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“Ten” dei Pearl Jam, la storia di un capolavoro del grunge

Grunge, ovvero «sporco», «sudicio». È il termine che Bruce Pavitt dell’etichetta discografica Sub Pop usa per promuovere l’album Dry As a Bone dei Green River nel 1987, band in cui militano per la prima volta insieme Jeff Ament e Stone Gossard, chitarrista e bassista dei futuri Pearl Jam.

Grunge, ovvero la contaminazione tra punk, hard rock, metal anni Settanta e moderna new wave, l’ultimo movimento generazionale prima del mainstream, basato sull’etica punk del DIY, do it yourself.
DIY

Il «fai da te» si è reso di nuovo necessario alla fine degli anni Ottanta per riaffermare la libertà creativa e opporsi alla commercializzazione discografica. Le band si impegnavano a contenere i budget dei dischi perché fossero accessibili a chiunque, organizzavano personalmente i tour per non far arricchire i grandi impresari (ricordiamo ad esempio la lotta dei Pearl Jam contro Ticketmaster). Si trattava quindi di autopromozione, per avvantaggiare la libertà di espressione. Tentavano di evitare la produzione di videoclip perché ritenuti strumenti di business utili soltanto a promuovere un’immagine accattivante, mettendo inevitabilmente in secondo piano la musica. Evitavano le radio e le testate ufficiali a favore delle fanzine, stampe contenenti controinformazioni, date di concerti ecc., tutto ciò che interessava alla cultura sotterranea alternativa. Nacquero quindi piccole etichette, le cosiddette «indie», che contrapponendosi alle major mettevano a disposizione budget limitati per band rumorose, polemiche, oneste.

Il contesto storico

L’etica DIY rinasce da un clima politico e sociale piuttosto critico. La scena grunge di Seattle pone le radici in un’America reaganiana devastata dalla crisi. False immagini ottimiste e fiduciose nascondevano il vero stato della Nazione, costretta a combattere con l’indebolimento della crescita economica, la crisi del settore agricolo e bancario, il crollo del mercato azionario dell’87. Tutto ciò portò alla riduzione drastica delle spese sociali e quindi all’aumento delle spese mediche, tagli ai sussidi di disoccupazione e ai buoni pasto. In sintesi, i poveri diventavano più poveri e i ricchi si arricchivano ulteriormente, e l’unica cosa che aveva valore era il denaro, il successo.

La musica

Tutto questo generò un malessere sociale che si riversò nella produzione musicale del periodo, confluita tutta nel nuovo genere in ascesa: il grunge. Il termine non piaceva a tutti i protagonisti della scena, anzi, Matt Cameron (batterista di Pearl Jam e Soundgarden) sosteneva che probabilmente «c’era bisogno di etichettare quella musica da parte dell’industria discografica e dalla stampa», Kim Thayil (chitarrista dei Soundgarden) la riteneva «una mossa di marketing per mettere Seattle tra gli scaffali dei negozi». Certo è che tutti questi gruppi, nati a cavallo degli anni Ottanta e dei Novanta, hanno in comune una filosofia depressa e pessimista, un atteggiamento decadente, alienato e dissoluto, ed esprimono questo malessere con musica rabbiosa, disperata, quasi violenta. Un atto di ribellione contro le ingiustizie, i soprusi e il darwinismo dilagante.

Ten – Pearl Jam

Prima di chiamarsi Pearl Jam erano i Mookie Blaylock, come il cestista dei New Jersey Nets dalla maglia n° 10. Gossard spiega perché la prima scelta cadde su quel nome: «C’è qualcosa nella storia di uno sportivo di medio livello a cui la band può relazionarsi. Solo per il fatto di sapere che qualcuno, partendo dalla strada, un giorno potrà anche vincere il campionato, se la squadra ha la giusta alchimia di gruppo».

Il loro trofeo arriva prima del previsto. In poche settimane, dopo aver conosciuto Eddie Vedder e averlo accolto nella band, nasce Ten (1991) e l’album supera Nevermind dei Nirvana con 10 milioni di copie vendute.

Diventano Pearl Jam dopo una quindicina di date tra Seattle e la California

Penso che la miglior spiegazione sia il riferimento alla perla e al processo naturale che contribuisce alla sua creazione. Prendere escrementi e trasformarli in qualcosa di straordinariamente bello. È così che è cominciata l’esperienza del nostro gruppo.”

