Musica

Tribute bands e brutte copie: tradizione o involuzione?

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Partiamo da un presupposto, suonare le canzoni dei propri artisti preferiti è un bisogno, un passaggio obbligato e una delle cose più piacevoli per chiunque voglia cimentarsi nello studio (a vari livelli) di uno strumento.

Senza questo desiderio di emulazione non avremmo avuto buona parte degli artisti che, dagli anni Sessanta a oggi, si sono fatti strada e hanno stravolto il panorama musicale al punto da diventare, a loro volta, dei veri e propri “classici”. E un discorso simile potrebbe valere per ogni altra forma d’arte. Pensate a cosa sarebbe stata la nostra letteratura e la nostra lingua senza quel sano bisogno di emulazione dei nostri padri. Del resto, anche prima di loro era stato proprio uno come Seneca – che di umiltà non ne aveva neanche pagandola a caro prezzo – ad elogiare questa pratica costante – verso i suoi (più o meno palesi) modelli – che caratterizza il germe di ogni produzione umana.

Ed è proprio vero che siamo sempre e costantemente dei “nani sulle spalle dei giganti”, parafrasando Bernardo di Chartres, e probabilmente questo è vero anche quando i “nani” vanno più in alto dei “giganti” stessi: ci sarà sempre un rapporto di subalternità interiore verso chi ci ha influenzato, ispirato, folgorato.

Una delle immagini che mi restano fisse nella mente, a tal proposito, è quella di un Eric Clapton (signori, ERIC CLAPTON!) che durante uno dei suoi Crossroads Guitar Festival se ne stava al lato del palco, come un ragazzino alle prime armi (ma era il 2004) a scattare foto ai suoi grandi maestri, su tutti BB King. E proprio uno come Clapton ha sempre riempito le scalette dei suoi concerti di citazioni e tributi agli artisti che lo avevano illuminato: da Freddie King a George Harrison, da Robert Johnson a JJ Cale, passando per Duane Allman o The Band. Insomma, tributare gli onori ai propri modelli di riferimento non è mai stato un crimine, anzi, è una delle cose più belle delle arti.

Come, del resto, ispirarsi a quanto venuto prima cercando di “rubacchiare” o “copiare” è la conditio sine qua non per l’evoluzione stessa di questa o quella forma. Ma il punto, nel caso delle tribute bands o cover bands non è propriamente questo.

Su queste pagine ne avevo già parlato tempo fa, quando raccontavo con piacevole sorpresa dell’operato di uno dei più noti tributi dello stivale a una delle band più importanti del pianeta. Lì avevo apprezzato l’intento di proporre – accanto al classico repertorio più cantabile – qualcosa di nuovo (o di particolarmente datato), cercando di portare in giro – prevalentemente nei teatri – uno spettacolo, con tanto di orchestra, che altrimenti non si sarebbe potuto ascoltare live dall’inizio degli anni Settanta. E probabilmente, proprio in questo sta la fortuna e il successo, meritato direi, di alcune tribute bands: fornire un format a un pubblico che, per varie ragioni, non ha potuto e (probabilmente) non potrà più trovarsi di fronte agli esecutori o autori originali di questo o quel pezzo.

Giustissimo il tributo, soprattutto quando si cerca di riproporre il nitore di alcune composizioni, magari attualizzandole con le moderne possibilità di esecuzione e con suoni “ripuliti dalla polvere con cui inevitabilmente il tempo si posa su ogni prodotto dell’umana specie. Del resto, sono molti ad affermare come, anche quel fenomeno generalmente definito “musica rock” – essendo, come detto sopra, diventato un classico – meriti la stessa attenzione, cura e trattazione dei classici della musica “passata”. Questo vuol dire: renderla oggetto di imitazione, anche pedissequa; cristallizzare l’intera vicenda musicale di questo o quel gruppo come qualcosa di perfetto e ormai immutabile; riproporre i diversi repertori con esecuzioni rispettose il più possibile della volontà ultima degli autori. Un approccio che molto spesso appare come molto simile a quello con cui il mondo accademico si avvicina a un testo o a una partitura di autori di due o tre secoli fa. Il che, sulla base di quanto detto, potrebbe essere più che lecito. Ma le cose, ripeto, non stanno propriamente così.

