Musica

Lucio Battisti – Il meticoloso e rivoluzionario gigante della musica italiana

|

Intervista a Donato Zoppo, autore di Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana (Hoepli, 2018), presente nella collana Storia della canzone italiana – I protagonisti, diretta da Ezio Guaitamacchi.

Due sono le caratteristiche che Donato Zoppo ha in comune con Lucio Battisti: la meticolosità nel lavoro e la profonda devozione per la musica. Una simbiosi non affatto scontata. Ed è per questo che, una volta finito di leggere Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana, non puoi che provare una sincera affezione per entrambi.

Cosa ti ha lasciato Lucio Battisti?

Lucio Battisti mi ha dato una sensazione estremamente positiva: quella di un uomo con una profonda devozione alla musica. Quello che mi ha lasciato e che mi porto come autore e conduttore radiofonico è il profondo rispetto, per chi mi legge e per chi mi ascolta, dovuto alla serietà con il quale si affronta il proprio mestiere. L’evoluzione umana e artistica di Battisti hanno sempre avuto come fondamento principale un assoluto rispetto per la musica: non si è mai sputtanato, non si è mai venduto, ed è sempre stato estremamente coerente. Un’artista autentico. Basti pensare alla sua “voce/non voce”: non l’ha camuffata, anzi, ha trasformato un suo limite in cifra stilistica, in maniera estremamente autentica. Quando nelle presentazioni del libro – “Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana” (Hoepli, 2018) – ho sottolineato che il principale riferimento musicale di Battisti era Bob Dylan, ho sempre notato un po’ di stupore, in quanto non ci aspetta che Battisti sia una sorta di derivazione dylaniana. In realtà, Battisti è stato un meticoloso e attento studioso di Bob Dylan, da cui ha tratto un assunto importantissimo: l’urgenza di comunicare un’emozione, a prescindere dalla voce e dal messaggio. La voce irregolare e aspra di Battisti era il suo personale veicolo espressivo per emozionare l’ascoltatore. Battisti può non piacere, ma è indubbio che quella voce e quella musica tocchino direttamente la sfera emotiva, in quanto siano impregnate di autenticità. In conclusione, Lucio Battisti mi ha lasciato un percorso di profonda attenzione al proprio mestiere, preservando l’autenticità, ma senza perdere di vista il continuo miglioramento. Ed è proprio questo aspetto – ovvero, “l’evoluzione dell’autenticità”, a porre una figura come quella di Battisti in linea con grandi del rock, ad esempio John Lennon.

Quali sono le peculiarità di Battisti che ti hanno maggiormente colpito?

