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Il cinema dei Pink Floyd – prima parte

Il cinema dei Pink Floyd

Dalle proiezioni liquide dei light show alle sequenze in 4k di “Roger Waters Us + Them”. Dal 1965 al 2020, ovvero una parabola artistica lunga più di cinquant’anni. E oltre, perché non è finita, creativamente parlando.

Questo è Pink Floyd. Senza l’articolo determinativo, per non fare riferimento ad un maschile plurale bensì ad una entità creativa ed astratta, quale Syd Barrett, David Gilmour, Nick Mason, Roger Waters, Richard Wright volevano che fosse la loro creatura quando scomparivano sul palco oscurati dai giochi di luce, quando sparivano dalle copertine dei dischi, quando si nascondevano dietro un muro. Syd, David, Nick, Rog, Rick volevano che Pink Floyd, la loro creatura, fosse arte: dunque, sette note ma anche immagini, luci, grafica, pittura, scultura, danza, cinema, letteratura, storia, architettura, politica, archeologia… e allora tecnologia – la più avanzata, sempre; palcoscenici – anche naturali; teatri di posa e teatri veri; design astratto ed applicato…

Tutto questo è l’arte della creatura Pink Floyd, che ovviamente è i suoi creatori Syd, Nick, David, Rog, Rick ma è anche Storm Thorgerson, Peter Winne-Wilson, Mark Fisher, Alan Parker (e tantissimi altri si potrebbero citare) quando i loro do-re-mi-fa-sol-la-si, variamente intrecciati, vengono tradotti in grafica, luci, architettura da palcoscenico, immagini filmiche.

Lingua e dialetto

Nell’esplosione creativa degli anni Sessanta-Settanta del sec. XX, moltissimi furono i gruppi che innovarono ed allargarono i confini della musica pop(olare); pochissimi furono quelli che dettero carattere transitivo al proprio verbo musicale, riuscendo con naturalezza a coniugarlo nell’incontro con le altre arti. Fino al punto da farne una riconosciuta e riconoscibile cifra stilistica della propria musica; fino al punto da declinarla con naturalezza nella lingua assoluta dell’arte al di là del dialetto d’origine, intendendo come tale la musica, appunto. La musica Pink Floyd ha conseguito questa cifra stilistica, le è coessenziale. Si può a ragion veduta parlare di “arte PinkFloydiana” (lingua universale) quale approdo, coniugazione e declinazione della “musica PinkFloydiana” (dialetto locale). Leggi Pink Floyd e intendi arte, ovvero rappresentazione multidisciplinare dell’intuizione creativa.

L’approdo del dialetto musicale Pink Floyd alla lingua universale dell’arte avviene subito; avviene non appena Barrett & Co. abbandonano gli stilemi e gli standard rhythm’n’blues delle incarnazioni precedenti (Tea Set, Screaming Abdabs, Abdabs, ecc.) della band; avviene quando il quartetto Barrett/Mason/Waters/Wright si stabilizza e fonda The Pink Floyd; avviene di pari passo all’esplosione dell’urgenza creativa di Syd Barrett. Nel momento in cui avviene tutto questo, nel momento in cui dal vivo Louie Louie lascia spazio a Interstellar Overdrive, quella musica si fa subito arte totale: è il 1965 e quelle lunghe jam improvvisate si ammantano di luci, colori, proiezioni; cominciano le sperimentazioni e il verbo PinkFloydiano si declina in modi diversi e si coniuga con altre forme espressive.

In principio era il suono, distorto filtrato e circolare; il suono si fe’ verbo, gnomi salici e oracoli; suono e verbo si rivestirono di fantasmagorie visive, nel tentativo – dapprima ingenuo poi sempre più consapevole – di aprire le porte della percezione, di espandere i confini della mente, di intraprendere straordinari viaggi interiori.

L’etimologia del verbo PinkFloydiano affonda le radici nella semantica e nella semiologia della psichedelia WestCoastiana e della Beat Generation, ma è impregnata di cultura British e si permea di Europa, man mano che il verbo viene declinato e coniugato nel Vecchio Continente.

Se, dunque, l’arte PinkFloydiana viene declinata nelle più svariate forme espressive, ne è del tutto naturale la coniugazione con il cinema.

The First Trip & The Light Show

L’incontro tra Pink Floyd e settima arte avviene da subito. Pur non considerando il silente cortometraggio, poco più che amatoriale, girato sulle colline di Gog Magog a Cambridge nel 1966, nel quale il giovane studente di cinema Nigel Lesmoir-Gordon immortala il primo viaggio (“The First Trip” è il titolo con cui il film viene pubblicato in VHS nel 1994) allucinogeno di Syd Barrett, fin dai primissimi concerti dei Pink Floyd immagini, diapositive, colori e luci sono proiettate sui musicisti.

