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“Anime Salve”, l’ultimo, grande capolavoro di Fabrizio De André

Anime Salve e De André nel 1998

Quando nel settembre del 1996 esce Anime Salve, Fabrizio De André è una sorta di mito vivente della musica italiana. Il disco segna il ritorno alla formula del concept album, cara al De André degli anni più conflittuali.

All’epoca nessuno lo immagina, ma Anime Salve sarà condannato al pesante privilegio di diventare il testamento artistico del grande artista genovese. Sì, perché appena poco più di due anni dopo, una terribile malattia porterà via Faber proprio nel pieno di una seconda giovinezza artistica, piena di progetti e collaborazioni che non vedranno mai la luce.

Anime Salve nasce dalla collaborazione con Ivano Fossati, altro grande cantautore genovese con un passato nel rock progressivo. Prima di abbracciare la canzone d’autore, infatti, Fossati è stato l’anima dei Delirium, band tra le migliori del movimento. Il concetto attorno a cui si sviluppa Anime Salve è caro al De André autore, quello degli ultimi e della solitudine.

Fin dagli inizi, il cantautore è stato il bardo degli emarginati, di quei personaggi che raramente avevano trovato spazio tra le parole della musica leggera; ladri, prostitute, zingari, depressi e infelici, opposti all’ottusità del potere e all’indifferenza della borghesia. La seconda parte della carriera di De André, però, si segnala anche per la grande ricerca musicale, spesso sottovalutata ma di grande spessore.

Al tempo dei social, quelli che – per dirla con Umberto Eco – hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli, non passa giorno che non salti fuori qualcuno a disprezzare De André. Persone prive della sia pur minima competenza, certo, ma talvolta anche artisti in disgrazia, invidiosi del talento altrui o personaggi in cerca di una cassa di risonanza per il proprio ego.

E invece, con buona pace di accusatori vari, la realtà pura e semplice è che Fabrizio De André, a oltre vent’anni dalla scomparsa, resta il più grande patrimonio della canzone italiana. Un patrimonio privo di veri eredi.

Se al De André della prima ora si può – tuttalpiù – rimproverare una certa piattezza musicale e l’appropriazione di stilemi altrui, quello della maturità sfugge anche a questa timida critica. Se i pezzi degli anni Sessanta sono passati alla storia soprattutto per la qualità delle liriche, mentre musicalmente erano radicati nella tradizione della ballata e nella lezione di Brassens, diverso è il discorso dagli anni Settanta e – specialmente – Ottanta.

Le collaborazioni con la PFM, col grande polistrumentista Mauro Pagani, l’interesse per la World Music prima che fosse di moda. Il De André della maturità è un raffinato ricercatore musicale e uno studioso di dialetti e tradizioni. Il capolavoro in lingua genovese, Crêuza de mä, sta lì come un monolite a ricordarlo. Una maturazione iniziata con la crisi degli anni Settanta e con l’oscura vicenda del rapimento sardo.

A Crêuza de mä seguono anni di collaborazioni, interrotte solo da Le Nuvole, disco che contiene gemme di abbagliante bellezza ma che forse non vanta la compattezza di Anime Salve.

Dunque, Anime Salve.
Il disco nasce – come detto – come lavoro a quattro mani di De André e Fossati. Secondo una dichiarazione di Ivano, la divisione sarebbe stata equamente squilibrata a favore di De André per i testi e viceversa per la musica. Una ripartizione frutto non di un progetto a tavolino, ma del naturale fluire degli eventi.

A proposito del titolo, è lo stesso De André che dichiara: “Trae il suo significato dall’origine, dall’etimologia delle due parole anime salve, vuol dire spiriti solitari. È una specie di elogio della solitudine.”

Il parterre di musicisti che lavora ad Anime Salve è di grande prestigio, a partire dai familiari di De André; la brava Dori Ghezzi, moglie del cantautore, partecipa ai cori, prendendosi anche una bella parte solista nel finale di Khorakhané (A forza di essere vento). La figlia Luvi, cantante dalla voce cristallina, figura pure tra le coriste. Cristiano, il figlio, è ormai il suo vero braccio destro, anche se appare come polistrumentista solo ne Le acciughe fanno il pallone.

Fossati duetta con Fabrizio nella title track e nella dialettale  cúmba; tra gli altri musicisti troviamo il percussionista brasiliano Naco, un grande del cymbalon, Sàndor Kuti, il fisarmonicista russo Vladimir Denissénkov, l’arpa di Cecilia Chailly e una schiera di strumentisti di grande livello.

L’apertura di Anime Salve è affidata a Princesa, vero manifesto del disco e sull’emarginazione, incredibilmente in anticipo sui tempi. La storia è quella di una prostituta, figura cara a De André dai tempi di Via del Campo, ma adattata ai nuovi tempi; Princesa, infatti, è Fernanda, già Fernandinho, una donna trans che arriva dal Brasile.

La storia è ispirata a quella vera e tragica di Fernanda Farias De Albuquerque.
La donna, in carcere per una controversa aggressione a una sfruttatrice, scrive la sua vicenda assieme all’ex-brigatista Maurizio Jannelli, anch’egli recluso a Rebibbia. Musicalmente, Princesa mischia effetti ambientali di strada, atmosfere sudamericane, passaggi swinganti e un bel refrain con un piano tintinnante.

Incredibile come, nel bel testo, De André narri una storia che potrebbe essere del tutto contemporanea, senza giudizi e in anticipo sui movimenti LGBT che spesso ancora oggi suonano troppo moderni per i benpensanti.

