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Un rock and roll tutto al femminile: le cinque grandi artiste che hanno fatto la storia

«Dietro ogni grande uomo, c’è sempre una grande donna». In realtà la musica ha dimostrato come le donne si trovano spesso qualche passo avanti rispetto ai loro colleghi maschi.

Gli anni della new wave, dalla ribellione, delle sperimentazioni sono stati gli anni di Janis Joplin, Patti Smith, Joan Jett, Debbie Harry e Aretha Franklin. Cinque grandi artiste, dalla voce immensa tanto quanto le loro vite insidiose, che hanno contribuito a renderci quel che siamo oggi.

La prima rockstar femminile

In un universo dominato da un maschilismo feroce, Janis Joplin è stata la prima cantante bianca a portare nel rock la tradizione del blues e del soul, ma soprattutto è stata colei che ha cambiato per sempre la percezione della donna nel mondo della musica.

Essere la prima rockstar femminile non è semplice, tantomeno quando le fragilità dovute a una vita durissima spezzano l’animo in così tanti frammenti che neppure l’amore dei fan riuscirà mai a riparare. Approdata a San Francisco, Janis Joplin entra i contatto con fermenti musicali e culturali, in un fervido clima di possibilità, alla giovane si presenta la grande opportunità di lavorare con i Big Brother and the Holding Company.

È il 1967 e l’esibizione al festival di Monterey la consacra all’olimpo del rock. La voce roca, eppure delicata, pregna di dolore, ma al contempo desiderosa di amore, è ciò che maggiormente colpisce il pubblico e la critica. Capace di interpretare e rimodulare il blues senza risultare mai didascalica, divenne leader indiscussa di un gruppo maschile quando le donne erano condannate a ruoli minori nell’industria musicale.

Non soltanto canto e carisma, Janis fu in grado di imporre la sua carica sessuale, il suo fascino, in quello show business che ambiva a tutt’altri canoni di bellezza. L’eredità che ci lascia, a soli 27 anni, è la dimostrazione che il talento e la potenza emotiva surclassano il genere aprendo, in tal modo, la strada alle donne del rock. A percorrere questo impetuoso tragitto, ci penseranno altre adepte della musica: da Patti Smith a PJ Harvey, fino ad Annie Lennox e Skin.

La sacerdotessa del rock

Patricia Lee Smith, in arte Patti Smith, è una delle protagoniste degli anni Settanta. Cantautrice e poetessa, la sacerdotessa del rock è stata capace di rivoluzionare questo genere attraverso la sua figura dirompente, carismatica, nonché tramite la suggestiva potenza di cui le sue canzoni – simili a odi – erano intrinseche. Una voce rude, irrequieta, impetuosa che con la mente era già nelle avanguardie free form e nelle improvvisazioni jazz, eppure la presenza austera all’interno del rock’n’roll l’ha resa colonna portante della nascente new wave.

Così scrive la rockstar nel libro autobiografico “Just kids”, uscito nel 2010:

La mia missione è comunicare, risvegliare la gente, darle la mia energia e ricevere la sua. Ci siamo dentro tutti, e io reagisco emotivamente come lavoratrice, come madre, come artista, come essere umano dotato di voce. Tutti noi abbiamo una voce. Abbiamo la responsabilità di usarla.”

In realtà, Patricia voleva «essere una poetessa, non una cantante» e se non fosse stato per l’amico Robert Mapplerthorpe che le procura il reading di poesia con Gerard Malanga al St. Mark’s Poetry Project – suggerendole di poter «essere tutte e due le cose» – probabilmente non avremmo mai conosciuto l’oscuro talento della Smith.

Tra il pubblico c’erano Andy Warhol, Lou Reed e Gregory Corso, estasiati dalle parole di “Fire of Unknown Origin” e “Picture Hanging Blues”, eppure è lo sfrontato “Otah” a sorprendere tutti col verso d’apertura «Jesus died for somebody’s sins, but not mine».