È il light show, ovvero una forma alquanto primordiale di incontro tra musica e immagini – intese in senso lato – esperienza spettacolare mutuata dalla cultura psichedelica americana che, con i Pink Floyd, viene elevata a rango artistico e che ne diventa originale tratto distintivo nella dimensione live. Il light show non è propriamente cinema; è espansione della percezione sonora in quella visiva, nell’ambito di una rappresentazione artistica che assicura un coinvolgimento sensoriale totale. I Pink Floyd ne sono registi e protagonisti; è una loro consapevole opzione artistica ed espressiva.

Tonite… Frisco… Committee and More…

Ma dopo il light show, immediato è anche l’incontro con il cinema canonico, con i registi che commissionano musica inedita o edita ai musicisti. È il caso di Peter Whitehead, il regista della controcultura a Londra e a New York, per “Tonite Let’s All Make Love In London” (1967); è anche il caso di Anthony Stern per “San Francisco” (1968), regista anch’egli proveniente – come i Pink Floyd – dalla vivacissima scena culturale della Cambridge anni Sessanta e assistente di Whitehead in “Tonite Let’s All Make Love In London”; infine, è il caso di Peter Sykes, regista australiano, per “The Committee” (1968), film in bianco e nero tratto da un racconto dello scrittore e filosofo Max Steuer, pubblicato su una rivista letteraria nel 1966.

I tre film citati sono esempi di cinematografia indipendente e underground; per i primi due i Pink Floyd mixarono delle speciali versioni di “Interstellar Overdrive”, uno dei cavalli di battaglia dell’era Barrettiana; per il terzo film composero della musica rimasta inedita fino alla pubblicazione del box “The Early Years 1965 – 1972” nel 2016.

https://youtu.be/BBu_swGGSkI

È del 1969 l’approdo dei Pink Floyd al cinema delle grandi case di produzione con More di Barbet Schroeder, il quale esordisce alla regia con questo film e che, tre anni dopo, si rivolge ancora alla band inglese per “La Vallée”. Svizzero, nato a Teheran e naturalizzato francese, Schroeder affida l’integrale colonna sonora delle sue opere prima e seconda ai Pink Floyd; Waters & Co. racchiudono quelle composizioni in due album della propria discografia – “More” e “Obscured by Clouds”.

Quei dischi escono in anni di incredibile creatività. Oltre che col cinema, sono anni segnati da incontri artistici sperimentali, originali e inediti. Con la danza, del coreografo francese Roland Petit; inoltre con la composizione in forma di concept (le suite “The Man” e “The Journey”, pubblicate ufficialmente solo nel 2016, nel box “The Early Years”); infine con la composizione in chiave orchestrale e classicheggiante (“Atom Heart Mother”); fino ad approdare al capolavoro “The Dark Side of the Moon”.

L’ascesa artistica del rapporto Pink Floyd – cinema si completa nel 1970 con Zabriskie Point” del regista Michelangelo Antonioni, uno dei massimi e più innovativi cineasti della storia. Alla fine di un intenso ma complicato rapporto creativo tra Pink Floyd e Antonioni, durante le registrazioni della colonna sonora del film, rimangono una delle scene più belle della storia del cinema – quella finale dello scoppio della villa sulle note rivedute e reintitolate di “Careful with that Axe, Eugene” – e tanta straordinaria musica rimasta per molti anni inedita, compresa la meravigliosa pagina pianistica di Richard Wright di “Love Scene” version 4.

Dopo il cinema su commissione e da sala di registrazione, la declinazione del verbo PinkFloydiano in chiave cinematografica si completa nella forma attiva: i Pink Floyd diventano protagonisti della pellicola e, addirittura, la commissionano.

From Pompeii to The Wall

È il caso di “Pink Floyd Live at Pompeii” (1972) – qui il trailer – del regista scozzese naturalizzato francese Adrian Maben, ineguagliato ed ineguagliabile esempio di film musicale, grazie all’inedito ma efficacissimo incontro tra musica contemporanea, storia, arte antica e natura. Qui i Pink Floyd sono i protagonisti della pellicola con la loro musica ma anche con i loro volti; è la prima volta che le facce e i corpi di David, Nick, Roger e Rick appaiono in primo piano in una performance artistica Pink Floyd. Dal vivo, erano oscurati dalle luci e dalle proiezioni; sulle copertine dei dischi erano graficamente nascosti (“The Piper at the Gates of Dawn”) oppure visibili solo nelle parti interne dell’artwork (“Ummagumma”, “Meddle”).

È il caso di “Pink Floyd The Wall” (1982), del regista Alan Parker, trasposizione cinematografica dell’omonimo concept album; pellicola assurta al rango di cult movie benché rappresenti un unicum nella storia del cinema per via della totale assenza di dialoghi, la cui funzione comunicativa è integralmente affidata ai testi delle canzoni.

Questo film è un unicum anche perché è parte di un progetto artistico che fin dalla sua concezione prevede la realizzazione di un’opera musicale, di uno spettacolo teatrale e di una pellicola cinematografica, appunto. Qui i Pink Floyd e, in particolare, Roger Waters autore del concept, figurano addirittura quali committenti dell’opera cinematografica.

— Onda Musicale

Tags: The Wall, Live At Pompeii, Pink Floyd
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