Per molte cover bands infatti, dietro questa pretesa di filologica cura del passato si nasconde, con più probabilità, la pigrizia, la tendenza alla generalizzazione e l’idea di fare qualcosa di più nobile, artisticamente parlando, rispetto a quanto realmente non si faccia. Parlo di pigrizia perché, in generale, si tende a scambiare la volontà di suonare le stesse canzoni che si ascoltavano da bambini con l’idea di una maturità artistica ed esecutiva che molto spesso non c’è. Infatti, è anche riarrangiano, innovando o inserendo elementi nuovi che si può rendere funzionale e produttiva, da un punto di vista artistico, l’imitazione … ma non è il caso della maggior parte delle “band copia che oggi vanno per la maggiore. Per generalizzazione invece, intendo l’idea stessa di scambiare dei – pur indiscussi – classici, per qualcosa che precede il loro stesso essere diventato “classico”.

Un “classico” è, per definizione, qualcosa che assorbe l’intera tradizione precedente, ne ridiscute e supera le questioni, imponendo un nuovo canone in luogo di quello precedente. Nel caso della musica rock (anche se si sta generalizzando, anche in questo caso, ma è per rendere l’idea) lo scarto rispetto alle precedenti tradizioni musicali sta, tra le altre: nell’impossibilità di scindere compositore da esecutore; nella teatralità data dalla propria presenza scenica e iconica durante l’esecuzione; nella fluidità dell’esecuzione stessa che, sebben regolata dalla forma canzone, appare sempre aperta a modificazioni. Già queste sole tre caratteristiche basterebbero a rendere ogni tentativo di cover, che è cosa diversa dal tributo – cioè un’esecuzione di uno o più pezzi di uno o più artisti, appunto, in tributo, alla loro arte – inutile, se non addirittura grottesca.

Perché vedere come “rispetto della volontà autoriale” il vestirsi esattamente come questo o quel frontman così come si vestiva 30-40 anni fa, e facendolo con il fisico di 30-40 anni più vecchio rispetto all’archetipo di riferimento, risulta più come una divertente carnevalata di chi vuole fingersi, senza essere troppo seri, in una realtà che non è più quella presente. Riproporre copiando ogni singola sbavatura, ogni singolo dettaglio della potenza esplosiva e provocatoria di gruppi come i The Who o i Led Zeppelin, i Rolling Stones o i Free in un’esecuzione “rispettosa” dell’originale, come si farebbe con la musica classica o operistica, risulta, per buona parte dei casi, un simpatico divertissement che non dovrebbe avere altre pretese se non quella di rievocare retaggi e atmosfere ormai passate.

Il problema tuttavia, sta nel fatto che il business di questi tributi – con frequenza sempre maggiore propensi verso la cover in stile “Tale e quale show” – stia diventando sempre più impegnativo e con pretese velleità artistiche che non dovrebbero essere sbandierate; essendo, come appena detto, una simpatica riproposizione di frammenti di suono fissati in un disco. E così grandi cover band iniziano a far pagare a carissimo prezzo i biglietti per dei concerti che iniziano a porsi come delle vere e proprie alternative all’ascolto di una greatest hits o degli stessi originali, invecchiati di qualche anno, ma ancora in tour.

Infatti, un altro dei quesiti che ci si deve porre di fronte al dilagare del fenomeno cover band, è il perché il pubblico sia disposto a sganciare somme considerevoli di denaro, in alcuni casi anche superiore a quelli da spendere per assistere alla riproposizione degli originali ancora in vita. Sia chiaro, la musica si paga, ed è giusto che qualunque esecuzione venga giustamente ricompensata, ma nel discorso che qui si fa sono altri i parametri che devono essere messi in conto.

Chiariamo quest’ultimo aspetto: queste cover band, per la maggiore, attingono il loro repertorio da gruppi rock o artisti che hanno iniziato la loro carriera mezzo secolo fa, hanno raggiunto il successo da quaranta o venti anni, e probabilmente sono ancora on the road. La situazione diventa a tratti paradossale quando, proprio gli “originali”, a loro volta, tendono a riproporre i loro vecchi repertori ma con qualche modificazione che – assurdo degli assurdi – in alcuni casi inorridisce un pubblico che vuole qualcosa che suoni più “come il disco” … quindi forse “meglio la cover”. Se quindi si deve parlare di “rispetto della volontà ultima dell’autore”, così come si dovrebbe fare con un classico, si dovrebbe tenere in considerazione proprio questo punto. Questa musica è ancora viva e continua a vivere, non solo in chi da questa si ispira o chi l’ascolta, ma anche in chi l’ha composta per primo e ne ha dato un carattere costruito proprio sulla propria peculiare e inimitabile voce.