Un grido di indipendenza smembrato in poche sillabe, ma dalla forze immane che fin da subito preannuncia quel che Patti sarà per la musica: «posso far brillare la mia stessa luce e l’oscurità va altrettanto bene», continua il componimento. C’è un Avanti Cristo e un Dopo Cristo, nel caso della new wave americana esiste un Avanti Patti Smith e un Dopo Patti Smith dove “Hey Joe/Piss factory” ne segna l’anno zero. «Patti Smith sopravviverà alla voglia di una nuova superstar, perché è un’artista alla vecchia maniera» scriveva Lester Bangs a proposito del primo album della cantante “Horses”.

«Patti ha capito che era arrivato il momento di unire letteratura e musica […] Il risultato non è però un lavoro di spoken-word, ma un album Rock ‘n’ Roll dall’immensa forza emotiva» aggiunge il critico musicale in “Stagger Lee Was a Woman”, Creem Magazine nel 1976. Quanto sostiene Bangs è vero: i brani struggenti, aggressivi e rock sono una commistione di free form e musica, nonostante ciò il tutto parte dal testo parlato. Le liriche tormentate si intrecciano col timbro vocale roco, punk, con quell’interpretazione aggressiva che segnerà il cambiamento del linguaggio musicale consacrando l’artista alla popolarità. E come poteva la rivista Rolling Stone non immetterla nelle sue prestigiose classifiche?

Patti Smith si posiziona al quarantasettesimo posto nella classifica dei 100 migliori artisti e all’ottantatreesimo nella lista dei più grandi cantanti.

L’archetipo del rock femminile

Il club Rodney Bingenheimer’s English disco era un night frequentato da omosessuali, travestiti, drogati, groupie, un luogo dove il glam-rock ammaliava gli assidui frequentatori tra questi c’era anche una quattordicenne di nome Joan Larkin.

Ma Joan non era una semplice adolescente, aveva qualcosa da dire al mondo, qualcosa che avrebbe ben presto creato l’archetipo del rock al femminile. Fondate nel 1975 dalla stessa artista, le Runaways sono la prima rock’n’roll composta unicamente da ragazze e che avevano uno scopo ben preciso: urlare e dimenarsi in un universo maschilista.

Purtroppo, il gruppo si scioglie quattro anni dopo a causa di divergenze artistiche, spesso fomentate da manager desiderosi di metterle l’una contro l’altra dato che una donna non può e non deve suonare il rock, un genere incasellato come troppo sessuale ed estremo per loro. Eppure a Joan non interessa perché lei vuole domare l’onda, vuole essere protagonista di un mondo che sembrava essere esclusivamente fatto da uomini.

La collaborazione con Kenny Laguna, suo co-song writers e manager, preannuncia un futuro luminoso alla cantante, seppur tutte le majors rifiutano “I love rock’n’roll”, “Bad reputation”, “Crimson and clover” e “Do you wanna touch me?”. Ciò non intacca la determinazione dei due che decidono di fondare una casa di produzione indipendente: la Black Hearts Records, guidata dalla stessa Jett.

Il disco “Bad reputation” così come i tour e la figura di Joan, una ragazza androgina che suona la chitarra elettrica, hanno un grandissimo successo. Le Major, tuttavia, continuano a non essere entusiaste di questa libertà femminile, tanto da cercare di impedire la pubblicazione del nuovo disco, ma quello che sembrava turbarli maggiormente era il balzo in avanti che fece Jett, un salto nei temi vicini alla gente comune come “Everyday people”.

Gli anni ’90, però, portano una ventata di novità, un punk rock tutto al femminile: il Riot Grrrl Movement, band composte esclusivamente da ragazze che traggono ispirazione da pioniere del genere, tra cui Joan Jett, e dall’etica “Do It Yourself”. Stupro, abusi domestici, patriarcato, sessismo, la sessualità comprendente l’omosessualità, sono i temi trattati da questi gruppi di cui l’artista stessa ne diventa appassionata sostenitrice. Non a caso, si occupa della promozione e della distribuzione di molti brani, in particolar modo con le Bikini Kill.

