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Pino Daniele, l’album della svolta del cantautore napoletano

Pino Daniele all'inizio della carriera

Il 1979 è l’anno della svolta per Pino Daniele. Dopo l’esordio di Terra Mia, il cantautore esce con il disco che porta il suo nome, quasi a tracciare una riga e ricominciare da capo.

Terra Mia esce nel 1977 e come spesso capita ai debutti è un lavoro denso di grandi intuizioni ma che forse manca un po’ di direzione. Pino Daniele è ancora saldamente legato alle radici napoletane e la spinta che deriverà dal suo meltin pot di influenze americane deve ancora essere messo a punto.

A quel punto, il napoletano ha appena ventiquattro anni ma ha già un bagaglio di esperienze molto vario. Nato nei bassi in una famiglia poverissima, Pino ha imparato a cantare e suonare da autodidatta nel periodo delle contestazioni giovanili. Sono gli anni del beat e della psichedelia, anni in cui a Napoli si mischiano con la tradizione le influenze americane portate dai tanti soldati delle basi Nato.

Non solo, il giovane Pino ha modo di fare esperienza anche con due personaggi metà americani e metà napoletani, legatissimi a radici black che conoscono solo per il loro DNA: Mario Musella e soprattutto James Senese.

Pino impara a suonare un po’ di tutto, ma il suo strumento d’elezione è ovviamente la chitarra. Collabora a progetti diversissimi tra loro, dalla tradizione melodica di Gianni Nazzaro al rock maccheronico di Bobby Solo; dal prog di Jenny Sorrenti al jazz-rock dei Napoli Centrale, in cui milita brevemente come bassista.

Terra Mia – come detto – è un debutto di grande qualità che però rimane un po’ schiacciato in un periodo d’oro per i grandi cantautori. Il mercato impazzisce per De Gregori, Dalla, Venditti e Guccini; Lucio Battisti è agli ultimi spettacolari fuochi con Mogol e Ivan Graziani vive il suo periodo di grazia. Per il cantautorato un po’ troppo legato agli stilemi napoletani di Pino lo spazio è poco.

Tuttavia, il debutto contiene già i semi della futura grandezza. Napule è e ‘Na tazzulella ‘e cafè sono classici che rimarranno sempre nel suo repertorio. Non solo, riusciranno nell’impresa di affiancarsi ai grandi standard della musica napoletana.

L’incontro con James Senese, sassofonista metà afroamericano e l’altra napoletano doc, istrionico cantante, strumentista e showman, è quello decisivo. Pino Daniele afferra per le corna il demone blues che pervade le corde della sua chitarra e dà vita a un suono che non si era mai sentito. Il suo è una sorta di blues napoletano che mischia il golfo campano col delta del Mississippi.

Lui lo chiama Taramblu, inusitata commistione di tarantella, blues, rumba, jazz e chissà cos’altro.

La copertina di Pino Daniele è simbolica del periodo giovanile; il chitarrista è ritratto in quattro pose, come in uno split-screen, mentre si rade; l’espressione imbronciata e scontrosa, simbolo della sua presenza scenica dell’epoca, imponente e scostante.

Il disco è prodotto da Willy David e si avvale di una formazione di tutto rispetto. James Senese al sax è ovviamente la punta di diamante, ma anche gli altri, da Rino Zurzolo a Ernesto Vitale e Agostino Marangolo sono all’epoca il meglio della scena cittadina.

Pino Daniele si apre con Je sto vicino a te, brano che chiarisce subito le atmosfere sospese tra blues malinconico e sinuose linee jazz al confine con la bossa. Il cantautore cantava all’epoca con una voce molto diversa da quella degli anni della maturità, molto più aggressiva e roca. In grande evidenza le tastiere e il basso di Rino Zurzolo.

Chi tene ‘o mare è una ballata melodica dalle tipiche atmosfere della Napoli della migliore tradizione; tutto riporta al Pino Daniele del primo album, con l’amore per il mare e per le radici a cui è profondamente legato. Potremmo tranquillamente essere di fronte a un brano del nobile e sterminato repertorio napoletano d’epoca.

A fare la differenza arriva l’assolo da brividi di James Senese al sassofono; Chi tene ‘o mare diventa così una piccola gemma di musica mediterranea.

Basta na jurnata ‘e sole è un brano che alleggerisce la tensione con un ritornello che oggi definiremmo catchy. La chitarra acustica di Pino è in bella evidenza – specie all’inizio – e così il sax di Senese. Il pezzo prepara il campo a uno dei più grandi classici della carriera di Pino Daniele, Je so’ pazzo.

Il brano, blues negli intenti e anche parzialmente nella struttura, è esemplificativo del taramblu di Pino. Il pezzo è quello che lancia definitivamente Pino Daniele, partecipando anche al Festivalbar; l’ispirazione arriva direttamente dall’ultimo discorso pronunciato da Masaniello, rivoltoso della Napoli del Seicento e vera icona della città partenopea.

