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Le dieci hit degli anni ottanta che non ci mancano affatto

Gli anni ottanta: l’era del grande rock, del new wave e del primo rap. Il decennio ricordato con più affetto dai nostalgici anziani (dentro e fuori), e non senza motivo.

È proprio agli anni ottanta che si possono ascrivere alcune delle tracce più belle di tutti i tempi, e alcuni degli artisti più apprezzati – ma siamo sicuri che fosse sempre andata così? 

Può il rock essere spento ai tempi di David Bowie, o il pop essere dimenticabile in contemporanea con Michael Jackson? Certamente sì. Ecco dieci tracce degli anni ottanta che non sono esattamente al livello dei grandi classici, e di cui nessun nostalgico sentirebbe la mancanza 

Let My Love Open The Door – Pete Townshend (1980)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 9

Posizione sulla Billboard Year-End List: 59]

Pete Townshend: chitarrista degli Who e pioniere della musica. Verrebbe da pensare che negli anni ottanta fosse pronto a spianare la strada per le nuove tecnologie, come aveva fatto ai vecchi tempi, mostrando nel mentre ai nuovi arrivati come si fa. Nel 1980 pubblica invece l’album Empty Glass, aperto dal singolo Let My Love Open The Door, la cui unica eredità nella pop culture è apparire in vari film e serie Tv a contenuto leggero – e a ragione. 

Combinare gli Who con il new wave non era, a priori, una brutta idea. Let My Love Open The Door non ha però nulla dell’energia e della sperimentazione degli Who – men che meno della loro profondità sociale. È una traccia stucchevole a sentirsi e assillante da leggersi, in cui il tentativo di Townshend di risultare romantico risulta assillante e possessivo. “L’amore può curare i tuoi problemi/Sei così fortunata che io sia qui”. Let My Love Open The Door suona come chi non sopporta il pop anni ottanta immagina ogni canzone pop anni ottanta, e non merita di stare ai livelli dei classici degli Who. 

For Your Eyes Only – Sheena Easton (1981)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 5

Posizione sulla Billboard Year-End List: 92]

Ci sono dive e dive, negli anni ottanta. Ci sono le Pat Benatar, Debbie Harry e Janet Jackson, che riescono a farsi rispettare e amare per decenni. E ci sono le Sheena Easton, che per vari anni girano su e giù per la classifica senza lasciarsi alle spalle un’eredità di lunga data. Sheena Easton è forse l’esempio più notevole, ottenendo numerose piccole hit senza mai diventare davvero un’influenza per il futuro. Nel 1981 ottiene l’onore di cantare il tema di Solo Per I Tuoi Occhi, dodicesimo film di James Bond, e questo è il risultato. 

Se siete particolarmente nostalgici per quel tipo di sound, forse For Your Eyes Only può risultare più divertente. È un tipo di pop-new wave abbastanza primitivo che cerca di infondere all’elettronica un lato romantico. Ma in assenza di esperienza con le forze e le debolezze di tale mezzo, For Your Eyes Only risulta solo faticosa da ascoltare. È lenta, stagnante, con un tempo che si trascina a fatica. Coroniamo il tutto con la voce stridula di Easton, che gestisce la melodia con pochissimo controllo, e ci troviamo davanti un prodotto di altri tempi che non a caso è oggi sparito dalla memoria collettiva. Tranne forse qualche fan di James Bond. 

Hooked On Classics – The Royal Philarmonica (1982)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 10

Posizione sulla Billboard Year-End List: 56]

Hooked on Classics è un album del 1981 in cui i produttori Jeff Jarratt e Don Reedman combinano la musica classica con il synthpop. Un’idea semplice, diffusa ancora oggi con mezzi casalinghi e non priva di risultati – ma decisamente non destinata alla classifica pop. Eppure, nel 1982, è successo. Sempre con il titolo Hooked on Classics è stato infatti distribuito il singolo d’apertura dell’album. Esso include campionamenti da compositori come Mozart, Tchaikovsky, Handel, Grieg e Bizet,  accelerati e accompagnati da una base house. 