Quaranta o cinquant’anni per la storia della musica sono un frammento irrisorio e il passare di un così breve lasso di tempo, se coinvolge le modalità di registrazione, riproduzione e ascolto della musica stessa, allo stesso modo non la rende desueta, vecchia e imitabile come qualcosa di remoto e troppo annacquato dai secoli. Se ci ostiniamo a giustificare la tendenza alla cover come una forma di esecuzione reiterata negli anni della volontà autoriale, si deve per forza di cose fare i conti con il fatto che la volontà autoriale stessa, con autori ancora attivi, continui a intervenire attivamente sulla propria arte. Anzi, alcuni di questi autori potrebbe benissimo recriminarne un uso improprio della propria musica, come quello operato da parte di alcune cover band.

Un Bob Dylan che continua a cambiare versione delle sue canzoni in ogni data dei sui infiniti tour dovrebbe essere da lezione per chiunque si ostini a suonare come il disco del 1968, quello del 1971 ecc., perché è questa modalità a rendere desueta, improduttiva, morente quella musica … pur partendo dall’emulazione che dovrebbe essere la forza trainante per l’evoluzione della stessa.

Certamente alcuni artisti che si sono mossi al limite tra la tradizione popular e quella colta, per esempio buona parte delle composizioni (e in questo caso il termine può essere davvero appropriato) di molti gruppi progressive, hanno costruito delle vere e proprie opere rock intorno a una struttura fissa e replicabile serialmente. Questo, spesso, per raggiungere particolari esigenze comunicative. Imitare l’esatta partitura di un concept album non solo è possibile, ma è un dovere, perché gli artisti stessi che lo avevano creato hanno inserito, proprio in quella struttura fissa, tutti gli elementi imprescindibili per rendere coerente quell’opera. Tuttavia, anche qui l’imitazione (o la copia malsana) va spesso a cozzare con la volontà autoriale. E, a tal proposito, non può far inorridire la riproposizione, da parte di una cover band di fama internazionale di un noto simbolo dei live shows dei Pink Floyd.

Il maiale gonfiabile, che ha sempre avuto una logica teatrale e concettuale molto chiara nei dischi e nei concerti della band inglese, viene, da qualche tempo, sostituito da un canguro gigante, per ironica assonanza con la provenienza australiana della cover band in questione. Anche in questo caso, come nel suddetto esempio dello scimmiottamento delle movenze e della mise di una rockstar, la copia – sterile se posta in queste modalità – dovrebbe porsi come un simpatico divertissement. Tuttavia, un gruppo copia, come quello cui si sta facendo cenno, ha ottenuto un successo planetario anche grazie a simili goffe soluzioni. Infatti, queste deformate visioni di qualcosa che è stato, e che in questo modo si avvia verso l’essere dimenticato (o confuso), vengono presentate come una sorta trademark, al punto da risultare così autentici da essere più “veri degli originali”. Anche in questo caso, pur rispettando perfettamente la volontà esecutiva di un certo tipo di musica, ci si avvia verso una cristallizzazione totalmente sballata, svuotata di contenuti e spacciata per artisticamente valida. Non solo non si rende giustizia all’originale, ma si va in perfetto contrasto con questo, con un risultato posticcio, grottesco e addirittura offensivo della volontà autoriale.

Una proposta simile equivarrebbe, restando nel gioco del parallelismo con la musica classica, a scambiare la protagonista de La traviata di Verdi con una sorta di “drama queen” Youtuber. Eccessivo forse? Neanche troppo, Eppure era solo emulazione in memoria di.

 

Matteo Palombi – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd/Eric Clapton/The Who/The Rolling Stones/Led Zeppelin/Mick Jagger/Robert Johnson/B.B. King/Cover/George Harrison/Matteo Palombi
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