Nell’Italia degli anni Sessanta, che si è appena distaccata dalla classica canzone all’insegna del Bel Canto, l’avanguardia non esiste. Nel 1967 impazza il Beat, quasi sempre cover di pezzi tradotti dall’inglese. In questo contesto, irrompe il progetto Le Stelle di Mario Schifano, con cui nasce l’underground nostrano.
Quando si parla di psichedelia musicale, vengono subito in mente gli Stati Uniti della Summer of Love, con i Jefferson Airplane che volano alto e i Grateful Dead che sperimentano suoni lisergici. Oppure l’Inghilterra dei Pink Floyd di Syd Barrett, che trasformano il rock in un trip visivo e sonoro. L’Italia, a metà anni Sessanta, era invece ancora alle prese con il beat: chitarrine, coretti e canzoncine in stile Liverpool, declinate però con un gusto tutto nostrano. E invece, nel 1967, ecco Le Stelle di Mario Schifano, una delle avventure più sorprendenti e anomale della musica italiana.
La formazione iniziale è quella tipica di una giovane band romana di fine anni Sessanta. Urbano Orlandi alla chitarra, Sergio Cerra alla batteria, Giandomenico Crescentini al basso e Nello Marini alle tastiere. Ragazzi cresciuti tra beat e rhythm & blues, con tanta voglia di spingersi oltre i confini rassicuranti della musica commerciale. A fare da detonatore creativo arriva Mario Schifano, pittore e artista pop tra i più noti della scena romana. Uno che viveva tra tele, happening e provocazioni visive.
L’incontro tra i musicisti e Schifano è folgorante: lui vede nei ragazzi lo strumento ideale per trasformare le sue intuizioni pittoriche in esperienza sonora, loro trovava in lui una guida capace di aprire le porte della sperimentazione.
Non è un caso che la critica abbia spesso paragonato Le Stelle di Mario Schifano ai Velvet Underground di Andy Warhol. Là c’era la Factory newyorkese, con Warhol a orchestrare visioni pop e oscure, qui c’era Roma, con Schifano a interpretare la parte di guru visivo. Proprio come Lou Reed e soci erano diventati il braccio sonoro delle visioni di Warhol, così i quattro ragazzi romani incarnavano le ossessioni e le ispirazioni del pittore.
All’inizio le esibizioni sono veri e propri spettacoli multimediali: musica, diapositive, luci psichedeliche, performance. Un’esperienza totale, che anticipa di anni il concetto di “concerto-spettacolo” in Italia. Da queste prove nasce il progetto di incidere un disco, ed è così che nel 1967 vede la luce Dedicato a…, il primo e unico album de Le Stelle di Mario Schifano. Un lavoro che rimarrà un unicum nella discografia italiana, sospeso tra rock, arte contemporanea e sperimentazione pura.
Dedicato a… è l’unico LP ufficiale legato al nome Le Stelle di Mario Schifano, uscito originariamente nel 1967 e pensato come un’opera totale che fonde musica psichedelica, happening e arte visiva.
Il vinile è strutturato in modo volutamente sbilanciato: il primo lato è occupato da una suite improvvisata e lisergica che sfocia in un lungo fiume sonoro. Il secondo lato contiene cinque brani più brevi e riconoscibili, contaminati però da inserti sperimentali e da collage sonori (jingles, frammenti parlati, effetti). È un’impostazione che dichiara subito l’intento, non un disco pop da radio, ma un’installazione sonora.
Dal punto di vista strumentale si respira psichedelia italiana con chitarre, organi e basso impegnati in ampie improvvisazioni. Non mancano trovate tipiche dell’avanguardia pop dell’epoca (campionamenti, sovraincisioni, interventi esterni come ospiti), che contribuiscono a rendere il suono meno beat e più performance collettiva. Tra i crediti compare anche la presenza di un ospite sulla suite principale, Peter Hartman, a sottolineare la natura ibrida del progetto.
La cura dell’oggetto è parte integrante del messaggio. Mario Schifano non si limita a prestare il nome, ma controlla immagine e confezione. Il packaging si compone di copertina argentata apribile, foto ritoccate, un’estetica pop-art che trasforma il disco in un pezzo d’arte oltre che in un supporto sonoro. La dedicatoria/epigrafe che accompagna il disco è lunga e teatrale, parte del gioco di “megalomania artistica” che Schifano mette in scena. Tirature limitate e packaging curatissimo hanno poi alimentato il mito dell’LP come oggetto da collezione.
L’album esce in una tiratura iniziale ristretta e passa rapidamente nello stato semileggendario. Etichette e cataloghi mostrano uscite originarie con sigle diverse a seconda delle edizioni, e nel tempo il disco è stato ristampato più volte (ristampe e reissue in CD e vinile ad opera di varie etichette come Relics, AMS, Akarma e altre), proprio perché il mercato di culto internazionale ha tenuto vivo l’interesse.
Le prime presentazioni non furono semplici concerti ma veri e propri eventi multimedia. Luci, proiezioni e performance firmate Schifano, pensate per stupire e mettere in scena l’idea che la band fosse parte del mondo artistico più che del circuito pop commerciale.
I riscontri della stampa specialistica dell’epoca sono divisi — sorpresa e ammirazione da una parte, perplessità dall’altra — ma la risonanza sulle scene psichedeliche europee fu abbastanza forte da garantire al disco uno status di cult fuori dall’Italia.