(Eddie Vedder)

Anche la storia della formazione della band è piuttosto provvidenziale. Stone Gossard e Jeff Ament militano nei Green River fino all’88, poi la band si scioglie e i due futuri Pearl Jam fondano un’altra band leggendaria, i Mother Love Bone. La prima tragedia legata alla scena di Seattle accade poco dopo: Andy Wood, frontman della band appena nata, muore nel marzo del Novanta in seguito a un’overdose di eroina e un coma irreversibile. Gossard e Ament decidono allora di cambiare nome della band e proseguire il loro viaggio voltando pagina e ricominciando da capo. Sostituire il cantante dei Mother Love Bone sarebbe stato ingiusto nei confronti dell’amico scomparso.

Gossard ingaggia Mike McCready, che già conosceva e reputava un grandissimo chitarrista, tanto da lasciare a lui gli assoli per concentrarsi sulla ritmica. Per ultimo arriva Edward Louis Severson III, ovvero Eddie Vedder, un ragazzo con una difficile storia familiare alle spalle e una passione smisurata per il rock, soprattutto per gli Who. Dopo tre anni nei Bad Radio, durante i quali inizia a sviluppare le sue doti canore, Eddie viene informato da Jack Irons (batterista di Red Hot Chili Peppers, Pearl Jam e Joe Strummer) che i Mother Love Bone si sono sciolti e cercano un cantante. Eddie ascolta la cassetta Stone Gossard Demos e scrive il testo di tre canzoni.

Alive

Chiamata inizialmente Dollar Short, ora diventa Alive, ribattezzata da Eddieinsieme al nastro di Gossard, che cambia nome in Mamasan Trilogy, come se fosse una breve opera rock. Le canzoni che ha scritto Eddie sono Alive, Once (prima Agytian Crave) e Footsteps (prima Times of Trouble), tre storie legate tra loro. La trilogia inizia con Alive.

È la vera storia di un ragazzo messo di fronte a due verità scioccanti: la prima è che quello che crescendo aveva creduto essere suo padre non lo era; la seconda è che il suo vero padre era morto qualche anno prima… come se l’adolescenza non fosse già dura abbastanza di per sé. Il ragazzo, che già in quel momento non era poi tanto stabile, stava andando incontro a un periodo molto confuso. Lo dico perché lo conoscevo, anche se non molto. All’epoca in effetti mi conoscevo appena.”

(Eddie Vedder)

Tenuto conto della natura autobiografica, il brano diventa poi una proiezione mentale dell’autore con lo scopo di esprimere la sua confusione, la rabbia. Diventa uno strumento per fare i conti con la realtà, non solo quella di Eddie. L’intero album infatti fa riferimento ai reietti della società, figure emarginate che si interrogano sulla loro identità e sul mondo orribile in cui si trovano.

Il riff di Gossard è impossibile da dimenticare, una volta che entra in testa, e le liriche si intersecano alla perfezione con la ritmica, sebbene Gossard e Vedder neppure si conoscevano. Fu da subito evidente il talento del nuovo arrivato, la velocità con cui era entrato in sintonia con i pezzi era strabiliante. La scrittura di Vedder non era certo lineare, anzi, i flussi di coscienza potevano confondere a un primo ascolto, ma le liriche erano incredibilmente evocative, la poesia dei testi impressionante.

Alive divenne presto un inno, una dichiarazione d’amore per la vita. «I’m still alive», sono ancora vivo, ripete Vedder come una cantilena, fino al finale, in cui la voce si arrochisce, si fa più possente; si uniscono vocalizzi, intanto la batteria calca il ritmo e l’assolo di chitarra riempie uno spazio inizialmente lasciato vuoto dalla verità sconvolgente che il ragazzo ha dovuto affrontare

«Dover imparare a convivere con queste verità, sapere che mio padre era morto prima di conoscerlo… era una maledizione» ha raccontato Eddie. «Qualche anno più tardi, quando lo ricantavo di fronte a folle sempre più grandi, ho visto la gente reagire come non mi sarei mai aspettato. Saltavano su e giù, usavano il proprio corpo per esprimersi, e poi cantavano tutti in coro: “Sono ancora vivo”. Fu davvero incredibile, per tutti loro era come una celebrazione. E qui sta il punto: cambiando il significato di quelle parole avevano spezzato la mia maledizione.»

