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Blood on the tracks, il capolavoro anni ’70 di Bob Dylan

La copertina di Blood on the tracks

Blood on the tracks esce nel gennaio del 1975, dopo una gestazione piuttosto misteriosa. Il disco vede il ritorno di Bob Dylan ai fasti di Blond on Blonde, disco di quasi dieci anni prima.

Gli anni Sessanta videro in Bob Dylan il personaggio più importante nel campo musicale e artistico americano. Allargando il campo a tutta la società, forse la sua importanza fu seconda solo a quella del presidente Kennedy. Dylan esordì timidamente a New York come uno dei tanti cantautori folk, con la chitarra acustica e l’armonica a bocca.

Bob, tuttavia, riuscì a emergere grazie a un incredibile talento nella scrittura, tanto da vedersi dopo tanti anni assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, riconoscimento unico per un musicista. Subito, però, Bob Dylan si mette in luce come genio tormentato e controcorrente. Diventato idolo assoluto, al limite del fanatismo, per gli appassionati del folk impegnato, compie il primo di una serie di cambiamenti repentini.

Tanto repentini, che molti li prendono per voltafaccia. Al Festival Folk di Newport, nel 1965, Bob si presenta con una band elettrica, suscitando l’ira dei puristi. Non sono però solo fischi, come una leggenda dura a morire narra, Dylan riscuote consensi anche nella nuova veste di rocker. Una veste che si è cucito addosso dopo essersi appassionato alla rivoluzione che arriva dal Regno Unito.

Complessi come Beatles e Rolling Stones stanno rivitalizzando il rock’n’roll, già al tramonta nemmeno dieci anni dopo l’esplosione di Elvis. Altre band, capitanate da John Mayall e Alexis Korner, hanno messo mano con successo ai rigidi canoni del blues. Dylan ascolta, fa suoi i cambiamenti e mette insieme una band coi fiocchi, da Al Kooper a Michael Bloomfield, rivoluzionando definitivamente la percezione del rock.

Ne escono tre grandi capolavori: Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde. Un tris irripetibile che dimostra a tutto il mondo come il rock possa veicolare contenuti degni della miglior letteratura. Al culmine del successo, però, a Bob Dylan succede sempre qualcosa, che si tratti di una conversione religiosa o di un rovesciamento di stile.

Quella volta, invece, succede l’imprevedibile: un incidente, anche questo misterioso, con la moto, una Triumph Tiger T100. Sulla dinamica e sull’entità dei danni fisici non si è mai saputo nulla di certo, fatto sta che Dylan fa perdere le sue tracce per molto tempo. Alcuni pensano che sia morto, altri che stia semplicemente cercando di prendere fiato da pressioni che si sono fatte insopportabili.

Qualcosa, però, si è incrinato. Quando Bob Dylan torna a fare musica, non pare più lo stesso; se il cantautore pesca quasi a caso incredibili gemme come All along the watchtower e Knockin’ on heavens door, sulla misura dell’album finisce sempre per deludere. Fino al 1975, appunto, quando esce Blood on the tracks.

Nel 1974 Dylan torna a respirare l’aria di New York, e lo fa per dare seguito a una delle sue passioni, l’arte. Il cantautore frequenta le lezioni di Norman Raeben, stravagante pittore con un modo tutto suo di insegnare.

“Non ti insegnava tanto a dipingere o a disegnare, ti insegnava però a mettere insieme la tua testa, la tua mente e i tuoi occhi, per farti cogliere e riprodurre in modo visivo qualcosa di concreto… Guardava nel tuo animo e ti diceva ciò che eri.”

His Bobness

Bob non impara forse a essere un bravo pittore, ma coglie nelle parole di Raeben la lezione per evolvere come autore. Tuttavia, il cambiamento chiede sempre un prezzo, e nel caso di Dylan è l’acuirsi della crisi con la moglie Sara Lownds. Lo stesso Dylan racconta che la donna faticava sempre più a comprendere cosa lui volesse e il suo modo di esprimersi. Blood on the tracks è il disco più intimista e personale di Dylan, e quasi tutti vi hanno sempre visto il travaglio interiore dell’artista davanti allo sfaldarsi del matrimonio.