Una straordinaria peculiarità di Battisti era la sua capacità di far convivere la maniacalità e la meticolosità in studio di registrazione con la estrema spontaneità. Tutto va fatto risalire alla ricerca dell’autenticità: ecco perché la canzone di Battisti è “canzone verità”, così come il “cinema verità”. “Un’avventura”, “Mi ritorni in mente”, “Il tempo di morire”, “Pensieri e parole”, nonostante fossero quattro canzoni molto diverse tra loro, hanno in comune questa grande autenticità. Ad esempio, “Il tempo di morire” è stata improvvisata in studio: Battisti voleva tirare fuori un brano rock/blues alla Cream o alla Led Zeppelin, e l’unico modo per farlo era suonarlo live in studio. Gli affiatati musicisti da lui scelti – coloro che sarebbero diventati, poi, la PFM – venivano convocati in studio senza sapere nulla del brano. La dinamica era molto semplice: Battisti gli faceva sentire il riff e loro lo seguivano, poi si registrava. ‘Questo modo di registrare “live” cozza con la meticolosità di Battisti?’ No, sono due facce della stessa medaglia. “Pensieri e parole”, “I giardini di marzo”, oppure tutto il lavoro di “Anima latina” del 1974, sono canzoni e album realizzati con estrema attenzione alla sfumatura e alla produzione della canzone. ‘Ma sono meno autentici?’ Ovviamente no. Lucio Battisti ha sempre lavorato al servizio della canzone, con l’interpretazione adeguata, con la scelta dei musicisti adeguata, con l’arrangiamento adeguato, con l’orchestrazione adeguata; tutto finalizzato alla canzone. La sua idea di canzone doveva essere autentica: per fare questo, lavorava in modo diverso a seconda dell’obiettivo. Altra peculiarità importante, che rafforza quella appena espressa, è il suo essere un vorace uomo di musica: Battisti è uno che ha ascoltato di tutto in maniera estremamente attenta, probabilmente aiutato dal suo carattere ricettivo e pignolo. Lucio era un verticale: se si innamorava di una canzone dei Cream – era un grandissimo fan di Eric Clapton – tutta la sua attenzione si concentrava, successivamente, sulla discografia della rock band britannica. Stiamo parlando di una persona che non solo ha ascoltato tantissima musica, ma che ha fatto una gavetta importante – da chitarrista – con i Campioni: esperienza che comportava suonare di tutto, e ciò l’ha reso un chitarrista estremamente versatile. Abilità fondamentale nella composizione dei suoi successi più grandi. Il suo stile chitarristico lo si può apprezzare nell’introduzione di “Insieme a te sto bene”, con una plettrata aggressiva, un po’ alla Richie Havens o alla Bo Diddley, con un riff sporco, un po’ impreciso, ma estremamente efficace nel comunicare la sua emozione. Parallelamente alla gavetta, c’era un preciso percorso di ascolto: ha studiato Bob Dylan, ha ascoltato i Rolling Stones, i Cream, gli Animals, i Creedence, i Who – si dice che Pete Townshend apprezzò tantissimo l’album “Emozioni”, parola di Mogol – e tanti altri. Quindi, l’essere un uomo completamente immerso nella musica, grande ascoltatore, musicista istintivo ma esperto sul campo, gli diede la possibilità di conoscere perfettamente il linguaggio, le tecniche e gli strumenti idonei a raggiungere più facilmente i suoi obiettivi. A questo, si aggiunge un carattere non semplice, a volte molto arrogante e presuntuoso: Battisti è sempre stato consapevole di scrivere brani da classifica, e non aveva problemi a dichiararlo pubblicamente; in linea – sempre – con i grandi autori del rock.

I contesti storici di Lucio Battisti.


Non abbiamo un solo Lucio Battisti: abbiamo un Battisti folk-rock, un Battisti blues, un Battisti hard-rock, un Battisti pop, un Battisti progressive, un Battisti disco-music, un Battisti d’avanguardia. Così come abbiamo questi vari volti, abbiamo, anche, vari contesti storici nei quali Battisti si è espresso.

