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Alan Sorrenti, “Aria” e il leggendario periodo progressive

Alan Sorrenti nel '72

Dite la verità: leggendo il nome di Alan Sorrenti avete subito pensato ai figli delle stelle e ai successi da classifica in chiave discomusic. E invece siamo qui a parlare di uno dei dischi più stupefacenti del movimento prog italiano, Aria.

Il seme della particolarità stilistica di Alan Sorrenti è gettato già alla nascita; il cantante nasce infatti a Napoli, il 9 dicembre del 1950, ma le sue origini sono miste. Il padre – come suggerisce subito il cognome – è infatti partenopeo, mentre la madre è gallese. Ed è proprio nel Galles, ad Aberystwyth, che Alan trascorre parte della giovinezza.

Così, per Sorrenti, è facile assimilare la cultura della canzone napoletana classica e i fremiti dell’avanguardia anglosassone. E se la prima si affaccerà in particolare nella splendida rilettura del classico Dicinticello vuje e in un certo gusto per la melodia, i secondi la fanno da padroni.

Alan Sorrenti è da subito un fenomeno atipico per la scena del pop italiano; innanzitutto si presenta come solista nell’ambito della musica alternativa, dove le band sono la stragrande maggioranza. I soli Claudio Rocchi e Juri Camisasca sono forse assimilabili o, in senso più lato, Franco Battiato e Eugenio Finardi. Ma quello che lo fa emergere come caso a parte è soprattutto lo stile.

Le composizioni musicali sono di difficile classificazione; tra echi di psichedelia, suite di stampo progressivo e melodie senza tempo, il sound di Sorrenti strizza l’occhio al folk progressivo più nobile. La voce lascia di stucco; mai prima d’ora in Italia si era sentito qualcosa di simile. I paragoni più frequenti sono per l’impareggiabile ugola di Tim Buckley e per uno dei massimi cantanti prog, Peter Hammill dei Van Der Graaf Generator.

Se il primo è decisamente una spanna sopra per la tecnica, è pur vero che l’innesto della tradizione napoletana dona ad Alan Sorrenti una marcia in più.

Anticipando di un anno la sorella Jenny, delicata e bravissima vocalist dei Saint Just, Alan dà alle stampe il debutto di Aria nel giugno del 1972. L’accoglienza all’epoca è eccellente da parte della critica, ma l’LP vende anche bene in classifica; oggi il disco è considerato un vero e proprio oggetto di culto.

La critica, come detto, è pressoché concorde: Cesare Rizzi gli dà il massimo dei voti, arrivando a considerarlo uno dei migliori esempi di progressive mediterraneo; la title track è per il giornalista uno dei momenti più ispirati del genere in Italia. Il lavoro viene inoltre selezionato tra i migliori esempi di prog italiano dalle maggiori pubblicazioni dedicate.

E allora perché Alan Sorrenti viene ricordato più per i suoi trascorsi disco, coi baffi e un look da Tony Manero da balera, che non per questo capolavoro? La risposta è meno scontata del previsto; è vero che pezzi come Figli delle stelle, Tu sei l’unica donna per me o Non so che darei vendono tantissimo e lo fanno conoscere al grande pubblico, ma d’altra parte è innegabile che dopo Aria la sua parabola nel mondo della canzone d’autore sia velocemente scemata.

Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto, seguito di Aria, mostra già un calo d’ispirazione. La formula è la stessa, la produzione è forse migliore, ma l’impressione è che quanto avesse da dire in ambito prog, Alan l’abbia detto tutto in Aria. Da lì in poi l’abboccamento verso il pop è costante, fino al tracollo di Figli delle stelle, che appena cinque anni dopo Aria, lo rende milionario e gli aliena le simpatie del rock impegnato.

La leggenda narra di problemi vocali non meglio specificati, testimoniati anche da qualche prestazione live dell’epoca non proprio da incorniciare. Questa versione contribuisce a tracciare contorni meno foschi al suo cambio di genere artistico; semplicemente, secondo alcuni, Alan Sorrenti non riusciva più tecnicamente a proporre il suo stile peculiare, fatto di falsetti e di vocali prolungate fino al parossismo; oltre a trucchi che gli rendevano possibile utilizzare la voce come un vero e proprio strumento musicale.

