sembra promettere una catarsi, ma lascia il dubbio. Il guardiano del faro è salvo? O è annegato nei suoi stessi incubi?
Con Pawn Hearts, i Van Der Graaf Generator realizzano non solo il loro capolavoro, ma uno dei dischi più audaci e disturbanti della storia del progressive. Un’opera che rifiuta qualsiasi ammiccamento, che costringe l’ascoltatore alla vertigine, che non consola. Proprio per questo, è anche l’album più amato dai fan più radicali, e quello che ha segnato l’immaginario del prog europeo.
In patria, l’album passa quasi inosservato. In Italia, invece, è un trionfo: Pawn Hearts raggiunge il primo posto in classifica, un risultato clamoroso per un disco del genere. La band viene accolta come una setta mistica: Hammill è un eroe dark, i concerti sono eventi ipnotici, il pubblico recita i testi come fossero vangeli distopici. Il successo è tale da spingere i Van Der Graaf a tornare più volte nel nostro Paese, in un rapporto viscerale che continua tutt’oggi.
Dopo Pawn Hearts, però, le cose si complicano. Il tour estenuante, le tensioni interne, la natura stessa del progetto – troppo complesso, troppo “altro” – portano la band a sciogliersi momentaneamente. Hammill si concentra sulla carriera solista, ma nel 1975 il gruppo torna con una nuova formazione e un suono ancora più cupo e minimale, quasi proto-industriale. Dischi come Godbluff e Still Life sono ancora capolavori, ma meno sinfonici, più claustrofobici.
L’entusiasmo della critica resta alto, ma il pubblico si fa più ristretto. Dopo un secondo scioglimento nel 1978, la band si riunisce più volte negli anni successivi, con formazione variabile e dischi a tratti molto interessanti (Present, 2005; Do Not Disturb, 2016), ma sempre consapevole della propria unicità
Oggi i Van Der Graaf Generator sono una leggenda vivente, seppure sommersa. Non hanno mai avuto il successo commerciale di Genesis o Yes, ma hanno lasciato un segno indelebile in chi li ha incontrati. Perché, alla fine, Pawn Hearts resta non solo il loro disco più potente, ma un manifesto di musica come esperienza esistenziale totale. Non è un album da sottofondo. È una porta. Una che si apre su un mondo instabile, spaventoso, ma profondamente umano. Chi ha il coraggio di varcarla, raramente torna indietro.