1. Il boom economico degli anni Sessanta: gli anni formativi di Lucio.
Gli anni Sessanta sono gli anni della ricostruzione, e la musica era un prezioso bene di consumo, in particolare con il 45 giri che furoreggiava nei jukebox: Battisti si forma e comincia ad esprimersi – come autore prima, e come cantante dopo – in un contesto di grande serenità economica.
2. I movimentati anni Settanta: il vero grande Battisti nel duo con Mogol.
Battisti ottiene la sua prima notorietà con “Un’avventura” a Sanremo, del gennaio del 1969. Coincide con il periodo in cui emergono l’Italia è caratterizzata da molteplici contraddizioni, che portano alla consapevolezza che il gigante economico abbia dei piedi d’argilla, poiché si regge su elementi che non possono essere più accettati dagli intellettuali, dagli operai, dagli studenti. Battisti vive questo periodo, ma non lo esprime nella sua musica. Però, credo fortemente che Battisti e Mogol, anche se hanno avuto in questi anni un approccio disimpegnato, hanno avuto la sensibilità di cantare l’innocenza perduta degli italiani: ad esempio, ne “La canzone del sole”, ne “Il mio canto libero”, ne “La collina dei ciliegi”, nell’album “Anima Latina. Battisti, inoltre, è anche presente in un contesto storico del “reflusso”: il Battisti di “Sì, viaggiare”, o di “Una donna per amico”, è un Battisti che si ripiega prepotentemente sul privato. Alla fine degli anni Settanta, poi, si assisterà alla divergenza artistica tra i due: da un lato, un quarantenne Mogol soddisfatto ed ancorato a un universo poetico dai ben saldi punti fermi; dall’altro, invece, un Battisti perennemente impegnato a innovare, a sperimentare e a superare se stesso. Una scissione pressoché pacifica la loro, confermata dalle stesse dichiarazioni rilasciate da entrambi.
3. L’edonismo reaganiano degli anni Ottanta: il duo Battisti-Panella.
Sono anni di nuovo disimpegno per Battisti, ma che affronta fuggendo dal nuovo contesto storico: si ritira nel suo privato, si registra i dischi a casa e, poi, li perfeziona a Londra. Ancora una volta, Lucio Battisti è una voce fuori dal coro. Il duo Battisti-Panella non racconta il decennio degli anni Ottanta; il loro percorso artistico è una deviazione continua in cui non puoi cogliere appieno il contesto storico differente. Lo puoi cogliere, per esempio, se noti come Battisti ha approntato la contrattualistica discografica negli anni ’80-’90, la resistenza rispetto all’avvento del CD.  Consapevole delle magagne dell’industria discografica, aveva accettato con grande difficoltà la transazione dal vinile al CD. La sua contrattualizzazione era sempre occasionale: di disco in disco, lui firmava nuovi contratti dove cercava, sostanzialmente, di non farsi fregare dall’industria discografica. E, quindi, è nella contrattualistica o nella scelta di dedicarsi ad un nuovo studio della tecnologia, che Battisti riflette il mutato contesto storico degli anni ’80-‘90.Mentre con De Gregori, Rino Gaetano, Fabrizio De André, Gaber, si hanno degli album che sono continuamente delle finestre aperte sulla società dell’epoca, Battisti-Mogol e Battisti-Panella sono, invece, delle finestre socchiuse. Ad esempio, Mogol ha raccontato molto bene i rapporti tra uomini e donne, il senso del possesso, il maschio italiano che reagisce spaesato all’emancipazione delle donne: non c’è un’esplicita narrazione, ma un ritratto di una mutata condizione sociale che implicitamente volge al contesto storico italiano. Di conseguenza, il rapporto tra Battisti e la storia è molto più complesso – ma allo stesso tempo, molto più entusiasmante – proprio per questo motivo.

In cosa differisce Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana (Hoepli, 2018) dagli altri?

Questo è un libro del quale sono molto orgoglioso e soddisfatto. Credo sia uscito bene perché è preceduto da libri ottimi ai quali ho potuto attingere e lasciarmi ispirare (Michele Neri, Gianfranco Salvatore, Renzo Stefanel, e tanti altri autori). Premessa: il libro “Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana” è il primo della nuova collana “Storia della canzone italiana / I protagonisti” della Hoepli, ed ha rappresentato una sorta di “test” sia per me come autore che per la casa editrice. La richiesta era quella di una biografia, ma di biografie su Lucio Battisti ce ne sono tante. Allora ho fatto una duplice scelta, sia per arricchire che diversificare il progetto: in primo luogo, ho voluto intervistare tutti coloro che hanno avuto a che fare con Battisti, o che l’hanno conosciuto: dalla cugina Ida Battisti di Poggio Bustone, a Robin Smith, il suo produttore degli anni Ottanta, da Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik, il suo grande amico e sostenitore, a Roby Matano de I Campioni, il vero scopritore di Lucio Battisti, da Alberto Radius e Gianni dall’Aglio a Phil Palmer e Geoff Westley, grandi musicisti che hanno suonato con lui. Insomma, fonti dirette che mi hanno raccontato tante cose su di lui. Dall’altra parte, credo che una biografia funzioni quando sia calata in un contesto storico-musicale-discografico. Per cui, io ritengo che Battisti abbia avuto un ruolo rivoluzionario nella nostra cultura popolare, così come lo hanno avuto i Beatles in quella britannica. Il paragone può sembrare scombinato, ma, fatti i dovuti distinguo, credo che regga. Quindi, ho voluto inserire la vicenda battistiana all’interno di una più ampia della storia della musica italiana ed internazionale, dando una sorta di risvolto corale a questa narrazione.
C’è un altro dato importante, da sottolineare: la bellezza e la piacevolezza di queste biografie è dovuta anche al taglio grafico e all’impaginazione della Hoepli. Queste collane Hoepli sono leggibili a più livelli: dal lettore maniacale che non ha paura della pagina fitta, al lettore meno abituato che ha la possibilità di saltare tra testo, ipertesto, box, oblò; insomma, un formato che presenta una lettura a più livelli – tra il libro e il magazine – destinata a lettori di ogni specie, con una veste grafica accattivante e con delle foto ad hoc. Ed è per questo che le collane Hoepli curate da Ezio Guaitamacchi sono un successo, poiché vanno incontro al lettore senza mai svendersi. L’elemento peculiare della collana “Storia della canzone italiana / I protagonisti” risiede nella coralità del lavoro svolto: così come è stato per Michelangelo Iossa in “Rino Gaetano. Sotto un cielo sempre più blu” e per Carmine Aymone in “Yes I Know…Pino Daniele. Tra pazzia e blues: storia di un Masaniello newpolitano”, l’obiettivo principale rimane quello di far parlare gli autori attraverso il mondo che li ha accolti, restituendo al lettore diversi percorsi di approfondimento in estrema connessione tra loro.