Tutti, come sempre, tranne Bob Dylan. L’artista di Duluth, infatti, ha sempre negato che l’album sia incentrato sulle sue vicende personali, ma di aver preso spunto dalla lettura dei racconti di Anton Cechov. Dylan è però d’accordo sui temi dolorosi del disco, tanto da chiedersi, di fronte al grande successo: “Un sacco di persone mi dicono che amano quell’album. È difficile per me capirne il perché. Voglio dire, alle persone piace quel tipo di dolore?”

Come detto, la gestazione del lavoro è lunga e misteriosa. Bob scrive molte delle canzoni nell’estate del 1974 e le registra a New York, sotto la produzione di Phil Ramone. Tutti paiono soddisfatti del risultato, capendo subito che di materiale così buono non se ne vedeva dal 1966. La produzione è scarna ed essenziale, un po’ come il Dylan degli inizi, i testi sono dolorosi e spietati.

Le registrazioni vanno avanti tra vari ripensamenti fino al 19 settembre del 1974. Dylan pare indeciso; prima vuole una band elettrica, poi inizia a incidere solo voce e chitarra. Convoca il banjoista Eric Weissberg e il suo quintetto Deliverance. Insomma, la solita confusione dylaniana, quella che fa da preambolo all’ennesimo capolavoro. Ma non questa volta.

Si selezionano dieci canzoni, un disco prototipo viene inviato ad alcune radio e la Columbia prepara mezzo milione di copertine per il vinile. L’uscita è prevista per dicembre, periodo in cui Dylan torna a Minneapolis per le feste natalizie. Bob non è convinto, fa ascoltare il disco al fratello David, a sua volta produttore.

Come vadano le cose esattamente, lo sa solo Dylan, che tutti sappiamo non essere il testimone più attendibile per le cose che lo riguardano. Fatto sta che l’operazione Blood on the tracks viene stoppata: Bob vuole registrare di nuovo tutto, stavolta con una band locale di turnisti, un po’ lusingati, un po’ terrorizzati. Prenotati per due giorni i Sound 80, studi della città, Bob si rimette al lavoro.

Ne esce fuori con una diversa tracklist e suoni – manco a dirlo – rivoluzionati. È la volta buona, Blood on the tracks nella versione che tutti conosciamo. L’altra, quella più asciutta e acustica, è stillata fuori negli anni, tra bootleg e versioni ufficiali.

Il disco si apre con Tangled up in blue, ballata semplice che sfoggia un arrangiamento soffusamente acustico e un testo meravigliosamente complesso, che procede per immagini cinematografiche. Il brano è un gioiello, Rolling Stone lo mette al 68° posto tra le più belle canzoni di tutti i tempi. Il testo, come sempre a tratti criptico, narra di un amore ormai agli sgoccioli, e lo fa utilizzando nuove tecniche.

“Quello che c’è di diverso è la presenza di un codice tra le parole del testo, ed inoltre non c’è un senso del tempo. Non c’è rispetto per esso. Hai ieri, l’oggi e il domani tutti insieme nella stessa stanza, e c’è veramente poco da immaginare che non stia succedendo.” Così descrive il testo lo stesso Dylan.

Neil McCormick la definisce: “Un’epopea davvero straordinaria del personale, una narrazione inaffidabile scavata fuori da ricordi passati come un musical su Proust della durata di cinque minuti e mezzo.”

Si prosegue con Simple twist of fate, altra gemma preziosa del disco. La voce di Dylan, quella sua incredibile voce, come la definì Joan Baez, è qui quanto mai in primo piano e intonata. Il testo narra la disillusione verso l’amore e quel “semplice scherzo del destino”. Il brano è di nuovo principalmente acustico, con accordi discendenti e una tradizionale parte di armonica.

You’re a big girl now è un’altra struggente ballata lenta, dal sapore quasi messicano. L’atmosfera è dolente e malinconica, perfettamente intonata al mood generale, quello di un concept album sulla fine di un amore. O forse di tutti gli amori.

