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Sonic Youth: quel doppio disco di rivolta, rivoluzione e libertà espressiva

Decisamente anarchico e arido non solo il suono quanto anche il motivo che conduce di nuovo sulle trame di un disco che ha segnato epoche e generazioni.

Perché ho come l’impressione che tanto ci si affanni a trovare nuove strade di evoluzione e di trasgressione finendo troppo spesso a rimestare sentieri battuti nel perenne mestiere di copiare cose che, dischi come questo di cui parleremo, cullano nella segretezza della loro libertà. Quand’è la libertà ad esprimersi non v’è paragone e storia, qualsiasi sia la resa estetica. Gli anni ’80 negli States si aprivano con opere monumentali come “The Wall” dei Pink Floyd che facevano ormai il giro del mondo… dalla nostra un Lucio Battisti e la sua giornata uggiosa ci provava a investire tempo e gusto pop in direzioni nuove.

Di sicuro l’avanguardia nostrana ha durato fatica da sempre nel cercarsi consensi popolari e, nei casi in cui questo connubio ha trovato ragion d’essere, ogni cosa si è poi amalgamata al tutto divenendo nuova forma di “pop”, tanto per tornare a qualche rigo in su

E sono sparuti i casi in cui l’avanguardia, l’alternative, il rock acido e velenoso ai bordi ha saputo resistere al fascino della facilità e dell’unanime consenso… consenso che alla fine ha trovato comunque in forma massiccia e lo ha saputo fare quasi sempre senza scomodare alcuna forma di compromesso. Si pensi ai Joy Division che con un brano epocale come “Atmosphere” ha unito tutti, grandi e piccini, ammorbidendo le linee austere e secchissime della scrittura ma senza mai voltarsi altrove in ragione del suo DNA. Ed erano quasi terminati gli anni ’80, precisamente correva l’anno 1988 e armati di simili intenti di ricerche alternative, è doveroso tornare sulle trame del doppio Lp “Daydream Nation”:

Ho davvero difficoltà a condensare in una sintesi la sensazione che trovo ad ogni ascolto

Quella irriverente libertà sospesa di “Evol” che in qualche modo ha codificato in un senso più contemplativo l’irruenza anarchica degli esordi, qui trova la quadra perfetta, a dir poco geniale: libertà compositiva (su tutto impera come dicevo), libertà sotto ogni aspetto in un mutuo dialogo con la forma ragionata, ricorsiva, quasi timidi approcci “radiofonici” dentro riff e ritornelli, come nelle aperture che non sono incoerenti né prive di senso accostate ai repentini cambi di scenari strumentali eversivi a cui tanto ci hanno abituato Lee Rinaldo e compagni.

E ad ogni ascolto riscopro la genialità di quest’amalgama: a bandiera di tutto, del leitmotiv come della forma, suonano i riff di “Teenage Riot” dentro cui l’ingresso della sezione di drumming non fa altro che codificare la più sfacciata delle soluzioni pop mainstream
E non è una critica negativa ma trovo che sia un assoluto colpo di genio che ritroviamo spesso e in misure diverse dentro questo lungo viaggio

“Here he comes now” cantano i nostri disegnando quasi la morbidezza di una “Here comes the sun” di quel disco famoso inglese. Miscela esplosiva eretta ad arte per condensare ogni aspetto della rivoluzione in atto: “Silver Rocket” con le chitarre che segnano percorsi comodi all’ascolto, con le distorsioni che tanto ritroveremo (credo fortemente, per tornare ancora in su di qualche rigo) nelle gustose pitture “innovative” (alle nuove generazioni di rivoltosi rock) dei Foo Fighters… questo inciso che ha dalla sua una cantabilità mnemonica accattivante per nulla in antitesi con un testo che recita “You got it, yeh ride the silver rocket… Can’t stop it, burnin hole in yr pocket”… scanzonata allegoria e goliardico dissenso regnano sovrani sulla scia di un’era punk che al sistema regala sputi e minacce colorate e “buffi sberleffi”.

Accomodanti e decisamente pop le soluzioni di chitarre nelle aperture strumentali di “The Sprawl”

Con questa voce cantilenante molto ripresa in futuro anche dagli stessi R.E.M. – e non è un caso forse che ritroviamo quel certo sapore alle chitarre, gli anni della gioventù rivoltosa anche per loro… come non è un caso che la delicatezza pop di “Candle” faccia tornare alla mente quelle estensioni vocali e quel modo di aprire le melodie proprio di un primo Stipe, come quel cadenzato dialogo di chitarre a rinforzo del tutto, come quel drumming sintetico e assai di contorno… sono azzardi che mi concedo, avendo ingoiato quei loro primi dischi degli anni IRS come fossero caramelle… tutto vero ai miei occhi se non fosse che anche dentro una linearità come quella di “Candle” i Sonic Youth hanno saputo alterare i giochi con la demolizione atomica di ogni infrastruttura… e qui torna il genio che sa come celebrare una propria libertà identitaria.

E la mia personalissima vetta la ritrovo dentro l’ultima traccia prima della suite finale

“Kissability” in cui rivedo quella cantilenate voce di Kim come un omaggio alla più famosa Patti Smith di “Up There Down There” … e non è un caso se l’anno è lo stesso, anno in cui anche la poetessa di Chicago consegnava alla storia un disco come “Dream of Life” con una bandiera sprigstiniana che voleva potere al popolo tutto.

E si torna a parlare di sogni, di forza sociale, di emancipazione individuale… tutte rivoluzioni giovanili mai sottaciute e mai secondarie, come quella candela accesa in copertina dalle sapienti visioni di Gerhard Richter, che mai deve spegnarsi… nonostante il tempo confonda le carte, i volti e la voce di tutti

Cover “Daydream nation”

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, Lucio Battisti, The Wall, Patti Smith, REM, sonic youth
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