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Judas Priest: “Sad wings of destiny” e la nascita dell’heavy metal

Judas Priest, la copertina dell'album

Nella storia del rock a molti gruppi è stata attribuita la paternità dell’heavy metal. Come sempre, è impossibile citare una data e un titolo univoci, ma Sad wings of destiny dei Judas Priest è di sicuro una pietra angolare del genere.

I Judas Priest nascono del 1969 dall’unione del chitarrista K. K. Downing col bassista Ian Hill, a cui si uniscono il batterista John Ellis e il cantante Al Atkins. È proprio il vocalist a ideare il nome, traendo ispirazione da un pezzo di Bob Dylan, The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest. Davvero curioso che la band che più di ogni altra darà la stura alla New Wave Of British Metal, NWOBM per gli amici, prenda il nome dal repertorio del menestrello di Duluth.

I primi anni sono spesi alla ricerca di una vera identità e in diversi cambi di formazione; la band fa da spalla a complessi hard rock affermati, come Thin Lizzy e UFO, rimanendone inevitabilmente influenzata. La fama dal vivo è solida, specie con l’ingresso in formazione di Rob Haltford, cantante dalla grande presenza scenica e dall’incredibile estensione vocale. Rob ha già militato con band minori come Hiroshima, Lord Lucifer ed Abraxas.

Rocka Rolla è il titolo del primo lavoro dei Judas Priest, che esce nel 1974. Nel mondo del rock impazzano l’hard e il progressive e l’album si abbevera a piene mani a queste fonti. Il risultato non convince nessuno, ma i ragazzi di Birmingham hanno le idee piuttosto chiare sui lidi da far prendere al loro suono. E sono lidi dove sono di casa una pesantezza del suono e una velocità di esecuzione ancora sconosciuti.

Black Sabbath, Deep Purple, Led Zeppelin, perfino gli Steppenwolf (incauti autori del verso heavy metal thunder): tanti sono indicati come inventori del metal. La verità è che ognuno di loro, insieme a tanti altri, ha portato delle novità nel mondo del rock, spesso riprese da legioni di discepoli metallari. Ma è proprio con Sad wings of destiny, il secondo album targato Judas Priest, che esce nel 1976, che abbiamo il primo disco metal a tutto tondo.

La poetica e il suono del genere, ma anche l’iconografia: tutto è presente nel secondo lavoro della band di Birmingham. A partire dalla copertina, che propone fin dal font scelto per il nome del gruppo, ma soprattutto per l’immagine, tutta la futura iconografia del metal è in bella vista. Lo stesso dicasi per le tematiche dei testi e per il suono, forte della doppia chitarra elettrica e dell’ugola di Rob Haltford.

Il disco viene registrato tra novembre e dicembre del 1975 ai Rockfield Studios, in Galles, unendo materiale inedito a canzoni già proposte dal vivo. L’uscita avviene invece il 23 marzo del 1976; nove tracce che, per un fortuito errore nell’edizione americana, subiranno vari rimescolamenti nell’ordine e che tracciano il futuro di un genere allora all’alba.

Mettiamo allora Sad wings sul piatto e vediamo come gira quarantasei anni dopo.
L’apertura è per Victim of Changes, brano lungo e molto amato dai fan dei Judas Priest; un intreccio di chitarre dal sapore quasi ZZ Top introduce un riff lento e pesante, sicuramente debitore al suono di Tony Iommi dei Black Sabbath. Il testo è frutto dell’unione di due canzoni, Whisky Woman di Al Atkins, il primo vocalist, e Red Light Woman di Haltford.

Ed è proprio Rob a dare un primo saggio delle sue peculiari qualità, con passaggi da hard rock classico e belluine urla in falsetto. Le parti di chitarra sono equamente distribuite tra l’anima più grezza e quasi blues di K.K. Downing e quella più schiettamente proto-metal di Glen Tipton. Il primo solo è a opera di K.K. ed è un inno alla chitarra grezza e distorta, ma sostanzialmente tradizionale nelle scale che affronta. Una parte più introspettiva e psichedelica, che ricorda un po’ certi passaggi dei Led Zeppelin più maturi, è appannaggio di Haltford, con una prestazione quasi da crooner, e divide dall’altro assolo.

Tocca stavolta a Tipton, con un breve e incisivo solo di stampo prettamente metallaro. Il pezzo si chiude in gloria con le urla dissennate di Rob Haltford.

