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Knockin’ on Heaven’s Door, storia della canzone cult di Bob Dylan

Knockin' On Heaven's Door

Knockin’ on Heaven’s Door è una delle canzoni di Bob Dylan che più sono entrate nell’immaginario degli appassionati di rock. Eppure, la canzone non arriva certo nel suo momento migliore.

Knockin’ on Heaven’s Door viene infatti pubblicata nel luglio del 1973 e non fa parte di uno dei canonici album del cantautore. La canzone arriva infatti dalla colonna sonora di Pat Garrett e Billy Kid, film western in cui Bob Dylan recita in una piccola parte, quella del fuorilegge Alias. Bob, la cui prolificità prima del celebre incidente di Woodstock – ma anche immediatamente dopo – era proverbiale, a quel punto non pubblica un disco dal 1970.

Tre anni prima era uscito Self Portrait, disco rimasto celebre soprattutto per la frase pronunciata da Greil Marcus: “Cos’è questa merda?” Il giornalista del Rolling Stone, ammiratore devoto di Bob, con la colorita domanda si era fatto portatore dei dubbi un po’ di tutti. Sì, perché dopo l’incidente di motocicletta, Dylan era passato da Blonde on Blonde, giunto al culmine di una serie di capolavori senza precedenti, a dischi piuttosto scialbi.

John Wesley Harding, che pure conteneva il guizzo di All Along the Watchtower, era troppo blando per essere vero; Nashville Skyline era invece un inusitato tuffo nel country, mentre al vituperato doppio Self Portrait era seguita la parziale ripresa di New Morning. A quel punto, il cantautore di Duluth aveva per l’ennesima volta cambiato strada e si era invaghito del cinema.

Ai tempi di Pat Garrett, Bob pare pienamente calato nei panni dell’attore, tanto da essere infastidito dai fan che lo assillano sul set solo per il suo lavoro nella musica. Il film è un western che otterrà poco successo, ma comunque un buon prodotto. Alla regia c’è Sam Peckinpah, regista della nouvelle vague del western americano, memore della lezione di Sergio Leone e anticipatore di Tarantino.

Dylan dichiara: “Ora voglio fare dei film. Non ero mai stato così vicino al mondo del cinema. Farò un grande film dopo questo.” Come spesso avviene nella storia di Bob Dylan, ai grandi innamoramenti segue un altrettanto svelto disinteresse. Di lì a poco il musicista si interesserà di pittura – attività che prosegue ancora oggi – per poi tornare alla musica.

Il ritorno sarà fragoroso, con un grande capolavoro come Blood on the Tracks e altri lavori piuttosto centrati. Poi arriverà l’ennesima svolta, quella della conversione cristiana, ma nel 1973 è tutto ancora lontano e imprevedibile. Knockin’ on Heaven’s Door è però un capolavoro che arriva a ciel sereno e che contiene già i prodromi del ritorno alla gloria.

L’intera colonna sonora del film, pur popolata da molti strumentali, è di gran livello; stupisce che proprio incidendo un lavoro senza troppe pretese, quasi collaterale alla sua esperienza di attore, Bob torni finalmente a mostrare la sua classe. Una bella e struggente ballata come Billy ne è la prova, ma è con Knockin’ on Heaven’s Door che il nostro centra un capolavoro inaspettato.

Le canzoni vengono incise tra Città del Messico e gli Stati Uniti, suonando con musicisti messicani. Non deve quindi stupire che il suono riproduca quelle suggestioni a sud del confine, quasi da mariachi, che permeano tutto il progetto.

Knockin’ on Heaven’s Door viene impiegata in una delle scene più epiche e commoventi del film, quella della morte dello sceriffo Slim Pickens. L’uomo, ferito a morte, va a morire sulla riva del fiume, accompagnato dalle mute lacrime della moglie e da uno di quei tramonti rossi che si vedono solo nei western. L’impiego della canzone rende il tutto ancora più suggestivo.

Le parole, spesso mal interpretate, raccontano proprio lo stato d’animo dello sceriffo. L’uomo vede la fine e il buio, immaginandosi bussare alle porte del paradiso.

Il pezzo si articola su pochi e semplicissimi accordi e ricorda vagamente Helpless di Neil Young. Si tratta di una canzone dai toni country, molto breve, perfetta per essere suonata e intonata anche dal chitarrista dilettante, magari attorno al tipico falò. Certo, sarebbe forse difficile spiegare che in realtà il testo canta del trapasso di un anziano sceriffo.

Come succede con i brani che presto entrano nel mito, Knockin’ on Heaven’s Door diventa subito patrimonio di altri artisti che la fanno propria. Accade così che un breve bozzetto country, in cui forse nemmeno Dylan credeva molto, diventi uno standard, riletto negli stili più disparati.

Le cover sono quasi infinite, specialmente nella dimensione live. Andiamo da Bruce Springsteen agli U2, da Dolly Parton a Roger McGuinn. Ma la lista è lunghissima: Leningrad Cowboys, Grateful Dead, Mark Knopfler, Aerosmith, Television, Warren Zevon; ma anche divi pop come Bon Jovi, Randy Crawford, Antony and the Johnsons, Aretha Franklin e Avril Lavigne.

Perfino il bizzoso Roger Waters e i profeti del grunge, i Nirvana, non si sottraggono a quello che pare quasi un rito di passaggio.

Le due versioni che però finiscono quasi per superare in notorietà l’originale sono due, diversissime tra loro. Quella di Eric Clapton, intanto, una versione rilassata e con toni reggae, all’epoca molto in voga. Esce come singolo e finisce in un Best Of: nonostante la resa reggae sia a tratti un po’ stridente, l’operazione riesce.

Forse la palma di cover più celebre va però ai Guns N’ Roses.
Il brano finisce in Use Your Illusion II, lavoro del 1991 e uno degli apici della loro popolarità. La versione vanta un arrangiamento molto pesante ma comunque rispettoso dell’originale. Il lavoro alla chitarra di Slash è pertinente, rimanendo in perfetto equilibrio tra l’omaggio e il suono hard del complesso.

Chi convince meno, alla fine, è proprio il cantante. Gli sguaiati vocalizzi di Axl, sua cifra, appaiono quasi caricaturali e, se all’epoca facevano impazzire legioni di fan, oggi sono invecchiati decisamente male.

Knockin’ on Heaven’s Door, insomma, è l’esempio di come un genio possa dare luce a un capolavoro della musica anche in un periodo non proprio illuminato.

— Onda Musicale

Tags: Neil Young, Eric Clapton, U2, Bob Dylan, Guns N' Roses, Aretha Franklin
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