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Dieci album che compiono cinquant’anni nel 2023

@ copertina di The Dark Side of the Moon, album pubblicato nel 1973

Quale modo migliore per passare i noiosi pomeriggi d’inverno che ascoltare della buona musica? Ce ne sono pochi, certo, ma si manifesta un problema per il pubblico di oggi: da cosa cominciare. 

Dinnanzi a un catalogo vasto come quello che abbiamo a disposizione, tra streaming e download e mercatini dell’usato, può risultare difficoltoso per un utente casuale capire da quale parte cominciare. Anche avendo in mente il proprio genere preferito, o una sottocultura d’interesse, è pienamente comprensibile smarrirsi nell’oceano delle possibilità. 

Per agevolare la scelta, noi di OndaMusicale proponiamo dieci grandi classici che quest’anno compiono cinquant’anni. Sono tutti pezzi di storia – di tante storie, anzi, e di decine di movimenti che proprio all’inizio degli anni settanta trovavano un nome, un’estetica e un modo di essere riconoscibile, e che possiamo riscoprire adesso con uno sguardo più moderno. 

The Dark Side of the Moon – Pink Floyd

Un viaggio attraverso l’esperienza umana sulle ali ferrigne della psichedelia. Un pezzo di storia della musica e dell’idea stessa di concept album. C’è chi lo ritiene il capolavoro dei Pink Floyd – ma anche chi non è d’accordo con questa definizione non può non riconoscere il fascino e la poliedricità mostrata dal gruppo di Roger Waters

Come nell’indimenticabile copertina, in cui un fascio di luce bianca viene scomposto nei suoi frammenti di colore, The Dark Side Of The Moon mette a nudo i lati più dolorosi dell’umanità. Parabole di avidità, solitudine, smarrimento della propria identità e di ogni legame col mondo stesso si susseguono in alcune delle più raggelanti tracce della storia del rock. Da ascoltare da sobri o (possibilmente) non. 

Houses of the Holy – Led Zeppelin

Realizzato in collaborazione – non pubblicizzata, ma c’era – con artisti come Mick Jagger e George Harrison, Houses of the Holy solleva polemiche al momento della pubblicazione. Non aspettatevi, infatti, (solo) il grande rock&roll, perché il quinto album della band (e il primo non autotitolato) dimostra la capacità del quartetto britannico di sperimentare. 

Assaggi di reggae, r&b, blues e prog contaminano i sempre immacolati arrangiamenti di chitarra e la voce strepitante di Robert Plant, senza mai deviare dai binari e comunicare un’identità artistica in cedimento. Multiformi anche le emozioni, dall’amore più profondo alla leggerezza alla pura contemplazione, comunicate da un gruppo istrionico destinato a entrare nella leggenda. 

Aladdin Sane – David Bowie

Who will love Aladdin Sane”, chiede il granduca del glam rock in un geniale gioco di parole nella title track. Tutto il mondo, a quanto pare – a cominciare dall’America, musa crudele della concezione del disco stesso. Il personaggio di Ziggy Stardust, persona a disposizione di Bowie introdotta l’anno prima, viene costretto ad attraversare un’esperienza traumatica sotto tutti i fronti: un tour in America.

Come va il tour? Psicologicamente un mezzo disastro, per usare un eufemismo, ma artisticamente un trionfo. Combinando l’algido portamento British a cui era abituato con le punte hard e blues della musica d’oltreoceano, Bowie spacchetta l’esperienza eccessiva del tour, allo stesso tempo celebratoria e spersonalizzante, e la racconta con la sua indimenticabile poesia. 

Quadrophenia – The Who

Definito da Pete Townshendl’ultimo grande album degli Who” anche Quadrophenia, come Aladdin Sane, si fonda sulla costruzione di un personaggio. Jimmy, protagonista dell’album e dell’omonimo film del 1979, è di fatto il testimonial della cultura dei Mod, i giovani britannici che all’epoca rivoluzionavano la cultura e l’autoespressione delle nuove generazioni. 

Il titolo dell’album fa riferimento alla quadrupla identità di Jimmy, affetto da schizofrenia, nonché alle quattro identità separate dei membri degli Who che collidono nella sua creazione. Due dischi di rock corposo e crudo, in cui la miscela di furia risoluta e odio per sé stesso del protagonista diventa voce di denuncia di una generazione tradita dalle bugie di grandezza dei predecessori. Sapete come si dice, the more things change… 

Goodbye Yellow Brick Road – Elton John

Da un’icona queer a un’altra, il mito di Dorothy, interpretato da Judy Garland, riprende vita nella bocca e nei costumi di uno dei più grandi interpreti teatrali della musica pop. Come Aladdin Sane, anche qui abbiamo a che fare con uno sguardo al mondo dello stardom. Qui, però, la terra è molto più vicino.