Daniele si fa portavoce genuino della Napoli arrabbiata, quella dalle grandi potenzialità stritolata tra lo stato e la criminalità. E lo fa parlando chiaro, come nel celeberrimo verso “je so’ pazzo je so’ pazzo/nun nce scassate ‘o cazzo!” che rende la canzone un vero cult. La musica, però, non è da meno di testo e importanza del brano. Una sorta di blues mediterraneo accattivante e melodico, condito dall’armonica suonata dallo stesso Daniele.

Je so’ pazzo è insomma uno di quei casi in cui tutto congiura per creare un capolavoro. Il testo, la musica, la voce e l’interpretazione del cantautore, qui particolarmente ispirato, ma anche l’arrangiamento: tutto è perfetto.

Ninnanàninnanoè è una delicata ninna nanna dalle atmosfere tradizionali che fa un po’ da camera di decompressione dopo il capolavoro precedente; comunque, un brano apprezzabile. Chillo è nu buono guaglione è invece un pezzo che all’epoca desta scalpore, ma nemmeno poi tanto, visto che la vita nelle strade di Napoli finisce per essere comunque un inno alla tolleranza già allora.

La canzone, su un tappeto irresistibile di jazz-rock, narra la vicenda di un trans che vorrebbe diventare Teresa per non sentirsi più emarginato e additato per strada. Il pezzo sfoggia un basso da antologia e passaggi al limite del rap, oltre a trattare il tema ancora oggi delicato con una sensibilità che ne mantiene intatta l’attualità. Un gioiello.

Con Ue man! Pino Daniele trova finalmente il coraggio per cimentarsi con un vero blues, e i risultati sono straordinari. Introdotta da un tipico riff blues di chitarra elettrica, la canzone offre un Pino vocalist blues credibilissimo. Il lavoro alla chitarra è da autentico bluesman.

Il pezzo però non va preso come un semplice esercizio di stile; il testo, cantato con una meravigliosa commistione di inglese e napoletano narra la vita dei ragazzini di strada di Napoli. Il tema, all’epoca portato alla ribalta anche dalle inchieste per il Tg2 Dossier di Giuseppe Marrazzo, è forse poco noto e merita di essere raccontato per capire meglio la canzone.

A parlare per voce di Pino è un ragazzino di undici o dodici anni, di quelli che all’epoca tiravano su qualche soldo procurando compagnia (leggi: prostitute) ai soldati americani di stanza nelle basi Nato. Il tutto in cambio di qualche soldo (Nu poche ‘e dollars to me) o di sigarette. L’assolo di chitarra è una gemma, senza virtuosismi e rilassato come lo sarebbe quello di un vero bluesman. Forse la prima occasione per apprezzare davvero la squisita tecnica di Pino Daniele.

Si torna alla tradizione con Donna Cuncette, brano melodico e denso di citazioni folkloristiche; Il Mare si muove ancora tra jazz-rock, fusion e funk, proponendo un ritornello straniante quasi da cabaret. La voce di Pino suona ancora arrabbiata e i temi sono sempre quelli della povera gente della città.

Viento è un breve pezzo solo per chitarra e voce, tradizionale al punto giusto. Un passaggio brevissimo, per alcuni solo un riempitivo, ma che vi invitiamo a riscoprire: Viento è un brano tanto corto quanto perfetto, un po’ come un haiku giapponese.

Pino Daniele si avvia verso la chiusura con Putesse essere allero, brano che esalta in tempi non sospetti la bellezza delle piccole cose. Musicalmente siamo ancora al confine tra le radici napoletane e una sorta di saudade italo-brasiliana. Notevole la parte di chitarra, tra effetto mandolino e country.

E cerca ‘e me capì ci porta alla parola fine con grazia. Una delicatissima ballata che ancora una volta è divisa tra l’amore per la città e la disillusione per i tanti problemi insormontabili di Napoli.

All’epoca nessuno immagina la futura grandezza e l’incredibile successo che arriderà a quel curioso personaggio; una chitarrista quasi selvaggio nella sua presenza scenica e nel suo modo scostante di porsi che diventerà un mostro sacro della canzone italiana. Ma non solo, Pino Daniele sarà anche uno degli strumentisti più raffinati e ricercati della scena, non per forza quella nazionale.

Pat Metheny, Eric Clapton, Chick Corea, Robbie Krieger e Joe Bonamassa, infatti, sono solo alcuni dei tanti nomi con cui Daniele collaborerà negli anni. Un’altra cosa che però nessuno immagina è l’improvvisa fine della sua parabola. Una scomparsa prematura per cui l’Italia si ferma e che fa ancora male.

— Onda Musicale

Tags: Lucio Battisti, Ivan Graziani, Joe Bonamassa, James Senese, Mogol, Eric Clapton
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