Le connessioni musicali di Lucio Battisti.

1. Bob Dylan
. Durante le sue interviste e le sue presentazioni, Mogol ricorda spesso che Battisti ascoltava in maniera meticolosa e attenta Bob Dylan giorno e notte. Se ascoltiamo le canzoni di Battisti, difficilmente possiamo paragonarle a quelle del cantautore americano;  se con un De Gregori, un De André, o un Massimo Bubbola, il paragone può reggere, con Battisti, invece, non traspare una matrice dylaniana così esplicita nelle sue canzoni. Tuttavia, l’affinità è da ricercarsi altrove: Bob Dylan ha dato voce ad un’urgenza espressiva, che era quella dei ragazzi nati negli anni Quaranta e cresciuti con il rock’n’roll durante il “boom economico”. È proprio questa idea dell’urgenza espressiva che Battisti prende da Bob Dylan, un’urgenza “felicemente distruttiva”: sacrifica volutamente il rispetto formale per le regole – l’intonazione, la dizione, la respirazione diaframmatica – per tirar fuori l’emozionalità. Infatti, il Dylan fino al 1966 rompe tantissime convenzioni, poiché deve tirare fuori un mondo espressivo che non ha argini e non può averli. Battisti ha conferma di questo nella musica di Bob Dylan, suo primo grande riferimento musicale.
2. Il rock anglo-americano. Il mondo del rock anglo-americano, con la matrice “nera”, è per Battisti un elemento di profonda libertà espressiva, che poi a fatto convivere, anche, con la ricercatezza e la raffinatezza di un altro tipo di composizione. La coppia Mogol-Battisti, ad esempio, la si può accostare molto al duo Elton John-Bernie Taupin, in quanto è molto affine la divisione netta tra musica e parole in entrambi i casi. D’altro canto, non si può connettere lo stesso Battisti col mondo della canzone d’autore: lui stesso rifiutava la dicitura “cantautore” [“Sono un autore che canta le proprie canzoni. Non un cantautore però!” (Lucio Battisti)]. La rifiutava perché, nell’Italia degli anni ’60-‘70, era una dicitura portava con sé un pesante assunto ideologico, il quale non interessava né a lui né a Mogol; inoltre, la rifiutava perché Battisti era un musicista, compositore pop-rock.
3. Le grandi figure di frontiera degli anni Ottanta: Peter Gabriel, David Byrne, Brian Eno, David Bowie. Si trattano di figure che hanno aggiornato la loro musica – senza timore di perdere ascoltatori, ma con l’obiettivo di intercettarne di nuovi – con le tecnologie più innovative. Se Peter Gabriel usava, all’alba degli anni Ottanta, il sintetizzatore “Fairlight”, Battisti ha fatto lo stesso studiando una serie di piattaforme elettroniche che poi trasportava nella realizzazione dei suoi cosiddetti “dischi bianchi”. 