Si passa a Khorakhané (a forza di essere vento), dedicata al popolo Rom.
Il testo è un vero pugno nello stomaco e – allo stesso tempo – un capolavoro tra i tanti di Fabrizio De André. Musicalmente il cantautore sembra tornare ai propri esordi, con una sorta di valzer che ricorda Leonard Cohen. La coda, cantata in romani, la lingua dei Rom, è nobilitata da una bella prestazione di Dori Ghezzi; dal vivo, la stessa parte sarà di Luvi, con un risultato da brividi.

Nel testo vengono citati secoli di persecuzioni, tra cui il Porrajmos, termine con cui i Rom indicano lo sterminio nazista perpetrato ai loro danni.

“Sarebbe un popolo da insignire con il Nobel per la pace per il solo fatto di girare per il mondo senza armi da oltre 2000 anni” dichiara durante un concerto De André.

Anime Salve, il pezzo che dà il titolo al disco, è il primo duetto con Ivano Fossati. Un brano lento che riassume un po’ il senso dell’album, pur non risultando alla fine tra quelli che rimarranno più nella memoria. L’intero disco, ma forse anche gran parte della carriera di De André, pare un inno alla migrazione, colta nelle figure ai margini, ma anche nel miscuglio di ispirazioni musicali.

Dolcenera è invece forse il brano più celebre e celebrato dell’ultima parte della vita di Fabrizio. Un vero capolavoro, spesso frainteso per la musica solo in apparenza allegra e dal ritmo sinuoso, grazie all’iconica parte di fisarmonica. Il testo narra in parallelo una storia d’amore più sognata che reale e quella della terribile alluvione di Genova del 1970.

Il ritornello cantato in genovese, i voli pindarici della fisarmonica, la voce bassa e spietata di De André: tutto in Dolcenera ha le carte in regola per entrare nel novero delle più belle canzoni italiane. E così è.

Le acciughe fanno il pallone: così si usa dire in Liguria quando in autunno le acciughe inseguite dal grande pesce azzurro (l’alalunga) scappano verso la superficie. Nelle giornate senza vento si possono vedere dalla riva saltare a migliaia fuori dall’acqua a formare scintillanti semisfere.”

Le acciughe fanno il pallone è un piccolo capolavoro sottovaluto di Anime Salve; la parabola di un povero pescatore di acciughe, quasi invisibile alla gente, che sogna una vita migliore tra aerei e stelle marine. Non è altro che una metafora della vita, di una lancinante malinconia.

La musica è suggestiva, tra folk etnico e il prog rinverdito dalle note di un flauto alla Ian Anderson. La lunga coda finale risolve il tutto in chiave World Music.

Il tempo della brusca chiusura e una ficcante chitarra acustica annuncia Disamistade, altro capolavoro sottovalutato del disco. Su una trama tutta acustica, tra ballata popolare e profumo di blues, De André narra una storia antica di faide sarde, che però è talmente universale da sembrare sempre attuale. Il tutto con alcuni versi memorabili, dal “dolore degli altri è sempre dolore a metà”, a “uno scoppio di sangue, un’assenza apparecchiata per cena”.

Basterebbe una Disamistade per nobilitare la carriera di qualsiasi cantautore, mentre nel canzoniere di De Andrè è quasi un pezzo minore, seppure ingiustamente.

Arriva, con  cúmba, il momento della canzone in dialetto genovese. Il pezzo, cantato in duetto con Ivano Fossati, è leggermente incoerente nella compattezza da concept del disco; tuttavia, permette di tirare un po’ il fiato. A livello musicale il brano è molto mosso, quasi una sorta di saltarello.

Rimangono due canzoni per una chiusura da antologia.
Il primo è Ho visto Nina volare, brano dal testo vagamente autobiografico di grande valore poetico. La musica, lenta ed epica, si snoda su un arpeggio di chitarra classica e qualche tocco ricco di pathos di pianoforte. L’ennesimo capolavoro del disco.
Il testo rievoca il primo amore da ragazzino per Nina, e ruota essenzialmente attorno al senso di colpa, raffigurato dall’ombra che visita di notte il protagonista.

Il verso “mastica e sputa”, che tanto ha fatto interrogare, pare derivi da un’antica pratica degli apicoltori, a detta dello stesso Fossati. Da segnalare gli splendidi passaggi di basso fretless di Pier Michelatti.

La chiusura è per Smisurata Preghiera, sorta di epitome del disco ma anche della carriera di De André. Una preghiera laica per gli ultimi, per gli emarginati tanto cari al bardo genovese. Tre minuti tra jazz sincopato e invettiva quasi recitata, una summa e assieme momento più alto di Anime Salve; con in più, l’incredibile intuizione dell’immortale verso “per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione”.

Un verso, va detto, utilizzato, abusato, masticato e risputato a uso e consumo di qualsiasi concetto, spesso a totale onta del pensiero del suo autore.

Si chiude così Anime Salve, capolavoro senza tempo in un decennio – gli anni Novanta – parco di grandi dischi. E si chiude, con grande rimpianto e dolore, la discografia di Fabrizio De André. Il grande cantautore morirà l’undici gennaio del 1999, e a nulla vale chiedersi quanti grandi capolavori ci avrebbe ancora potuto lasciare.

Soprattutto oggi, in un’epoca in cui il contributo di una mente geniale e libera come la sua manca tantissimo.

— Onda Musicale

Tags: Fabrizio De Andrè
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