L’idea, come detto sopra, non è cattiva a priori e può essere coinvolgente nel primo minuti. Per cinque, senza mai variazioni sul tema – l’accompagnamento elettronico rimane uguale tutto il tempo – risulta tedioso e poco adatto alla classifica delle hit. Internet mette oggi a disposizione numerose combinazioni tra brani classici ed elettronica, che mettono in mostra molta più creatività e passione di Hooked on Classics. E nonostante tutto non è questa la canzone più strana ad apparire in classifica nel 1982: il titolo va infatti a… 

Pac-Man Fever (Eat-Em Up) – Buckner & Garcia (1982)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 9

Posizione sulla Billboard Year-End List: 42]

Esatto. L’anno di Eye Of The Tiger, I Love Rock’n’Roll e Tainted Love, una coppia di produttori decidono di realizzare un album dedicato ai videogiochi. Titoli come Super Mario, Frogger e Donkey Kong vengono omaggiati in novelty songs che non hanno spazio nella classifica. L’unica eccezione è proprio Pac-Man, il cui piccolo tributo riesce a diventare una hit minore. Un frammento di Nerd Culture ormai dimenticato, Pac-Man fever vorrebbe essere un tributo alla passione per i vecchi arcade e i videogiochi. Risulta però, più di tutto, una celebrazione della videodipendenza – oltre che una marchetta poco velata e di scarso valore fuori tra i fan sfegatati. 

Il narratore della canzone è un giocatore affetto da “febbre da Pac-Man”, che descrive nel dettaglio la sua accanita partita, mossa per mossa. Solo quando esaurisce tutto il suo denaro nella macchinetta, il nostro “eroe” decide di ritirarsi… solo per fare ritorno la mattina dopo. Anziché essere coinvolti dal gioco e affascinati da Pac-man si finisce a compatire il narratore, precipitato ormai in una spirale ludico-commerciale dalla quale non c’è uscita. “Non ho molto denaro/ma mi porto tutto quello che ho guadagnato”. Non prendete esempio, bambini. 

Ebony & Ivory – Paul McCartney & Stevie Wonder (1983)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 1

Posizione sulla Billboard Year-End List: 4]

Ma ovviamente, se vogliamo parlare di pop brutto degli anni ottanta non si può non citare questa stucchevole traccia easy listening, in cui l’eleganza di Sir Paul e il carisma intramontabile di Stevie si spengono dinnanzi a un tentativo di volemosebbè che non risultava convincente all’epoca, men che meno oggi. I tasti bianchi e neri, l’ebano e l’avorio della canzone, sono un’ovvia metafora per i rapporti tra i bianchi e i neri in America. Se loro vanno d’accordo nella tastiera, si chiedono gli artisti, come mai noi persone non ci riusciamo?

La metafora riduce così una storia secolare fondata sull’oppressione e il traffico umano a una generica incapacità di andare d’accordo e vivere in armonia. “Sono convinto che potreste mettere questa canzone in un quartiere nero come in uno bianco e finire pestati in entrambi i casi”, dice Sean Fay Wolfe nella sua retrospettiva dei cento maggiori successi di sempre. Qualcuno vuole provare? 

Mr. Roboto – Styx (1983)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 3

Posizione sulla Billboard Year-End List: 28]

Dennis DeYoung aveva un sogno: pubblicare un concept album basato su un epico fantasy a tema rock. Il resto della band non era minimamente convinto, né il pubblico medio degli Styx. Mr. Roboto è la traccia d’apertura di Kilroy Was Here, in cui il protagonista Robert Kilroy fugge da un carcere futuristico verso la ribellione. Un lavoro troppo astruso per l’ascoltatore casuale, e troppo sempliciotto per i fan della fantascienza, pieno di frecciatine contro la tecnologia poco marcate e senza un punto preciso. Reso ancora più irritante dalla voce stridula di Dennis De Young e da un approccio al synthpop poco competente, che non crea l’atmosfera intensa di una grande epopea spaziale. 

Ho fatto scena muta”, dichiara il chitarrista Tommy Shah sul processo creativo di Kilroy. “Canzoni sui robot non mi venivano in mente”. E come ciliegina sulla torta, i Robot – gli androidi della canzone e del mondo di Kilroy Was Here – sono raccapriccianti caricature dei giapponesi già fuori luogo negli anni ottanta. Con tutto il buon synthpop venuto dopo e in giro ancora oggi, Mr. Roboto è un esperimento fallace che non manca a nessuno. 

Joanna – Kool & The Gang (1984)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 2

Posizione sulla Billboard Year-End List: 24]

Chi non ama i Kool & The Gang? Jungle Boogie, Get Down On It e Celebration sono solo alcune delle indimenticabili tracce dance e funk con cui il gruppo del compianto Ronald Bell ha arricchito le feste da ballo di un’intera generazione. La loro energia incontenibile, l’immediato carisma dei frontmen e il senso dell’umorismo sono le qualità che hanno reso la band una pietra miliare della scena R&B anni ottanta… e che non sono presenti in Joanna, traccia del 1984 che li porta nella classifica Adult Contemporary. Dove i Kool & The Gang non dovrebbero stare. 