Oggi Le Stelle di Mario Schifano è citato come uno dei pochi esperimenti veramente “Warholiani” della nostra scena. Un ponte tra pop art e rock psichedelico che dimostra come, anche in Italia, si cercasse di superare la semplice riproposizione del beat. Il disco viene letto come un precursore di molte idee che diventeranno comuni negli anni successivi, ambientazioni sonore lunghe, collage, concerti come happening. Per gli appassionati di psichedelia europea rimane un riferimento obbligato.
Ora è però arrivato il momento di mettere Dedicato a… sul piatto e di vedere come suona a quasi sessant’anni dalla pubblicazione. Preparatevi a un suono a volte disturbante, acerbo e non sempre digeribile. Ma, a suo modo, rivoluzionario.
Il cuore di Dedicato a… è la lunga suite che occupa tutto il primo lato del disco. Il titolo, Le ultime parole di Brandimante, dall’Orlando Furioso, ospite Peter Hartman e fine (da ascoltarsi con tv accesa, senza volume), ne chiarisce l’approccio sperimentale e forse un po’ pretenzioso.
Si tratta di un’improvvisazione di oltre diciassette minuti che sembra non avere inizio né fine. Un flusso sonoro in cui la chitarra assume toni acidi e abrasivi, l’organo si muove ipnotico e la sezione ritmica alterna accelerazioni improvvise a momenti quasi sospesi.
La suite, probabilmente la prima nel suo genere della musica italiana, si apre con voci che parlano in studio. Quella col marcato accento inglese è forse dell’ospite Peter Hartman.
La musica è all’inizio quasi medievaleggiante, con l’evocativo canto di Francesca Camerana, ma quando entra l’organo l’atmosfera cambia. Il pezzo diventa una cavalcata psichedelica, con la chitarra acida che si muove in territori blues. La tecnica non è eccezionale, le svisate non escono dalle tipiche pentatoniche, ma la suggestione è intatta.
È un’esperienza più che un brano: si colloca a metà strada tra i voli cosmici dei primi Pink Floyd e le improvvisazioni senza rete del free jazz contaminato da Cage e Stockhausen. Non c’è una melodia da seguire, ma piuttosto un paesaggio sonoro che ricorda certe jam dei Grateful Dead spinte all’estremo, con inserti rumoristici e frammenti vocali che spiazzano l’ascoltatore.
Girando il vinile, però, si entra in un mondo diverso. Cinque canzoni più brevi, che pur restando figlie della psichedelia, hanno una struttura più riconoscibile. Molto lontano (colori e rumori) gioca su atmosfere oniriche con un organo che sembra volersi staccare dal terreno e una chitarra che oscilla tra linee blues e lampi quasi surf.
Susan Song è la parentesi più “pop” del disco, con richiami diretti alla scena beat e una melodia che potrebbe persino strizzare l’occhio ai Byrds. Anche se la celebre Femme Fatale dei Velvet Underground rimane forse il riferimento più immediato.
E dopo (apertura della coscienza) è invece un viaggio lisergico che potrebbe stare accanto a certe prove dei Soft Machine. Voci che si diluiscono, strumenti che entrano e spariscono, una costruzione che sembra sempre sul punto di esplodere. Molto rumore per nulla è un titolo che sembra già un manifesto. Dentro c’è un mix di ritmiche serrate e inserti rumoristici che guardano tanto al rock quanto alle avanguardie colte.
Chiude il disco Le altre stelle, brano che fa da contrappunto alla suite iniziale, meno lungo ma ugualmente rarefatto, con un basso pulsante che guida l’ascolto e un organo che dipinge atmosfere cosmiche.
Ascoltato oggi, Dedicato a… rimane un oggetto unico e spiazzante. Fondamentale per capire la nascita dell’underground italiano, capace di portare nel nostro Paese le suggestioni che altrove stavano incendiando le scene artistiche. Ma, al tempo stesso, difficile da digerire in tutti i suoi passaggi. L’impronta delle avanguardie di Cage e Stockhausen si sente, e a tratti l’esperimento sembra prevalere sull’ascolto, rendendo l’opera più interessante che godibile.Resta però il fatto che senza un disco come questo non si può parlare seriamente di psichedelia in Italia.
La parabola de Le Stelle di Mario Schifano dura poco. Dopo l’uscita del disco, i componenti si disperdono in altri progetti minori e nessuno di loro riuscirà più a replicare un’esperienza simile. Schifano, dal canto suo, torna al suo mondo di artista visivo. Continua a provocare e a muoversi tra pittura, cinema e performance, lasciando la musica come una parentesi significativa ma non centrale della sua carriera.
Eppure, l’eco di quel disco non si è mai spenta. Negli anni è stato riscoperto, ristampato, rivalutato come un piccolo tesoro nascosto che dimostra come anche l’Italia, pur spesso accusata di rincorrere i trend stranieri, avesse avuto la capacità di osare, di creare una propria risposta ai Velvet Underground.
Oggi l’influenza di Dedicato a… si percepisce più nell’immaginario che nella musica vera e propria Il disco è il simbolo di un’epoca in cui arte visiva, suono e sperimentazione potevano ancora fondersi senza preoccuparsi di essere commerciali. Un disco che divide, certo, ma che ha inciso un solco netto nella storia della musica italiana.


