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Måneskin, per una volta parliamo della loro musica: la recensione

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I Måneskin

La proposta è di quelle che fanno tremare le vene dei polsi. Mi chiama il mega-direttore di Onda Musicale e mi fa: “Tutti parlano dei Måneskin ma nessuno parla della loro musica. Ti andrebbe di scrivere una recensione di Teatro d’Ira Vol. I come fai di solito per Pink Floyd e Led Zeppelin?”

E certo che non mi va, chi sono io per ficcarmi in un vespaio come questo? E invece, ubi maior, eccomi qui a scrivere di Teatro d’Ira Vol. I e di questi benedetti ragazzi. I Måneskin. Per farlo ho deciso di contravvenire alla prima regola del buon recensore, parlando in prima persona come se scrivessi sul blog da esperto del pianerottolo.

I Måneskin, ormai lo sanno pure le pietre, escono fuori da quella bolgia talent che è X Factor, nel 2017. La loro immagine ricalca in tutto e per tutto quella dei rocker belli e dannati. Già, peccato che sia un’estetica superata più o meno cinquant’anni fa. Il rock è morto, non lo dico io ma è un dato di fatto, e lo è all’incirca dal 1977; da quando, cioè, dei ragazzi inglesi con una rabbia che i Måneskin riproducono solo nell’estetica, inventarono quella cosuccia che si chiama punk.

Parliamoci chiaro, il problema di fondo è il target.
Questa brutta parola indica il pubblico a cui una proposta musicale si rivolge, e qui i nodi vengono al pettine. Troppo facile per navigati cinquantenni e sessantenni gettare la croce addosso a Damiano David e compagnia bella. Basta leggere i commenti sotto un qualsiasi post che parli dei quattro ragazzi: “Basta con questa roba, vado ad ascoltare i Led Zeppelin!”; oppure “vediamo quanto e durano” e – per dirla con Greta – bla bla bla.

Semplicemente, costoro non fanno parte del target a cui il prodotto Måneskin si rivolge; e non ne fa parte nemmeno l’imbalsamata platea sanremese, capace – nel 2021 – di scandalizzarsi per un paio d’occhi bistrati e qualche parolaccia urlata in faccia a non si sa chi. Il target dei Måneskin è quello di X Factor e di Amici. Adolescenti per cui il rock – udite udite – è una novità, da contrapporre alle lagnose nenie trap e all’electro pop da classifica.

In questo senso il fenomeno Måneskin ha anche i suoi risvolti positivi; pare, per dirne una, che i ragazzini che vogliano imparare a tenere in mano uno strumento si siano moltiplicati, e che qualcuno sia addirittura andato a scoprire le fonti. E pure scoprissero i Red Hot Chili Peppers e i Nirvana, se non Led Zeppelin e Deep Purple, comunque sarebbe una buona notizia. Quanto al rock, questa mummia che amiamo così tanto e che periodicamente viene resuscitata, è ovviamente ben altra cosa. Quella dei Måneskin, ma anche dei Greta Van Fleet e di mille altre valide band, è solo rappresentazione.

I ragazzi romani urlano, perennemente sopra le righe, la loro rabbia verso dei fantomatici loro non meglio identificati; sono incazzati, vogliosi di rivincita e ben decisi a non arrendersi ai soprusi di chissà chi. Sì, perché dopo aver quasi vinto X Factor, i Måneskin hanno sbancato Sanremo e collezionano un successo dopo l’altro. Vien da chiedersi chi siano questi cattivacci contro cui i quattro hanno tanto da sbraitare, visto che tutte le porte si sfondano da sole al solo pronunciare il fatidico moniker.

Certo, il fenomeno non può essere liquidato solo con la sempre salutare ironia; la band ha i suoi bei pregi, una presenza scenica con pochi rivali, benché parodistica, e un leader carismatico. Non solo, se non altro suonano i loro strumenti, nemmeno così male, e hanno un buon tiro dal vivo. Inoltre, in un panorama italico di autori che passano dallo Zecchino d’Oro al metal, si scrivono le loro cose in solitudine.

Ma, venendo a questo benedetto Teatro d’Ira Vol. I, come suonano su disco. Mettiamo su il vinile, si fa per dire, e proviamo ad ascoltare senza preconcetti. Il packaging, intanto, è un patinato capolavoro d’imitazione rock per adolescenti. La copertina pare a metà tra i Pink Floyd a Pompei e la brochure di un profumo di marca. I ragazzotti smicciano incazzati e strafottenti, vestiti come hippie fuori tempo massimo: l’effetto autostoppista un po’ fatto è dietro l’angolo.

Il titolo allude, minacciosamente, a possibili altri capitoli e strizza di nuovo l’occhio all’ala degli adolescenti arrabbiati; quelli contro tutto e contro tutti, quelli che odiano il mondo intero, forse perché in primis odiano sé stessi. Tutto perfetto, nell’ambito del progetto di marketing.

Facciamo partire Teatro d’Ira Vol. I e subito ci troviamo al cospetto di Zitti e Buoni, il pezzo che ha rivoluzionato – scherzo – Sanremo. Il riff che ci accoglie non è niente male, più dalle parti dei Red Hot Chili Peppers che non degli anni ’70, ma con un discreto tiro. L’attacco di Damiano chiarisce subito che non siamo di fronte a liriche di Bob Dylan.