Se mi chiedi di connessioni musicali con singole figure, al di là di Bob Dylan, ho difficoltà; se per connessioni musicali intendiamo, invece, i collegamenti con ambienti/correnti storico-musicali, lì troviamo tante connessioni. Ad esempio, col mondo della disco-music con album con “Io tu, noi tutti” (1977) e “Una donna per amico” (1978). Nel secondo, infatti, Battisti collabora con Geoff Westley, un arrangiatore britannico reduce dal lavoro con i Bee Gees (i quali ottennero un successo planetario con la colonna sonora di “Saturday Night Fever”).
Connessioni che hanno una peculiarità ben precisa: Battisti ha assorbito moltissima musica straniera, senza scadere in una mera accettazione a-critica, rielaborando e reinterpretando in maniera personale tutta la musica che ascoltava. In altri termini, è difficile trovare nella sua musica delle esplicite citazioni; è molto più semplice, invece, un assorbimento alla luce della sua personalità. La generazione del rock classico ci ha insegnato che non c’è una fase compositiva scritta, disgiunta dalla fase esecutiva; ma ci ha insegnato che le canzoni erano il frutto di una certa vocalità e di una certa manualità sulla chitarra. Quindi, Battisti non poteva non essere personale, in quanto era quella voce, era quella manualità, era quella plettrata decisa, sgraziata, dissimile da quella raffinata di Franco Mussida o di Massimo Luca. Lo “strumming battistiano” nasce non per procedimenti imitativi, ma perché la sua personalità – piuttosto ruspante – era quella. Una canzone figlia della propria fisicità, ed è per questo che Battisti era così personale. Così come lo era Fabrizio De André: quel timbro di voce e quella abilissima capacità di accompagnarsi si traducevano in canzoni che avevano una personalità ben precisa.



C’è una fase della vita di Lucio Battisti che vorresti sottolineare?

Mi preme molto sottolineare perché Battisti, ad un certo punto della sua carriera, azzeri tutto per ricominciare. Nel 1979 Battisti rilascia l’ultima intervista; successivamente pubblica “Una giornata uggiosa” (1980), ed è l’ultimo con Mogol (si separeranno pacificamente in quell’anno). Nel 1982 con i testi di tale Velezia, ovvero la moglie Grazia Letizia Veronese, Battisti pubblica il disco “E già”: un album di rottura radicale con il suo passato. Successivamente, incontra il poeta Pasquale Panella, e dal loro sodalizio – diversissimo da quello con Mogol – nasce “Don Giovanni”, album pubblicato nel 1986.
La domanda sorge spontanea: ‘Perché Battisti, che ci ha fatto piangere, innamorare, eccitare, sognare, ha cambiato così radicalmente la sua musica?’ Evidentemente perché era un artista, nel vero senso della parola: Battisti ha sempre avuto un’esigenza espressiva mutevole, e non si è mai adagiato sulla nostalgia, sulla auto-caricatura – come hanno fatto la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, sia singoli che gruppi. Se noi cerchiamo nella discografia battistiana un disco uguale all’altro, non lo troviamo. Questa diversità era figlia di un autore irrequieto, e, quando l’artista è irrequieto, non guarda indietro, ma guarda avanti: ha un orizzonte dinnanzi a sé e deve raggiungerlo, scavalcarlo e raggiungere quello successivo. Alla fine degli anni Settanta, Battisti si era reso conto che Mogol aveva raggiunto un punto limite oltre il quale non poteva più andare, e ciò cozzava con la sua indole galoppante. E, quindi, ha scelto di rinnovarsi, e lo ha fatto nella maniera più coraggiosa: distruggere il “mito” di Lucio Battisti, praticando un nuovo linguaggio e demolendo la sua immagine pubblica, a cui a tenuto fede con una coerenza esemplare. Battisti ha avuto il coraggio di rifiutare ingaggi televisivi o concertisti con assegni in bianco. ‘Quanti l’avrebbero fatto?’ Non c’è dubbio che gli anni Ottanta di Battisti siano caratterizzati da una straordinaria lezione di coerenza: scompare tutto l’orpello attorno alla musica, lasciando nient’altro che la musica stessa. Se volevi ascoltare Battisti dal 1986 in poi, non potevi fare altro che acquistare i suoi dischi, caratterizzati da una semplicità disarmante: copertina fatta da lui e piccoli credits per i musicisti. Il grande invito che faccio è quello, oltre che a leggere il libro “Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana”, di andare a recuperare i cosiddetti “dischi bianchi”, quelli con Pasquale Panella, perché lì si scopre il genio battistiano che “riduce” tutto alla musica, con zero chiacchiere e zero orpelli, ma con un assoluto rispetto per l’ascoltatore. Questa cosa la trovo assolutamente straordinaria.