Joanna nasce come traccia in tributo alla figura della madre, ma è stata riarrangiata malamente per la classifica e si sente. Noia è la parola d’ordine della lenta, appiccicosa esperienza d’ascolto: concetto che un tempo i Kool & the Gang ripudiavano senza riprova. Nessuna dichiarazione d’amore per la ragazza titolare è minimamente interessante, o anche solo lontana dal cliché, e nemmeno la validità della base nu-disco riesce a creare interesse in una relazione così incolore. Alla fine, Joanna altro non risulta essere nient’altro che una versione retro e più lenta di Cheerleader di OMI. Interessa a qualcuno? 

Jan Hammer – Crockett’s Theme (1984)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 1

Posizione sulla Billboard Year-End List: 27]

Nel 1985 il tema strumentale di Miami Vice è entrato in classifica e ha raggiunto la ventisettesima posizione nella classifica di fine anno. Serve dire altro? 

We Are The World – Artists for Africa (1985)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 1

Posizione sulla Billboard Year-End List: 20]

La canzone che ha fatto piangere le casalinghe di tutto il mondo, e (giustamente) irritare un intero continente. We Are The World, similmente all’inglese Do They Know It’s Christmas, rappresenta il fanalino di testa del sottogenere delle canzoni di beneficenza. Una cavalcata di celebrità che include Michael e Janet Jackson, Bruce Springsteen, Barbra Streisand, Stevie Wonder e Cyndi Lauper si riuniscono in una grande collaborazione volta a raccogliere soldi per sostenere l’Etiopia, affetta da una grave carestia. L’Etiopia, esatto: non l’Africa intera come si vantano di fare. 

Oggi il genere della “canzone di beneficenza” è visto come una barzelletta e per motivi ben chiari. Condiscendente, stucchevole ed egoriferita, We Are The World banalizza una questione delicata e perpetua un mito dannoso, quello del Primo Mondo salvatore dei poveri con la benevolenza disinteressata. Le vere motivazioni di quella situazione, a cominciare dal colonialismo e interventismo americano, non vengono nemmeno considerate. Un’intera tragedia viene ridotta a una situazione sfortunata in cui basta solo una mano tesa (dall’Occidente) per salvare un intero paese. 

Love Touch – Rod Stewart (1986)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 5

Posizione sulla Billboard Year-End List: 92]

Chi critica il genere adult contemporary ha solitamente due nomi sulla lingua: Michael Bolton e Bryan Adams. Forse bisognerebbe invece riportare l’attenzione su Rod Stewart, che non ha mai nemmeno cercato di nascondersi dietro ai sentimentalismi nella sua musica. Love Touch, che (forse) ai tempi ha fatto sospirare qualche giovinetta, è alla peggio datata e alla meglio fastidiosa. È costruita su un’atteggiamento appiccicoso e invadente in cui il narratore assilla la donna amata nella speranza di farla capitolare. “Queste braccia si fanno più forti/ogni giorno, credimi, piccola/non ti faranno scappare”. 

Si potrebbe (forse) scusare un atteggiamento del genere con l’idea di una fantasia sexy – giustificazione usata da alcuni per Blurred Lines di Robin Thicke – se non fosse per la voce di Stewart, incolore e priva di ogni fascino teatrale e sensuale. C’è a chi piacciono i ragazzi trasgressivi, ma è difficile immaginare Stewart come tale. Quello che rimane è dunque la canzone così come è costruita, nel suo asfissiante testo dal quale non si può trarre alcuna gioia o passione. Più che un affascinante predatore della notte, o addirittura un molestatore di fatto, lo Stewart di Love Touch ricorda un bambino dispettoso. Lui stesso avrebbe ripudiato la traccia successivamente, definendola “una delle canzoni più stupide che abbia mai fatto.”

Sara – Starship (1986)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 1

Posizione sulla Billboard Year-End List: 24]

We Built This City non è così brutta. Il tentativo di synthpop degli Starship è fallace, ma onesto, e il messaggio (fallito) contro la cultura dell’iperlavoro e del capitalismo non può non strappare un sorriso. No: il peggio degli Starship si può trovare in un’altra traccia pubblicata dallo stesso album, Knee-Deep in the Hoopla. Sara è una ballata dedicata a una rottura, nonché quella che più di tutti dimostra l’incapacità di Grace Slick e amici di adattarsi alle nuove mode dopo un’attività ventennale. 

Battezzare una canzone, specie se di rottura, su un nome di persona è sempre una mossa rischiosa se non si riesce a caratterizzare bene la persona suddetta. Per una simile ragione viene criticata anche Carrie degli Europe, ma il livello di ignoranza che si può perdonare a un gruppo hair metal è ben più alto delle aspettative rivolte agli Starship, un gruppo già affermato e rispettabile. Il ritornello debole e la musica mielosa e banale non sono che il colpo di grazia a una traccia priva di ogni appeal. 