La prima canzone composta dai Pearl Jam al completo contiene quindi tutta la poetica della band, o almeno quella del primo album leggendario: Ten.
Once

Ispirandosi a un serial killer di San Diego, Eddie compone il secondo capitolo della trilogia Mamasan: il ragazzo impazzisce e diventa un serial killer di prostitute.

È come se dicessi a me stesso: Ho fatto tutto quello che potevo, ho lavorato duro, non ho mai preso droghe… beh, se devo andarmene, se devo abbandonare la partita, porterò con me un po’ di gente. È un pensiero fuori logica, una passione deviate.”

(Eddie Vedder)

Il brano non segue cronologicamente la storia, infatti è posto in apertura dell’album. Forse è una decisione tecnica, può darsi che la natura così rabbiosa e violenta del pezzo lo abbia reso il perfetto manifesto della band. Eddie infatti non fa che urlare più che cantare, la batteria è roboante, la chitarra produce un riff veloce, distorto, che si ripete spesso assieme alla parola «Once» (una volta), creando una climax che termina con un lieve rallentamento e un finale secco, al limite del tronco. Il ragazzo è davvero impazzito, e non c’è più niente che si possa fare per donargli lucidità.

Jeremy

Il brano nasce da un trafiletto di giornale: Jeremy Wade Dalle è un sedicenne texano che l’8 gennaio del 1991 si è sparato con un fucile davanti alla classe, dopo essere stato ripreso da un insegnante. Un altro emarginato di cui Eddie sentiva il bisogno di parlare. «Se non fosse stato per la musica, mi sarei sparato anch’io in quella classe» dichiara alla premiazione per gli Mtv Video Awards del 1993.

Daddy didn’t give attention / Oh, to the fact that mommy didn’t care / King Jeremy the wicked / Oh, ruled his world / Jeremy spoke in class today”

(Papà non faceva attenzione / Al fatto che alla mamma non importava / Re Jeremy il malvagio / Governava il suo mondo / Jeremy ha parlato in classe oggi)

È un tema molto caro al cantante, il rapporto tra genitori e figli. Jeremy è descritto come un adolescente introverso, sensibile, trattato male dai coetanei e ignorato dai genitori. Il ritornello ripetuto ossessivamente, «Jeremy spoke in class today», è il risultato della negligenza e degli abusi. «Jeremy ha parlato in classe» è chiaramente un inquietante stratagemma per evitare di menzionare il suicidio, così come provarono a fare nel videoclip. Nelle immagini non viene mai mostrata l’arma, ma soltanto il volto del ragazzo. Peccato che l’eccessiva prudenza portò a un fraintendimento. Molti credettero che il ragazzo avesse sparato alla classe invece che a sé stesso, e questo sconvolse la band, che decise di non produrre più videoclip fino al 2006.

In tutti questi anni abbiamo inseguito una certa invisibilità. Come scrittore di testi, per me è davvero una gran cosa non essere riconosciuto. Posso mantenere il mio anonimato; osservare e non essere osservato.”

(Eddie Vedder)
Assieme ad Alive, Black e Even Flow, Jeremy è probabilmente il brano più acclamato dal pubblico, merito non solo del testo ma anche di un tappeto sonoro sconvolgente. La chitarra è rabbiosa, le dinamiche alternano piani e forti a differenza della voce di Eddie, che non fa che arrochirsi e infuriarsi sempre più fino al finale. Tra urla e vocalizzi, la sezione ritmica si fa violenta e aumenta d’intensità sfociando poi in un decrescendo che sancisce anche la fine di una vita.
Why Go

Anche in questo brano è ripreso il tema dell’adolescente abbandonato a sé stesso. Eddie racconta della sua amica Heather, rinchiusa dai genitori in una clinica psichiatrica per aver fumato erba.

Questa cosa tra le assicurazioni e gli ospedali sta prendendo piede in tutta America, le consulenze che mettono su sono solo un pretesto per costruire delle… prigioni, dove possono metterti quando non vai d’accordo con i tuoi genitori, dicendoti che c’è qualcosa che non funziona, mentre in realtà quelli che non funzionano sono loro.”

(Eddie Vedder)

Un altro argomento a cui Eddie è molto sensibile per via del suo vissuto: pare infatti che sia stato sorpreso dal patrigno a fumare erba, e non è un segreto che Mueller fosse violento col figliastro. Why Go si unisce quindi alla coda delle canzoni violente e arrabbiate di Ten: voce roca che si esibisce in continue grida, batteria abrasiva, chitarra furiosa priva di un istante di pausa.

