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The Final Cut, l’addio di Roger Waters ai Pink Floyd

La copertina di The Final Cut

Il 21 marzo del 1983 esce The Final Cut dei Pink Floyd; all’epoca nessuno sa, ma molti forse lo immaginano, che sarà l’ultimo disco dei Pink Floyd con Roger Waters.

Quanfo The Final Cut esce, da poco sono iniziati gli anni Ottanta, tanto rutilanti e da bere a livello sociale, non corrisponde certo a un’età dell’oro per il rock. I Settanta si sono conclusi con l’estinzione traumatica del dinosauro Progressive e la breve parabola del punk; la discomusic domina i mercati e il rock rinasce su due fronti. La new wave continua – asciugato dagli eccessi – il discorso intellettuale dell’art rock; hard rock e heavy metal offrono rifugio a quel che rimane di virtuosismi e assoli chilometrici.

Per una band come i Pink Floyd lo spazio si riduce sensibilmente; eppure The Wall, il loro disco più mastodontico, con tanto di film d’autore, è stato un successo epocale. Come tutti i grandi successi, però, si tira dietro la sua bella maledizione. Roger Waters spadroneggia sempre più, col carattere bizzoso e dittatoriale che tutti gli riconoscono; David Gilmour è l’unico che gli tiene testa, ma le sue armi sono troppo spuntate.
Nick Mason pare più interessato alle auto da corsa che a dettare il ritmo con la sua batteria; quello a cui va peggio è Richard Wright, forse il carattere meno adatto a convivere con l’ego smisurato di Roger.

Waters lo bracca come il leone fa con la gazzella più debole del branco; Wright, grande musicista ma privo della ferocia che servirebbe, ci rimette il posto. Già dal tour di The Wall viene declassato a turnista, poi addirittura cacciato dalla band. Waters parla di poca motivazione da parte di Richard, che considera ormai un peso; non solo, gli attribuisce una seria dipendenza dalla cocaina e gli rimprovera i lunghi soggiorni in Grecia. Negli anni tutte queste accuse saranno smentite, ma tant’è: Wright è fuori.

Paradossalmente, il buon Richard sarà l’unico a guadagnare dal costosissimo tour di The Wall, essendo stipendiato come turnista. Quando le tensioni interne sembrano essere sul punto di far implodere il complesso, Waters e soci escono con The Final Cut.
Il disco è forse il più odiato e discusso dai tanti appassionati dei Pink Floyd; sicuramente è quello più ferocemente politico e impegnato socialmente.

L’input a Roger arriva da una vicenda d’attualità: la Guerra delle isole Falkland.
Il brevissimo conflitto, utile solo a risollevare la leadership della Thatcher nei sondaggi, si conclude con la vittoria della Gran Bretagna, ma anche con insensate perdite umane. Waters è da sempre traumatizzato dall’argomento; ha perso il padre nello Sbarco di Anzio, senza nemmeno conoscerlo, ed è forse il pacifista più agguerrito della scena mondiale.

The Final Cut è quindi un vero e proprio manifesto contro ogni guerra, in cui la vicenda delle Falkland si mescola col vissuto di Roger.

Waters scrive tutti i testi, canta tutte le canzoni e arrangia quasi tutto da solo. Wright non c’è, Gilmour e Mason sono quasi spettatori in sala di registrazione. Molti ritengono ancora oggi The Final Cut più un disco solista di Roger Waters che un episodio a nome Pink Floyd.

Attenzione, la questione è meno oziosa di quel che sembra. È fuor di dubbio che – al di là delle opinioni – il disco esca a nome Pink Floyd; tuttavia è significativo che, sul retro della copertina, sia riportata la dicitura by Roger Waters, performed by Pink Floyd.
Andando oltre le annose polemiche, però, che disco è The Final Cut?

I Pink Floyd, fin dai loro inizi, hanno rotto gli schemi del rock in particolare in due aspetti. Il primo è l’incredibile cura grafica delle copertine, vere e proprie opere d’arte grazie allo studio Hipgnosis; l’altro è legato agli spettacoli dal vivo, esperienze che chiamano in causa tutti i sensi dello spettatore. The Final Cut fallisce in questi due obiettivi.
La copertina è tra le più scarne e graficamente poco gradevoli, e al disco non segue nessun tour, cosa che penalizza le vendite già di per sé non all’altezza.

La copertina paga l’ennesima lite di Waters, stavolta con Storm Thorgerson, mente della Hipgnosis e amico dei musicisti dai tempi di Cambridge. Quanto al tour mancato, la responsabilità è di nuovo del dispotico Roger; bizzarramente, Gilmour e Mason sono all’epoca molto favorevoli, probabilmente per ragioni meramente pecuniarie.

The Final Cut, se depurato da questi aspetti, è tuttavia un bellissimo disco. Suona molto diversamente dai Pink Floyd iconici, quelli delle lunghe cavalcate psichedeliche e degli assoli pieni di pathos di David Gilmour; pare quasi un disco di cantautorato, equamente bilanciato tra testi – validissimi – e musica. La voce di Roger sembra divisa sui soli due registri contemplati: il sussurro quasi recitato e le urla dissennate. Gilmour assesta qualche bel colpo di coda, ma il suo apporto è molto limitato. Tanti sono i contributi esterni alla band.