The Next Time I Fall – Peter Cetera & Amy Grant (1987)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 1

Posizione sulla Billboard Year-End List: 28]

L’ex cantante degli Chicago e una cantante di genere cristiano: tremate, amanti del rock&roll. The Next Time I Fall incarna, in sé, tutti gli stereotipi del soft rock anni ottanta. Una ballata che vorrebbe essere romantica ma che risulta invece lagnosa, melmosa e più di tutto noiosa. Nessun dettaglio, nessuna emozione, nulla che non sia scontato e già sentito. 

C’è una certa Gigi d’Alessio e Anna Tatangelo energy in The Next Time I Fall. Si può dire quasi un’antenata di Un Nuovo Bacio, inclusa la tematica trattata sul ricominciare ad amare dopo una delusione. Argomento che poteva risultare interessante, ma che l’esagerata compostezza di Cetera e la freddezza di Grant privano di ogni passione e calore. Nulla di nuovo per Peter Cetera, ma c’era, in verità, molto tra cui scegliere per questa lista. 

I Saw Him Standing There – Tiffany (1987)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 7

Posizione sulla Billboard Year-End List: 92]

Se pensavate che Sheena Easton non avesse l’X-Factor non avete sentito Tiffany. Ricordata affettuosamente per una singola canzone, la cover di I Think We’re Alone Now di Tommy James & The Shondells (poi usata anche in un’iconica scena nella serie The Umbrella Academy), Tiffany avrebbe perso di mordente col passare degli anni fino a passare di moda già all’inizio degli anni novanta. Ne è la prova, più di tutto, I Saw Him Standing There.

Nel 1987, il grande new wave stava lentamente decadendo. L’eleganza dei suoi precorritori lascia il posto a una produzione metallica, rigida e ripetitiva, che cerca malamente di combinarsi con influenze rock fuori posto. L’elemento peggiore della traccia è però la voce di Tiffany, che sembra aver perso tutta la grazia e la simpatia di I Think We’re Alone Now. Materiale da karaoke, ad essere generosi: rigida, sgraziata, con affettazioni teatrali che dovrebbero aggiungere spontaneità all’innocente cotta adolescenziale descritta dalla traccia, ma che non si combinano con il senso di artificio della canzone. Il risultato è quantomeno scadente: molto meglio riscoprire l’originale dei Beatles e lasciare Tiffany dove si trova. 

Baby Don’t Forget My Number – MillI Vanilli (1988)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 1

Posizione sulla Billboard Year-End List: 28]

La storia dei Milli Vanilli – il duo tedesco che aveva da sempre usato il playback – è talmente famigerata nell’ambito della musica brutta da soverchiare qualunque discussione relativa alla qualità della loro musica. Ma fidatevi: anche quella era parecchio brutta. Baby Don’t Forget My Number ha dalla sua il vantaggio di essere la hit minore della band, ma è talmente brutta che è di poca consolazione. 

Tra flow gigionesco, performance rigida e rime limitate (“our love is so strong, it can never go wrong”), I difetti al microfono della “band” emergono subito. I Milli Vanilli sfoggiano il tipo di rap che si associa più facilmente a una brutta pubblicità che a una traccia rap realizzata da professionisti. Ancora una volta domina il cliché, ma almeno si ride di gusto dinnanzi ai “ba ba ba” usati per riempire spazio. 

Naughty Girls (Need Love Too) – Samantha Fox (1988)

[Picco sulla Billboard Hot 100: 3

Posizione sulla Billboard Year-End List: 28]

Concludendo la trilogia delle starlet discutibili degli anni ottanta troviamo forse la meno valida delle tre. Se Sheena Easton possiede numerose (e dimenticate) hit e Tiffany rimane viva nella pop culture, Samantha Fox viene oggi ricordata soprattutto come meme, come quell’elemento della musica amata da mamma e papà che mette in imbarazzo i figli. La sua traccia più famosa è Touch Me (I Want Your Body), ma non è lei ad apparire in questa lista. Almeno è autentica, e non un’imitazione scalcagnata di Janet Jackson come Naughty Girls (Need Love To)

La Samantha Fox della vita reale è una personalità sfaccettata e dalla vita personale ricca, icona della comunità queer (nel 2015 ha fatto coming out da lesbica) e con un’immagine da sex symbol di cui è pienamente in controllo. Non è questa però la figura che traspare da Naughty Girls, una traccia ballabile con influenze R&B spenta, vuota e cantata, senza mezzi termini, male. Naughty Girls è flaccida e noiosa, e Elemento peggiore della traccia è la postura da “cattiva ragazza”, non sbagliata in teoria, ma interpretata in maniera poco credibile. Morale della storia: ci vuole più che un beat R&B retro per essere Janet Jackson.

— Onda Musicale

Tags: The Who, The Beatles, David Bowie, Pete Townshend, Michael Jackson
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