Uno degli album più malinconici e introspettivi della carriera di Elton, dal quale ha origine la commovente ballata funebre Candle In The Wind. I personaggi – soprattutto ragazze tormentate, Dorothy moderne – sono quasi tutti decaduti, abbandonati in un mondo che non assomiglia a quello dei sogni. Eppure la testa di Elton rimane alta, e il calore delle musiche e delle sue performance è una luce in fondo al tunnel incrollabile. Un equilibrio per pochi, da riscoprire. 

Berlin – Lou Reed

L’istrionico Lou Reed lo fa di nuovo, e ancora una volta ci vuole una rilettura a posteriori per riscoprire un album che al momento della critica era passato in sordina. Tutto quello che si ama oggi sia di Reed che dei concept album come idea si può trovare in Berlin. Al centro la tragica storia di una coppia di tossicodipendenti, Caroline e Jim, già comparsa in una canzone (Berlin, appunto) apparsa nel primo album dell’artista.

Le personalità dei protagonisti, il frustrato e spocchioso Jim, e la più ferma ma fedifraga Caroline, emergono a tutto tondo nonostante a cantare con le loro voci sia un solo uomo. La tragedia è l’unica fine possibile – la traccia finale dell’album si chiama, non a caso, Sad Song – e nessuno ne esce vincitore: tranne il pubblico che ancora oggi può seguire la loro storia. Indimenticabili le urla dei bambini che si sentono in The Kids, quando i figli di Caroline le vengono portati via dagli assistenti sociali. 

For Your PleasureRoxy Music

Nel 1973 il movimento del new wave e la musica elettronica come concetto ancora non avevano preso piede. Se oggi possiamo dire grazie per l’esistenza di un’intera sottocultura è anche grazie ai Roxy Music e al loro secondo album, For Your Pleasure. Gli elementi estetici della band emergono fino dalla copertina – indimenticabile Amanda Lear con la pantera al guinzaglio – e proseguono in un album che è allo stesso tempo controcultura e ultima moda. 

Intento teatrale, liriche romantiche e ricche di immagini forti, dalla bellezza della natura a quella plastica e accattivante della moda e del glam sono i pilastri che sorreggono le menti folli dei Roxy Music. Non si può ancora parlare di elettronica, ma cominciano a vedersi, soprattutto a uno sguardo a posteriori, i primi accenni di un’estetica senza uguali. Tutta l’autenticità che si può trovare in una bambola di plastica.

Selling England by the Pound – Genesis

Si potrebbe dire “prog” e fermarsi qua, ma sarebbe un disservizio alla band di Peter Gabriel e al loro impegno nella costruzione del loro lavoro. Come alluso nel titolo, Selling England By The Pound è una critica sociale e culturale alla loro contemporanea Inghilterra, che inizia ma non si ferma all’aspetto strettamente economico. 

Si parla di lotte tra gang, dell’ipocrisia della vecchia nobiltà, e semplicemente della propria identità come parte di un paese allora, e anche oggi, in conflitto ideologico e generazionale. Lo accompagna un sound ricco e colmo di sfumature, in cui emerge l’identità duale della band. Il prog, che li distanzia dalla cultura sonica del paese, e il folk, che ad esso li avvicina. Il sound che ne emerge è unico al mondo, e indimenticabile. 

Sabbath Bloody Sabbath – Black Sabbath

Con un titolo del genere si può solamente immaginare che tipo di musica Ozzy Osbourne e i suoi compagni di avventure avessero sul piatto. Al quinto giro di giostra, i ragazzacci si attaccano al treno del prog e ingigantiscono il loro già possente sound in un capolavoro che siede comodamente alle fondamenta del metal. 

Nelle parole di Tommi Iommi, Sabbath Bloody Sabbath rappresenta la prima vera autoespressione della band, in cui scrivono e cantano, nel sotterraneo di un vecchio castello in Galles noleggiato per lo scopo, una musica che gli appartiene per davvero. C’è un senso di malinconia nell’album, in cui l’estetica macabra non è solamente un bell’abito da indossare, ma un linguaggio espressivo che a volte parla per loro anche nei loro assoli. 

Let’s Get It On – Marvin Gaye

L’album che ha praticamente inventato la musica sexy – ma non riducete Let’s Get It On a una collezione di canzoni piccanti, perché con Marvin Gaye nulla è come sembra. Il dio del soul mette il proprio cuore a nudo in una serie di tracce in cui la sensualità non è che uno dei linguaggi usati per un quadro umano completo e spesso straziante. Bisogna leggere tra le righe per capire certe canzoni, e le parole “sexual healing” offrono i due sguardi fondamentali con i quali volgersi all’album. 

Let’s Get It On è un invito a un amore liberatorio per tutti, a cominciare da Gaye stesso. Vittima di violenze da parte del padre, in età infantile, e per questo da sempre soffocato nell’espressione della sua sessualità. È con la musica che trova finalmente la libertà, e il coraggio di riconquistare quello spazio. Nel 2004 introdotto, a ragione, nella Grammy Hall of Fame. 

— Onda Musicale

Tags: Led Zeppelin, David Bowie, Elton John, Roxy Music, Marvin Gaye, Quadrophenia, Pink Floyd, The Who, The Dark Side of the Moon, Genesis
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