Thriller, l’album che ha consacrato la carriera solista di Michael Jackson, è stato pubblicato nel 1982. Bad, l’album che gli succede, arriva cinque anni dopo, un tempo ragionevole per un artista degli anni ottanta, ma il Michael Jackson che canta su quelle tracce è trasfigurato in tutt’altra persona.
L’artista che ha inventato il video musicale e che si è fatto notare in tutto il mondo per le sue uniche mosse coreografiche risulta, paradossalmente, stanco di ballare – e in Bad incanala un imponente grido d’aiuto ai suoi cari, ai piani alti della sua carriera, al mondo stesso, come a chiedere di scendere da una giostra della quale sta perdendo il controllo. In quella cornice Thriller sta a Bad come l’impressionismo all’espressionismo: prima uno sguardo in cerca di bellezza, capace di catturare nella realtà le sensazioni di un momento in corso; poi un racconto di emozioni, momentanee ma cristallizzate per sempre nella musica. Per far sapere al mondo cosa pensa l’uomo più controverso nel mondo della musica.
Bad vuole essere, almeno nella traccia omonima che lo apre, un momento quasi shakespeariano per Michael Jackson: in cui accoglie i pettegolezzi, le malelingue e l’aggressione mediatica da tutti i fronti e indossa con orgoglio il costume che gli viene imposto dall’esterno. “Il tuo c*lo è mio”, canta nell’apertura di Bad – sia la canzone che l’album in toto. E “tutto il mondo deve rispondere adesso”, perché diventare “cattivo” non è stata una decisione che ha preso da solo. Il critico ToddInTheShadows definisce Bad un singolo alla “I’m Back, B****es”, uno di quelli che i cantanti pubblicano quando sanno di avere seguaci abbastanza leali da seguirli qualunque cosa facciano, e vogliono solo crogiolarsi nel loro trionfo. E la tesi di Michael Jackson con il resto dell’album si condensa in una domanda: non ha forse diritto, lui, di godersi un momento simile?
C’è uno scambio di prospettiva alle fondamenta
In Thriller la musica accompagna il testo e fa di esso la sua cornice. È uno sfoggio da performer da parte di Jackson, che fa dell’album il suo biglietto nell’olimpo della musica: ma cosa fare una volta arrivato lassù? Bad è la risposta, e la cronaca della vita dopo l’ascesa. Ama ancora cantare e ballare, ma vorrebbe essere lasciato in pace mentre lo fa, e nell’attesa che accada combinerà la sua passione con i suoi principali fastidi. Il sound è più aspro, le performance più emotive – e più rivolte a sé stesso che al mondo che lo guarda.
Anche Thriller, a cominciare dalla traccia del titolo, giocava con l’orrore, ma è proprio quell’istinto giocoso a piantare le basi della separazione. Gli orrori di Thriller sono una recita, sono “nello schermo”: la scelta di Vincent Price per narrare l’introduzione parlata non contribuisce soltanto a dare alla traccia una qualità distintiva, ma a costruire al massimo l’artificio della situazione. Vincent Price non è più, tolto il costume, un malefico signore dell’oscurità: non si può dire lo stesso di Michael Jackson, i cui mostri lo tormentano anche fuori dal palco, senza più le giacche di lustrini e le scarpe truccate per il ballo. La sua risposta è unirsi a loro e fare il mostro tra i mostri, e come tutte le illusioni non è destinata a durare.
In cinque anni cambiano le battute, cambiano i personaggi
Alla tentatrice Billie Jean Michael si rivolge sempre in terza persona, definendola “just a girl” e scrollandosela di dosso senza un secondo pensiero; alla “Dirty Diana” che appare in Bad sembra voler rivolgere una simile cortesia… fino al pre-chorus, finché adottato d’un tratto la seconda persona, si trova a implorare di essere lasciato stare, con quel “let me be” ripetuto ad oltranza e con uno scoppio di pianto dopo il secondo ritornello, a cui ci si trova a pensare anche a disco finito.
La corazza di invulnerabilità attorno a Jackson si sfalda pian piano col proseguire dell’album. C’è un secondo tentativo di recitare quando si arriva a Smooth Criminal, ma il camp di Thriller non c’è più, e basta una menzione al tappeto macchiato di sangue in casa della vittima Annie per creare un orrore molto più completo di qualunque bestiaccia strisciante possa essere evocata dalla voce di Price. Another Part Of Me suona come una canzone ballabile come tante, di quelle che Jackson aveva già perfezionato in Thriller. Qui Jackson nasconde l’intento distruttivo nel testo, che riprende un tradizionale leitmotiv delle tracce da pista, quella dell’attacco. Non zombie, questa volta, ma un’armata in piena regola, che si vede, si tocca – si sente.
Ma alla fine, forse, il momento più buio dell’album – e quello che condensa in sé tutti i suoi leitmotiv, la supplice musicale dell’artista di tornare a vivere la sua vita al di fuori del gossip – è Man In The Mirror, che solo apparentemente Jackson rivolge a sé stesso. “Se vuoi fare del mondo un posto migliore/guarda te stesso e cambia”. Discorso diretto non del tutto a sé stesso, come si penserebbe, ma a quegli stessi sguardi che lo circondano in ogni sua azione.
Cosa può offrire, Thriller, in risposta a un momento come questo?
Al massimo Human Nature, che alla fin fine è una canzone su un’uscita romantica, ed è forse uno dei Michael Jackson più allegri e sereni anche nelle sue riflessioni sui rapporti umani. “Mi faccio avanti/per toccare una sconosciuta”, diceva il Jackson di Thriller: e cosa potrebbe rispondere al riguardo quello di Bad, che non sapeva nemmeno se fidarsi degli amici. Man In The Mirror sigla la nascita del Jackson impegnato socialmente, che si preoccupa dei poveri e dei diseredati, e nella canzone giustappone due sguardi, non a caso, speculari. Implorando il pubblico di curarsi maggiormente dei dimenticati Michael si pone nei loro panni, e fa dello specchio uno scudo protettivo tra sé stesso e il pubblico a casa. Suggerendo, piano piano, che forse dovrebbero preoccuparsi di problemi più a portata, molto più concreti di un assalto di non morti di cui ormai non si sente più parlare.
Niente ma-ma-makusa, quest’oggi. E forse mai più
Bad è per Michael Jackson il momento di vertigine prima della discesa, e da lassù anche il pubblico giunge a guardare a Thriller come a un momento di salita. A riascoltarlo oggi, trentacinque anni dopo la sua pubblicazione, lascia quasi un senso di sconforto: quasi fosse possibile mandare indietro il tempo e restituire al buon Michael i momenti di gioia perduti. Il moonwalk sapeva farlo ancora, ma non sembra che ne avesse voglia: si rimane a pensarci anche dopo che è tutto finito, con in testa quella strano pianto in Dirty Diana. Realizzando che a conti fatti l’album più cupo non è quello con l’invasione di zombie.