Black

Quando chiesero alla band di farne un singolo la risposta immediata fu: assolutamente no.

Ci sono canzoni troppo fragili che si sgretolerebbero contro il muro dello show business. Certe canzoni semplicemente non sono fatte per finire tra un numero 5, numero 2 o numero 3. Non sono fatte per essere numeri.”

(Eddie Vedder)

Vedder è molto legato a questa canzone, anche se non si sa precisamente perché. Si tratta di una ballata in cui per la prima volta in tutto l’album compaiono le tastiere, suonate dal produttore Rick Parashar. È un crescendo d’intensità, sostenuto dalla voce qui armoniosa di Eddie e dagli strumenti stranamente lenti e stavolta di supporto a un tappeto di sensazioni tattili e visive – la componente narrativa è quasi del tutto assente.

La ballata commovente è comunque un prodotto dei Pearl Jam degli anni Novanta, e per questo non può avere un finale positivo. Il protagonista infatti è consapevole che la sua amata non può essere sua, che il nero del titolo e dei tatuaggi di cui si parla avvolgerà ogni cosa.

Even Flow

La musica di Even Flow proviene da Holy Roller, un brano dal primo e unico disco dei Mother Love Bone. La struttura è infatti sostenuta da un poderoso riff di chitarra, anche se l’elemento distintivo, che ne farà un cavallo di battaglia, è il testo di Vedder.

Eddie descrive la vita di un senzatetto che non smette di sperare in giorni migliori ma che incontra solo persone non interessate alla sua condizione. È un’altra delle critiche di Vedder, che ne parlerà spesso ai concerti, ad esempio al Bayfront Amphitheatre di Miami: «Dato che siete studenti del college pensavo di buttarci dentro un po’ di educazione da strada, fin tanto che le vostre menti sono ancora aperte. Qui davanti troverete una comunità di senzatetto, che vive sotto un ponte… dovreste solo sapere che queste persone non sono pazze, e che spesso non si trovano lì nemmeno per colpa loro».

Garden

È il brano con il testo più esplicitamente politico scritto da Vedder, forse per questo è il meno poetico e strabiliante. È un’altra ballata in cui chitarra e voce diventano una cosa sola e il sound risulta quasi psichedelico.

La critica di Vedder, stavolta, è diretta alla società che emargina chiunque non si adegui ai canoni del conformismo.

I don’t question / Our existence / I just question / Our modern needs / I will walk, with my hands bound / I will walk, with my face blood / I will walk, with my shadow flag / Into your garden / Garden of stone”

(Non metto in dubbio la nostra esistenza / Metto semplicemente in dubbio i nostri bisogni moderni / Io camminerò con le mani legate / Io camminerò con la faccia insanguinata / Io camminerò con la mia ombra pendente / Nel tuo giardino, giardino di pietra)
Deep

Si tratta della canzone più violenta scritta finora. Questa canzone è un tour de force che sfocia quasi nell’heavy. Il brano è portato avanti dai virtuosismi di Vedder che continua a esibirsi in grida di protesta, stavolta in difesa dei tossicodipendenti, carnefici e vittime, qualunque reietto, senza però usare toni propagandistici.

Bonus track: Footsteps

L’ultimo brano della Trilogia Mamasan non è contenuto nell’album ma nel b-side del singolo Jeremy. Il viaggio del protagonista si conclude in galera: è stato arrestato e ora attende la pena capitale. Il testo è quasi una lettera d’addio e le impronte di cui parla il titolo sono forse quelle del ragazzo o, perché no, gli indizi che ha lasciato e che lo hanno portato in prigione.

Conclusioni

Quello che abbiamo analizzato è tristemente l’ultimo album che ha avuto un valore e un potere così significativi da combattere il sistema dall’interno. È noto che questo portò i Pearl Jam a essere accusati di inseguire il successo, nonostante loro abbiano fatto di tutto per schivarlo. La fama non era ciò che cercavano, è stata una logica conseguenza dell’ottimo lavoro svolto.

Ten – i suoi temi, il suo ritmo, le sue melodie e le battaglie che vuole sostenere – è soltanto arrivato al posto giusto nel momento giusto. La generazione degli anni Novanta ne aveva bisogno, e ha continuato a colpire anche le generazioni successive. È semplicemente essenziale, forse uno dei migliori album nella storia del rock.

— Onda Musicale

Tags: Pearl Jam, Eddie Vedder, Grunge, Ten
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