Nemmeno il tempo di sfumare e arriva The Ripper, leggendario pezzo dedicato all’ancor più iconico Jack lo Squartatore. Meno di tre minuti per snocciolare tutti i futuri cliché del metal in una canzone che è un piccolo gioiello. Non manca nulla: la tematica horror, la prestazione esasperata di Haltford e i suoni di una chitarra che più nulla ha a che spartire con le origini blues del rock.

Il solo di Tipton è breve ed efficace, le parti ritmiche suonate sulle corde basse anticipano decenni di metal. I cloni saranno – come spesso accade – talmente tanti e non sempre di qualità da finire quasi per svilire l’originale. Dobbiamo così fare uno sforzo, quello di contestualizzare The Ripper all’epoca, quando un pezzo così non si era mai – o quasi – sentito. Non solo, la canzone era stata incautamente scartata da Rocka Rolla, di due anni prima.

La successiva Dreamer Deceiver è uno dei primi esempi di ballata heavy metal. Anche in questo caso si tratta di una composizione di Al Atkins, il primo cantante, che non la incise mai con i Judas Priest, ma solo in seguito come solista. Si parte con un arpeggio acustico, con Haltford che canta con voce grave; la sua prestazione è emblematica e sfrutta tutta la poderosa estensione vocale, tanto che sembra quasi che ci siano due cantanti.

A poco più di metà del brano arriva un assolo da brividi di Tipton, una delle cose più belle dell’intero lavoro. Il pezzo si chiude anche stavolta con le urla in falsetto di Haltford, marchio di fabbrico dei Judas Priest.

La seconda parte del pezzo, Deceveir, è invece ancora una sostenuta cavalcata di stampo prettamente metal. Una serie di riff che richiamano ancora i Black Sabbath, gli acuti impossibili di Hartford, il solo di chitarra, ma soprattutto la sezione ritmica. Qui, infatti, Ian Hill al basso e Alan Moore alla batteria ci danno dentro con furore, mostrando una tecnica non indifferente.

Si gira il lato e arriva Prelude, brano che – come fa capire il titolo – avremmo dovuto trovare in apertura. L’errore nell’edizione Usa ha causato la curiosa inversione. Sono un paio di minuti strumentali che avrebbero dovuto introdurre il disco e che, posti nel mezzo, perdono un po’ di senso.

Si passa a Tyrant, altro cavallo di battaglia dei Judas Priest e brano pienamente calato nell’heavy metal più classico, che però all’epoca non esisteva. Il ritmo è velocissimo, così come le parti di chitarra, le atmosfere dure e cupe ma non scevre da passaggi melodici. Insomma, Tyrant è forse il brano che più di tutti dà la misura di quanto i Judas Priest fossero pionieri della NWOBM.

Genocide procede su ritmi sostenuti, anche se qui i riff e il generale andamento è più canonicamente hard rock, con passaggi molto vicini ai Deep Purple. Il testo, in modo anche abbastanza crudo, evoca la guerra, il genocidio e l’annientamento dell’umanità, con forti intenzioni pacifiste, come costume dell’epoca.

La successiva Epitaph è invece un curioso intermezzo ai limiti del pop; una lenta ballata che Hartford canta con stile piuttosto classico dall’andamento quasi melodico. I cori di stampo operistico rimandano inevitabilmente ai Queen, band a cui i Judas Priest finiscono per rubare qualche idea qua e là. Alcuni ritengono questo brano una piccola gemma, per altri, incluso chi scrive, il brano risulta fin troppo avulso dal contesto.

Island of Domination, il brano che chiude la raccolta, parla ancora di guerra e cupa violenza; lo fa con un linguaggio molto simile a quello dei Black Sabbath, soprattutto nel trascinante riff che puntella il tutto. A partire dalla voce più roca e tirata del solito di Hartford, le atmosfere sono quasi blueseggianti, come conferma l’intermezzo più lento posto al centro. Nonostante i ficcanti e continui fill di chitarra, manca un vero e proprio assolo.

Sad wings of destiny si chiude così, dopo quaranta minuti scarsi di furore e tecnica proto-metal. All’epoca il disco viene apprezzato dalla critica ma, in sostanza, fa parlare poco di sé. E invece, negli anni, il secondo album dei Judas Priest raccoglie attorno a sé un vero e proprio culto, quello di una religione che si appresta a nascere e a fare proseliti.
La religione del metallo pesante.

— Onda Musicale

Tags: Bob Dylan, Thin Lizzy, Deep Purple, Black Sabbath
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