Cosa prevedi per il futuro editoriale post-pandemia?


Durante il primo lockdown – marzo 2020 – l’editoria ha inevitabilmente subito una battuta d’arresto, ma molti editori hanno reagito immediatamente, intuendo che i libri sarebbero stati di grande compagnia: ad esempio, il Saggiatore ha messo a disposizione con la sua newsletter tanti PDF gratuiti. Questa battuta d’arresto è finalmente finita e si ricominciano eventi e presentazioni. Io seguo con molta attenzione la pubblicistica musicale italiana, dato che ho un programma radiofonico – “Rock City Nights” – in cui intervisto sempre l’autore di un libro. Nello specifico auspico che il lavoro che fa la Hoepli, che è l’editore al quale sono più legato sia affettivamente che professionalmente, sia seguito anche da autori più piccoli, in quanto è un lavoro in cui c’è l’unione fra un approccio divulgativo, più leggero e leggibile, con la qualità scientifica. Ezio Guaitamacchi è un nome a me molto caro, in quanto mi coinvolse, nel 2005, nel mio primo libro sulla PFM – “Premiata Forneria Marconi 1971-2006 – 35 anni di musica immaginifica” (Editori Riuniti, 2006). Quindi, le idee di “squadra”, di “qualità” e di “divulgazione”, restano le parole d’ordine di questi lavori, e io credo che l’editoria musicale italiana potrà non sopravvivere, ma vivere bene e in maniera positiva se riuscirà a dotarsi di squadre nelle quali ci sia la competenza, la qualità, l’approfondimento scientifico, insieme alla leggerezza – citando Italo Calvino, non come “leggiadria” ma come “planare dall’alto sulle cose” –  intesa non come superficialità, ma come visione sfrondata di tutto ciò che è inutile. Ci sono tanti editori che lavorano bene da questo punto di vista: cito la Tsunami, spostata molto sul versante metal, cito la Vololibero, che ha un approccio “libero”, piuttosto trasversale, cito le collane musicali Mimesis, curate da Luca Cerchiari – anche se auspico che recuperi quell’approccio intermediale che aveva in precedenza, spero che la Giunti – la collana di Riccardo Bertoncelli – torni a pubblicare un po’ di cose, cito Crack Edizioni, che è un editore più piccolo, ma molto interessante, in quanto si è dedicato a segmenti di nicchia (ad esempio, Flavio Giurato, gli Squallor), oppure pubblica i libri di Leonardo Vittorio Arena, intellettuale a me caro per il suo pensiero di musica e oriente. Quindi, il mio grande auspicio è quello di una “rinascita” dell’editoria con “factory” – per citare un termine “pop” – che uniscano competenza e divulgazione. Spero, anche, che si ritorni per bene alle presentazioni, quelle che stanno facendo attualmente i miei amici Daniele Follero e Luca Masperone – autori di “La Storia Di Hard Rock & Heavy Metal” (Hoepli, 2021). Mi arriva molto, non tanto da parte loro, un carattere di eccezionalità; mi piacerebbe, invece, che dall’eccezionalità si passasse alla ordinarietà delle presentazioni come un tempo, ma, ovviamente, dobbiamo adeguarci a quelle che sono le richieste legali e sanitarie in tempo di pandemia.

Link di acquisto


Donato Zoppo
– Biografia

Scrittore e conduttore radiofonico, collabora con i magazine Audio Review e Jam. Dal 2007 conduce sulle frequenze di Radio Città BN Rock City Nights, uno dei programmi rock più seguiti dell’etere nazionale. Nel 2005 ha fondato l’ufficio stampa Synpress44. Ha scritto numerosi libri su Beatles, King Crimson, Area, PFM, Genesis e molti altri. Ha dedicato una parte importante della sua attività a Lucio Battisti con ben tre libri su di lui, tra cui il bestseller Il nostro caro Lucio. Storia, canzoni e segreti di un gigante della musica italiana (Hoepli, 2018).

— Onda Musicale

Tags: Lucio Battisti
Segui la pagina Facebook di Onda Musicale
Leggi anche

Altri articoli