The Final Cut si apre con The Post War Dream, una delicata ballata che esplode nel finale. Il pezzo, che inizia su toni abbastanza tristi, è dominato dal tema della morte del padre e dura appena tre minuti.

Tell me true, tell me why, was Jesus crucified?/Was it for this that Daddy died?/Was it for you? Was it me?/Did I watch too much TV?
Dopo due minuti di placida ballata, il pezzo esplode con l’urlo di Waters e l’ingresso della batteria. La melodia è struggente ed evocativa, ma dura poco e il brano sfuma. Ci sarebbe lo spazio per una struttura più compiuta, probabilmente, ma Roger il dittatore decide che può bastare.

Si ricomincia allora con la calma di Your Possible Pasts; alcune strofe del brano erano presenti in una scena del film The Wall. Tra effetti sonori e saliscendi tra ballata e rock, il brano sembra più in linea col suono dei Pink Floyd, almeno quelli del muro. C’è anche un bellissimo assolo di Gilmour, meno fluido dei suoi migliori, ma comunque riconoscibilissimo. Un pezzo che accontenta anche i fan della prima ora.

One of the Few è un breve brano di raccordo, delicato ed evocativo; nell’edizione originale il pezzo prelude a The Hero’s Return, mentre in quella rimasterizzata è seguito da When the Tigers Broke Free. Completamente dedicato a Fletcher, padre di Waters, è l’unica canzone che vede ancora ai cori e alle tastiere Wright, essendo stata registrata ai tempi di The Wall. Il brano cita lo Sbarco di Anzio e la lettera di re Giorgio con le sue condoglianze.

The Hero’s Return parla del ritorno del soldato dalla guerra; celebrato come eroe, in testa sente ancora le parole dell’artigliere morente, che saranno evocate nel pezzo successivo. Il canto di Waters è particolarmente espressivo, mentre musicalmente il tutto è forse troppo sfumato.

The Gunner’s Dream è una ballata pianistica, ancora oggi attuale musicalmente e con uno dei testi più belli tra le canzoni contro la guerra. L’artigliere sogna un mondo sereno, dove invecchiare tranquillamente e dove i bambini non vengano uccisi. L’urlo di Waters sublima in un assolo di sassofono ed è impossibile non lasciarsi prendere dal pathos. Un vero capolavoro.

Paranoid Eyes traccia di nuovo il dramma dei reduci, costretti a rifugiarsi dietro uno sguardo paranoico; un pezzo che pare quasi uscito dalla penna di Bob Dylan e alterna la ballata per pianoforte alla chitarra acustica. La voce di Waters è carezzevole e ispirata al punto giusto. Ancora un raccordo con la sarcastica Get Your Filthy Hands Off My Desert e il disco prende l’abbrivio finale.

The Fletcher Memorial Home immagina I potenti della terra rinchiusi in una specie di ospizio-manicomio che prende il nome dal padre di Waters.

Qui i personaggi possono sfogare le loro pulsioni per la guerra come se fosse un gioco insensato; quello che in definitiva è. Anche qui il tono sommesso, quasi recitato, lascia spazio a metà a un assolo di David Gilmour da pelle d’oca. Lo stile e la melodia rimandano a Comfortably Numb, sebbene inevitabilmente in tono minore; comunque un passaggio caro ai fan storici.

Southampton Dock è una breve ballata che cita il final cut in coda; un pezzo che Waters ha spesso riproposto dal vivo e che introduce la title-track. Il taglio finale a cui allude Waters, nelle sue parole, è quello con il passato, e The Final Cut è forse il climax del lavoro. Un tour de force emotivo che ospita un’altra delle grandi parti di chitarra dell’album. Tanto di cappello.

Il disco si chiude con Not Now John, un pezzo ai limiti dell’hard rock e Two Sun in the Sunset. Il primo è l’unico in cui canta anche Gilmour, che regala anche un bell’assolo in pieno stile The Wall; il brano mescola hard e cori femminili, risultando efficace ma forse un po’ scombinato nel mischiare troppi ingredienti.

Two Sunset in the Sunset è invece un degnissimo finale, inevitabilmente apocalittico. Un futuro con esplosioni nucleari e temperature invivibili; una ballata con l’assolo finale del sax di Raphael Ravenscroft che chiude un album così cupo con una piccola apertura alla speranza.

The Final Cut si chiude così; odiato un po’ da tutti, paga più la sua fama dovuta alle tensioni interne e agli sviluppi futuri. Il disco di per sé è infatti un buonissimo lavoro, diverso sicuramente dagli apici dei Pink Floyd, ma di una qualità e un pathos sublimi.

Roger Waters considererà chiusa l’esperienza Pink Floyd con The Final Cut; come sempre il suo ego vola troppo alto e non ha preso nemmeno in considerazione una possibilità remota, quella che il gruppo possa andare avanti senza di lui.
Gli eventi successivi dimostreranno che aveva torto.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, Roger Waters, Storm Thorgerson, The Final Cut
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