Loro non sanno di che parlo
Voi siete sporchi, fra’, di fango
Giallo di siga fra le dita
Io con la siga camminando

Scusami ma ci credo tanto
Che posso fare questo salto
E anche se la strada è in salita
Per questo ora mi sto allenando

L’autore ricorre a uno slang giovanilista più che giovane, quasi parodistico. David è costantemente sopra le righe, e questo potrebbe essere un bene, avendo in fondo i ragazzi vent’anni. Il ritornello è l’ideale per i momenti live più infuocati; nella parte centrale un break di basso fa da spartiacque e nel finale Thomas Raggi propone qualche timido lick di chitarra. La somiglianza con F. D. T. di Anthony Laszlo, va detto, è innegabile, anche se il pezzo del 2015 suona molto più anarchico e vero; tanto che nessuno l’ha filato.

Si prosegue con Coraline, ballatona che svolge il ruolo che fu di Torna a Casa nel primo album; con Coraline al posto di Marlena. Qualcuno ha scomodato Stairway to Heaven per la struttura. Vabbé. Il pezzo è comunque ben costruito, solo chitarra, basso e voce per un minuto e mezzo, poi la sei corde passa dall’arpeggio alla ritmica. Entra la batteria e la voce di Damiano, fin qui insolitamente misurata, inizia a farsi come sempre roca e rock.

Il cantato di David è meritevole di qualche parola in più. Il timbro è davvero molto simile a quello – bellissimo – di Finn Andrews dei The Veils; purtroppo pare che il carismatico David debba ancora imparare l’arte della misura e vanifica le sue potenzialità tenendo perennemente al massimo dello sforzo le corde vocali. L’effetto è quello della rassicurante ribellione da sabato pomeriggio, quasi un’Emma Marrone declinata in versione maschile e rock. Il pezzo comunque funziona bene e offre anche il palcoscenico per un assolo di Raggi, anche se abbastanza scolastico. Cosa turbi tanto Coraline, come già per la fuggitiva Marlena, rimane un po’ un mistero.

Lividi sui Gomiti si muove sulla falsariga di Zitti e Buoni, un bel riff hard rock e il canto quasi rap di David, sempre arrabbiato contro fantomatici avversari ostili. Thomas Raggi intarsia di ricami chitarristici e propina robuste pennate di tanto in tanto. Victoria De Angelis, che fin qui non ho citato, è precisa e puntuale al basso. Purtroppo il pezzo, quando pare sul punto di esplodere in una potenziale cavalcata hard, implode e collassa su se stesso senza arrivare al limite dei tre minuti. Un po’ poco per un pezzo che vorrebbe scuotere come dovrebbe scuotere il vero rock.

Ed ecco arrivare le dolenti note, non che fin qui Teatro d’Ira Vol. I sia un capolavoro. I Wanna be Your Slave, cantato in inglese, è davvero un brutto pezzo. La voce di David quando canta in inglese è più ringhiante, in modo davvero estenuante, in più l’andamento cantilenante rende il brano un vero calvario per l’ascoltatore. Al netto di qualche discreta intuizione chitarristica.

In Nome del Padre si muove ancora su un bel riff, quasi di matrice Deep Purple; lo stile di David è anche qui simil rap, un po’ a scimmiottare i gloriosi Rage Against the Machine. Il testo è ancora teneramente anarchico, con un effetto ribelli di peluche sicuramente indesiderato. Lo schema break di basso e breve assolo riprende quello di Zitti e Buoni senza sorprese.

For Your Love non c’entra purtroppo nulla con l’omonimo pezzo degli Yardbirds, ma è il secondo episodio inglese del disco. Un brano che ricorda un po’ proprio i The Veils più mossi prima di approdare a un ritornello improvvido, uscito dritto da Mtv e dagli anni ’90. Pare quasi un remake di Nobody’s Wife di Anouk, se ve la ricordate.

La Paura del Buio parte come una ballata, anche se il ringhio un po’ monotematico di Damiano è sempre graffiante, poi esplode in un ritornello rock quasi in staccato. Il pezzo si conclude con la sola voce di David.

Si chiude con Vent’anni, ballata che si apre con un bell’arpeggio che è forse la cosa migliore del lavoro. Il brano vanta un bel crescendo con una melodia quasi sanremese; il ritornello è azzeccato e anche l’assolo di Raggi per una volta strappa un piccolo brivido. Il pezzo suona – piacevolmente – datato, quasi una ballatona da Guns’n’Roses ma con una sensibilità melodica italiana. Vanifica un po’ l’atmosfera il testo, che rischia di risultare vagamente patetico.

Teatro d’Ira Vol. I si chiude così, poco più di mezz’ora che però lascia l’ascoltatore blandamente estenuato; troppe urla, troppo da dire: troppo di tutto. Come sarebbe salutare cercare di ascoltare i classici, come i Måneskin hanno sicuramente fatto, ma con un occhio anche al senso della misura. Anche Robert Plant, del resto, non urlava mica sempre.

Quanto al fenomeno Måneskin in sé, mi ripeto, si tratta di una macchina per il successo furba e ben oliata. Inutile scandalizzarsi, né da benpensanti, né da custodi del sacro verbo del rock. I Måneskin sono quattro ragazzi di vent’anni che credono – fin troppo – in quel che fanno. E che, a modo loro riuscendoci – hanno voglia di spaccare il mondo, sicuramente prendendosi un tantino troppo sul serio.

Il rock, però, è un’altra cosa.
Ed è morto.

— Onda Musicale

Tags: Guns N' Roses/Yardbirds/Maneskin/Deep Purple/Pink Floyd/Bob Dylan/Robert Plant
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