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Un disco per il week end: “La Buona Novella” di Fabrizio De Andrè

1970. Nell’Italia di 49 anni fa si respirava un’aria pesante, carica di tensione e di violenza. Il ricordo delle battaglie studentesche e sociali di due anni prima era ancora vivo.

La lotta più o meno pacifica per non lasciare cadere nel vuoto le conquiste più importanti proseguiva, ma l’ingenuo ottimismo dominante si stava già incupendo, dato che nel 1969 – con la bomba di Piazza Fontana a Milano – si era aperta la drammatica stagione delle stragi di estrema destra e di estrema sinistra, capitolo della nostra storia che avrebbe lasciato dietro di sè una lunga scia di morti, sia da una parte che dall’altra.

All’esordio degli Anni di Piombo Fabrizio De Andrè è un uomo di trent’anni, ma all’attivo ha già un buon numero di composizioni ben presto divenute patrimonio nazionale per la bellezza dei loro accordi e l’eleganza dei loro versi: tra le più celebri si annoverano “La Ballata del Miché”, “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, “La Guerra di Piero”, “Via del Campo”, “Bocca di Rosa”, “Il Pescatore”. Alcune di queste sono state pubblicate come singolo, altre le ritroviamo nei suoi primi LP (Tutto Fabrizio De Andrè, Volume I, Tutti Morimmo A Stento e Volume III).

Circa la nascita de La Buona Novella sono significative le parole che il cantautore genovese espresse in occasione di un concerto tenutosi al Teatro Brancaccio di Roma nel Febbraio 1998, poco prima della scomparsa: ricordava come a suo tempo molti commentatori gli avessero fatto notare di avere scritto e composto un’opera che non era affatto al passo con i tempi. Trovare anacronistico un disco che parlava dei Vangeli e soprattutto della figura di Gesù Cristo, quando la protesta ricorreva a slogan, immagini e canzoni di tutt’altro stampo, era un’osservazione abbastanza superficiale, di chi non ne aveva capito l’anima.

De Andrè aveva risposto dicendo che tra la protesta studentesca e giovanile e la figura di Cristo, nonostante la diversa caratura spirituale, vi erano diversi punti di contatto, particolarmente nel fatto che entrambi agivano o avevano agito per difendere l’eguaglianza e la dignità degli esseri umani contro questioni da sempre scomode come i soprusi e gli abusi di potere commessi dall’autorità, non a caso definita come “potere vestito d’umana sembianza”, per definizione privo di sentimenti (“Il potere che cercava il nostro umore uccideva nel nome d’un dio, nel nome d’un dio  uccideva un uomo: nel nome di quel dio si assolse”) ma in compenso animato da una volontà di controllo capillare della società, per carpire le intenzioni delle sue classi più basse e umili (e qui viene in mente il George Orwell di 1984)

La sovrapposizione tra il I secolo e il XX si traduce in un Gesù dalla coloritura anarchica e libertaria(“il più grande rivoluzionario di tutti i tempi” disse De Andrè), perché al Messia sono riferiti i versi eloquenti: “tre croci, due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare”. Nel 1970 si era ancora nel pieno dei dibattiti riguardo alla liceità dell’obiezione di coscienza come modo di sottrarsi a quello che veniva considerato come l’incontestabile dovere della difesa in armi della Patria (il nesso con le parole di “Dio è morto”, grandissimo successo de I Nomadi, qui è evidente).

Riguardo alla figura di Gesù è importante ricordare che ne La Buona Novella non viene mai nominato per nome né è protagonista assoluto delle scene contenute nelle singole canzoni, ma è una presenza che si intuisce in relazione ai vari personaggi della storia, una narrazione intessuta sulla scorta non dei Vangeli canonici – quelli che la Chiesa considera come ispirati – ma di quelli apocrifi (“apocrifo” inizialmente indicava un insegnamento rivolto a pochi iniziati). Gli apocrifi sono i Vangeli di Pietro, Nicodemo, Filippo, Giacomo, e Tommaso, tutti testi datati al II – III secolo d.C. e provenienti dall’Oriente.

La scelta degli apocrifi – oltre a fornirci dettagli assenti dai canonici come il nome dei due ladroni (Dímaco e Tito, quest’ultimo protagonista di una sublime canzone in cui il personaggio rilegge la sua vita alla luce dei dieci comandamenti, per tirare un bilancio delle azioni compiute) – produce l’effetto di raffigurare i soggetti della storia sacra in una prospettiva più umana e terrena, cosa che di certo non è mancata ad essi, ma che nei Vangeli canonici non trova largo spazio.

L’umanità dei personaggi, anche di quelli ritenuti più spregevoli, viene paradossalmente potenziata da questo contenimento del sacro, e risalta in tutte le sfumature del sentimento grazie alla raffinatissima capacità dell’artista ligure di cesellare con inusitata maestria cosa vive nel cuore di una persona, cosa la turba, cosa la addolora.

Di Maria, la figura protagonista de La Buona Novella, ne percepiamo lo spaesamento al sentire le parole dell’Arcangelo Gabriele che le annuncia l’imminente maternità del Figlio di Dio, la vediamo quasi sgomenta mentre si accolla la realizzazione di una volontà che percepisce più grande di lei e che quasi la schiaccia (“AveMaria”): la sensazione è confermata dalla figura di Giuseppe che – per contrasto con Maria, giovanissima ragazza, risalta in tutto il peso della sua anzianità: “E mentre te ne vai, stanco d’essere stanco, la bambina per mano la tristezza di fianco, pensi: “Quei sacerdoti la diedero in sposa a dita troppo secche per chiudersi su una rosa a un cuore troppo vecchio che ormai si riposa”.

Tra i momenti più intensi non si può dimenticare il calvario che raccontano i versi di “Via della Croce” e “Tre Madri”, quest’ultima il picco delle emozioni che questo gioiello ci regala, dato che si va assai vicino alla commozione più autentica: “Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l’immagine d’un’agonia: sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno: lascia noi piangere, un po’ più forte, chi non risorgerà più dalla morte”. In stupefacenti parole la grandezza dell’umanità nella sua pienezza, cosa che contempla anche il dolore e la sofferenza.

Sotto il profilo orchestrale ed esecutivo La Buona Novella risplende grazie all’intervento di Gian Piero Reverberi, compositore a lungo collaboratore di De Andrè, in questa sede autore delle parti in cui sono presenti gli archi oppure il pianoforte. L’intervento di basso, batteria e chitarra è opera de I Quelli, un gruppo che a partire dal 1971 sarà conosciuto con il nome di Premiata Forneria Marconi, leggenda del Progressive Rock a livello nazionale e mondiale.

Nel 1970 vi militavano Mussida (chitarra) e Di Cioccio (batteria). Le sedute de La Buona Novella favorirono l’ingresso di Mauro Pagani (ottavino) nella formazione, imprimendo una forte accelerazione alla storia del gruppo. Ma questa è un’altra pagina della Storia della Musica.

— Onda Musicale

Tags: Fabrizio De Andrè, La Buona Novella
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