La cantante ha ripetuto in diverse occasioni quanto trovasse fondamentale l’aiuto tra donne nel mondo del rock’n’roll, un sistema musicale nella quale la figura di una veterana era necessaria al fine di approdare alla distribuzione globale. Nel 2015 – con non poche procrastinazioni inspiegabili – le verrà riconosciuto il posto d’onore nella Rock and Roll Hall Of Fame. E chissà, forse Joan Jett spaventa ancora le Major proprio come molti anni fa.

La Marilyn Monroe del rock

Se Marilyn Monroe si fosse incarnata in una rockstar, di certo si sarebbe chiamata Deborah Ann Harry. Cantautrice, attrice e attivista statunitense, sin dagli esordi ha combattuto il sessismo nell’industria musicale trovando l’apice, in tale lotta, nei Blondie di cui era la frontwoman.

Fondata nel 1974 con Christ Stein, la band ha da sempre cercato la formula perfetta del pop-rock. Con melodie accattivanti, hanno portato al primo posto di classifiche mondiali brani in cui il rock e la black music – disco, funk, reggae e rap – convivevano in un travolgente, e felice, sposalizio. Non soltanto nelle classifiche, furono anche tra i primi a utilizzare i sintetizzatori unendo, così, l’elettronica agli strumenti musicali, senza mai rinunciare a una sensibilità pop di fondo.

I versi cantanti da Debbie erano spesso espliciti, non semplici da interpretare a causa di improbabili neologismi come il «mucho mistrust» in “Heart Of Glass” o lo pseudo-hawaiano «my paka lola luau love» presente nel brano “In The Sun”. Ma è il personaggio Blondie a catturare la scena, un personaggio appositamente caricaturale, una parodia delle grande dive degli anni 50, eppure la Harry è stata capace di creare un nuovo stile: fascino hollywoodiano, glamour warholiano e la brutalità del punk trovavano la perfetta commistione in una personalità piena di sfaccettature come la sua.

Nonostante i Blondie si scioglieranno, nel 2006 la Rock and Roll Hall of Fame li consacrerà in un olimpo al quale il rock di oggi può solo che ammirare (e forse copiare).

La Regina del Soul

Figlia del rock’n’roll e della musica gospel, negli anni Sessanta la musica soul è un genere fattosi di spiritualità, groove, sensualità, gioia e malinconia che troverà la sua regina in Aretha Franklin. Con una voce potente, le cui radici affondano nella tradizione evangelica, l’artista era in grado di cantare brani che potevano estendersi nella parte superiore della gamma fino in fondo, permettendole di tenere note per lunghi periodi.

Dotata di una grande sensibilità ed emotività, legava quest’indole alla musica nera, al jazz diventando lei stessa musica soul. È il 1965 quando decide di dar voce non soltanto a note ben studiate, ma anche all’attivismo nero, al femminismo e alla liberazione sessuale partendo proprio dalla cover del brano “Respect” di Otis Redding. Nel testo originale, il punto di vista è quello del cantante che chiede alla compagna di essere rispettato e considerato quando torna a casa, una sorta di incoraggiamento alle donne di sottomersi ai loro uomini, oltre che rispettose.

La Regina del Soul, invece, ne inverte il significato cancellando dalla memoria di chiunque il vero messaggio. La versione di Aretha Franklin è anch’essa un invito a portare rispetto, però stavolta nei confronti delle donne, delle minoranze afroamericane ancora emarginate da alcune forme di apartheid e a quella sessualità che ognuno dovrebbe essere libero di vivere.

La cover, oggi, è considerata tra le migliori dell’era del rock’n’roll imponendosi alla prima posizione nella classifica della rivista Rolling Stone delle 500 migliori canzoni di tutti i tempi rendendo Aretha la prima donna a comparire nella lista. Questo primato lo trova anche nella Rock and Roll Hall of Fame il 3 gennaio 1987. Di sicuro, la Regina del Soul continuerà a essere prima anche nei nostri cuori.

Possono cinque donne stravolgere il mondo e l’industria musicale? A quanto pare la risposta è soltanto una ed è: sì.

— Onda Musicale

Tags: Janis Joplin, Lou Reed, Patti Smith, Blondie, Marilyn Monroe, Aretha Franklin
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