Sei dischi, più di due ore di musica, e un viaggio intorno al mondo di generi e racconti. È Sandinista!, la follia multigenere dei Clash, che conduce il punk in un tour mai visto prima.
Un forte legame alla Terra d’Albione
La prima cosa che bisogna sapere sui Clash è che loro sono da sempre, per natura, legati al territorio e alla cronaca dell’Inghilterra. London Calling è il nome del loro album più famoso, e persino l’unica canzone apprezzata dal pubblico nel loro infelice ultimo album, Cut The Crap, è intitolata This Is England. Un titolo internazionale come Sandinista! – un richiamo all’omonimo partito politico che militava in quel periodo in Nicaragua – apre le porte a una svolta netta per la band, che decide di servirsi della musica per una storia globale.
Cos’è il Sandinismo?
Il sandinismo deve il suo nome a César Augusto Sandino, che tra la fine degli anni venti e l’inizio dei trenta si era distinto come eroe nella sua nata Nicaragua, nell’eterna battaglia di resistenza contro l’occupazione militare statunitense. Il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) rievoca a sua volta il nome dell’eroico liberatore nel 1979, quando il tirannico presidente Anastasio Somoza Debayle viene deposto dopo una dittatura quasi cinquantennale. Anche per un gruppo politicamente impegnato (e sboccato) come i Clash, quella di servirsi di un nome così importante non è una decisione leggera. Come leggero non è Sandinista!, che nelle sue trentasei tracce – allargate in tre LP – lascia pieno campo libero a una visione del punk che esce dai suoi confini autoimposti. Ed è qui che brilla Mick Jones: le cui influenze eclettiche, con buona pace del fondamentalista Joe Strummer, la fanno da padrone.
La scelta di introdurre elementi non-punk nella musica punk, e riprenderli da generi come jazz, lounge music e persino reggae allontana, sulle prime, i fan di vecchia data
È infatti il potere dell’a posteriori a salvare Sandinista! agli occhi del pubblico: un pubblico punk evoluto, che allarga la sua prospettiva di cosa il punk può essere. Può contenere tamburi d’acciaio, archi – indimenticabile la doppia performance di Tymon Dogg, che in Lose This Skin fa sia da violinista che da vocalist – e persino i belati di una capra, che chiudono l’album in Shepherd’s Delight.
Ma l’istinto ribelle c’è ancora
Ha solo una nuova pelle, ma non perde il suo cinismo e i suoi occhi aperti al male del mondo. Non quando la seconda traccia del primissimo disco è Hitsville U.K., che con il suo coro femminile e l’uso dello xilofono sembra più una canzone natalizia che un pezzo dei Clash. Finché non si leggono bene i testi e non ci si accorge che la traccia in questione parla della svendita dell’identità nel mondo della musica. E si capisce che il punk, quando picchia, non lo deve fare con un secco colpo di mazza: a volte uno stiletto nascosto fa altrettanto male.
Non viene voglia di pogare, in buona parte di Sandinista!
Tracce come How Long risultano più contemplative, un tipo di denuncia più consapevole. Il desiderio di urlare al mondo la propria ribellione c’è ancora, ma è accompagnato da una più grande consapevolezza di come funziona il mondo. Nonché del loro ruolo, come cantano loro stessi. “In questi giorni il beat è militante/deve essere un clash, non c’è alternativa”.
Sandinista! diventa allora, per i Clash, una nuova dichiarazione di intenti e di fedeltà a sé stessi
Si parte chiedendosi cosa può essere il punk alla fine degli anni ottanta, quanto lontano può andare la sua gamma sonora e di cosa può occuparsi, se di problemi personali o universali. E risponde aprendosi a ogni possibilità, offrendo assaggi di punk a tutti quelli che ne hanno fame. E così il Sandinista del titolo è un costrutto ipotetico sui Clash, che li ipotizza in un altro contesto e un’altra battaglia – come a dire “se fossimo stati là avremmo cantato di quel problema”.
E che c’è un po’ di Clash in chiunque voglia ribellarsi contro un sistema che lo opprime: una volta che te ne accorgi, perché non approfittarne per fare musica migliore?