Idiot Wind è uno dei pezzi che escono trasformati rispetto alle registrazioni di New York. Il lunghissimo j’accuse versa l’amata, ma anche verso se stesso, passa da tour de force completamente acustico a energico pezzo elettrico, coi ricami d’organo intessuti dallo stesso Dylan.

Il brano dura quasi otto minuti, tempo in cui Bob Dylan sputa fuori tutto il suo veleno, un attacco frontale degno di Like a rolling stone, ma più amaro. La conclusione vede il cantautore accusare anche se stesso delle nefandezze attribuite per tutto il pezzo all’ipotetica amata. Parole così dure raramente si sentono in una canzone di musica leggera.

Idiot wind, blowing every time you move your teeth,
You’re an idiot, babe
It’s a wonder that you still know how to breathe

Si passa a You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go, con la stridente armonica accompagnata dalla chitarra e da un basso rotolante. La voce di Bob Dylan è il solito, impagabile ronzio nasale, per un risultato che riporta agli inizi da menestrello. Il tema è sempre quello dolente dell’abbandono.

La seconda facciata si apre con un tributo al blues più tradizionale. Dylan è sempre stato abituato a inserire un vero e proprio brano blues in quasi tutti i suoi album, anche se il genere permea quasi tutti i suoi pezzi. Meet me in the morning è puro, rilassato blues, pilotato da un insinuante riff di chitarra acustica, doppiato dal basso.

La chitarra elettrica traccia un bordone e si inserisce in qualche fill senza andare oltre, mentre la voce di Dylan si trasforma in quella credibilissima di un bluesman. Nella versione newyorkese del disco c’era già un pezzo simile, Call letter blues, ispirato da Robert Johnson.

Lily, Rosemary and the Jack of Hearts è un’altra canzone fortemente rimaneggiata rispetto all’iniziale versione. La storia è paragonabile a un vero e proprio film, una storia piena di colpi di scena e azione. Musicalmente siamo dalle parti del country, altro genere che Bob Dylan frequenta con assiduità.

Si passa a If You See Her, Say Hello, altra amara descrizione di un amore già finito. Il protagonista soffre per la perdita, ma pare vivere la situazione con distacco. Una curiosità, la canzone è tra quelle coverizzate da Francesco De Gregori nel suo tributo a Dylan, col titolo di Non dirle che non è così.

Ben più disperato è il protagonista del pezzo successivo, un altro classico di Dylan, Shelter from the storm. Un testo in cui l’amore della propria metà – ormai finito – viene vissuto come un vero e proprio rifugio dalle tempeste dell’esistenza. Di nuovo siamo dalle parti del Dylan più classico.

Il finale spetta a Buckets of Rain, delicata ballata dai toni blues e intarsiata dalla chitarra acustica. Una chiusura che fa quasi da decompressione, dopo una serie di brani di grande pathos.

Blood on the tracks non mette subito d’accordo la critica; qualcuno, particolarmente miope, vede nel disco una scusa per riciclare scarti musicali: sarà il tempo a mettere due belle lenti sul naso di qualche critico poco lungimirante. Il pubblico reagisce invece più saggiamente, e il disco vende bene.

Certo, con Bob Dylan non si può mai essere sicuri, ma il cantautore non pare amare particolarmente il disco, o comunque passa subito avanti nella sua vorticosa produzione. Tuttavia, specie negli anni, la fama di Blood on the tracks cresce sempre più, tanto che oggi il disco è considerato al livello dei classici degli anni Sessanta. Per qualcuno è addirittura superiore.

La struttura circolare di Tangled up in blue, che destruttura volutamente qualsiasi linea temporale, la narrazione cinematografica di Lily, Rosemary and the Jack of Hearts, ma anche il blues di Meet in the morning e gli episodi minori, tutto fa del disco un vero capolavoro. Il Dylan incendiario, quello che sforna giochi di parole e flussi di coscienza, forse non c’è più.

Tuttavia, per una volta senza esagerare, si può ben parlare di Blood on the tracks come del capolavoro della maturità. Un capolavoro che, in quasi cinquant’anni, non pare invecchiato di un solo giorno.

— Onda Musicale

Tags: The Rolling Stones, The Beatles, Bob Dylan, John Mayall
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