Ma torniamo al 1972, quando ancora tutto pare possibile e il rock progressivo in Italia è un fenomeno appena nato. Aria stupisce già dalla copertina, curata da Umberto e Fiorella Tedesco; nella foto appare la spettrale figura di Alan, con barba e capelli lunghi, sullo sfondo filtrato di un bosco. La foto ricorda un po’, per le atmosfere, quella del primo disco dei Black Sabbath, chiarendo subito le suggestioni oniriche cui l’ascoltatore va incontro.

Il vinile inizia a girare e subito una serie di effetti ambientali fanno da sfondo al dolce arpeggiare di una chitarra acustica; la melodia è sognante e senza tempo, le atmosfere quelle di un folk bucolico e delicato. In sottofondo i vocalizzi di Sorrenti rendono il tutto vagamente onirico, mentre altri strumenti vanno aggiungendosi. Entra finalmente il cantato di Alan, fatto di vorticosi saliscendi e vocali allungati.

Il testo, col parallelo aria-amante, è piuttosto criptico ma in sintonia con la musica. I trucchi vocali di Sorrenti sono da manuale, tanti da destabilizzare il fruitore. Sugli scudi anche il basso melodico di Vittorio Nazzaro e le percussioni di Tony Esposito, un altro che strizzando l’occhio al pop venderà palate di dischi. Tra cambi di ritmo e d’atmosfera, emerge il grande lavoro di Albert Prince, autore anche degli arrangiamenti.

Il contributo fondamentale è però quello del magico violini di Jean-Luc Ponty. Il virtuoso francese, già con Stéphane Grappelli, la Mahavishnu Orchestra ed Elton John, fa decollare definitivamente la suite con la sua vertiginosa abilità.

Aria, in definitiva, è uno dei passaggi più riusciti del prog italiano e di tutta la scena po dello stivale. Venti minuti di perfezione e di pura ispirazione.

La seconda facciata è dominata da tre pezzi, sempre piuttosto lunghi ma sicuramente più canonici. Vorrei Incontrarti è una delicata ballata folk, un classico trasognato, un saliscendi tra le colline della memoria. Il testo è suggestivo, forse meno onirico di Aria, ma ugualmente guidato più dalle immagini che da un senso compiuto. La chitarra classica di Nazzaro è arpeggiata come dio comanda, Albert Prince omaggia di ulteriore malinconia con una parte di fisarmonica.
Due su due, Alan Sorrenti mette a segno uno degli avvii di carriera più fulminanti che si ricordino.

Con La mia mente si torna nella pura avanguardia. La voce spettrale e sibilante di Sorrenti si staglia sulla chitarra acustica e sul tappeto di sintetizzatori di Prince. La parte cantata si divide la scena col piano elettrico pieno di virtuosismi dello stesso Prince, che stavolta dà fondo al repertorio jazz; è un brano che si dipana in una crescita orizzontale, senza cambi di ritmo. Il finale è pura follia sonora, tra fiati dissonanti e i vocalizzi effettati di Sorrenti. Un tripudio sonoro che sfocia in cinguetti di uccelli, fino a diventare Un fiume tranquillo, ultima traccia del lavoro.

Il brano – lungo otto minuti – offre una sorta di riassunto delle diverse atmosfere dei primi tre; parte tranquillo, con un andamento quasi jazzato, si trasforma in ballata melodica, per poi lasciare spazio a una serie di cambi di ritmo. Prince impreziosisce con intarsi di sintetizzatore, mentre Alan Sorrenti è ancora al top coi suoi spericolati esperimenti vocali.

Il finale è sorprendentemente cupo, con un maestoso organo da chiesa che richiama quasi i Pink Floyd di A saucerful of secrets.

Il lavoro finisce così, e si ha quasi la sensazione di avere assistito a un rito pagano, a qualche ancestrale concerto druidico. Difficilmente si era ascoltato qualcosa di paragonabile ad Aria, e poco altro si ascolterà; di lì a poco Alan Sorrenti lascerà le sue radici celtiche per abbracciare quelle da figlio delle stelle.

Una perdita per l’arte, forse, ma un percorso comunque degno, godibile e pieno di successo popolare.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd
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