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“Atom Heart Mother”: la svolta prog dei Pink Floyd

I Pink Floyd

Partiamo da Lulubelle III, la mucca che compare nell’ormai iconica copertina di “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd. L’animale apparteneva ad Arthur Chalke – che invano proverà a chiedere un compenso – ed era di razza frisona.

L’importanza di Lulubelle III va al di là del semplice fatto di essere divenuta con gli anni una vera leggenda; la copertina di “Atom Heart Mother” spiega di per sé il periodo e la voglia di cambiamento della band.

Dopo A Saucerful Of Secrets e Ummagumma, i Pink Floyd si erano costruiti una solida fama di grandi sperimentatori, dediti allo space rock e alla psichedelia; beh, i ragazzi volevano disfarsi di quella nomea, dovuta anche alle celebri copertine lisergiche dello Studio Hipgnosis. Fu così che l’amico Storm Thorgenson – abituato alle bizzarrie della band – si trovò di fronte una richiesta a suo modo ancora più peculiare, ossia quella di una copertina il più possibile normale, che non evocasse lo spazio e senza riferimenti psichedelici. E cosa c’era di più placido e banale di una paciosa mucca pezzata in un verde campo inglese?

Ispirazione

Storm, a quanto pare, prese l’ispirazione da Andy Warhol e dalla sua carta da parati con le mucche e, nonostante il parere negativo della EMI, il risultato fu sorprendente: “La copertina faceva una gran figura, in mezzo alle altre dell’epoca che cercavano di attirare l’attenzione in modo provocatorio. La mucca attirava lo sguardo più di quanto potessi sperare: era diversa perché così normale.” ebbe a dire proprio Storm.

Il 1970 fu un anno di attività febbrile per i Pink Floyd, dominato però anche da una certa confusione. “Ummagumma”, con la sua democratica divisione dei pezzi, era uscito appena l’anno prima, seguito dalla collaborazione con il maestro del cinema Michelangelo Antonioni per “Zabriskie Point”: un impegno tanto duro quanto poco fruttuoso, soprattutto per la volubilità del regista.

In un live di inizio anno a Parigi, il 23 gennaio, venne proposta una prima, embrionale, versione della suite “Atom Heart Mother”, senza orchestra e col titolo provvisorio di “The Amazing Pudding”; i primi prodromi dell’opera vanno probabilmente ricercati nelle sessioni di “Zabriskie Point”, con Gilmour che se ne venne fuori con una sequenza di accordi di stampo western.

Fu Waters a dare il primo nome di “Theme For An Imaginary Western”

Curiosamente lo stesso titolo di un pezzo del primo album di Jack Bruce, reso immortale dai Mountain; tra i due brani non c’è ovviamente nessun collegamento.

All’epoca, però, uno dei progetti dei quattro giovani era quello di collaborare con un’orchestra, mescolando musica rock e classica in un crossover che sarebbe diventato un cliché del rock progressivo. Allora l’esperimento era ancora abbastanza nuovo, tentato in particolare dai Procol Harum, dai Moody Blues, dai The Nice e dai Deep Purple.

Tuttavia nessuno dei musicisti era in grado di leggere la musica – a parte Wright – e di sobbarcarsi un simile lavoro con una vera orchestra; la risposta la trovò Waters, nella sua amicizia con Ron Geesin, un giovane musicista dedito alle più varie avanguardie, dalla musica classica alla concreta, passando per la nascente elettronica.

I due avevano collaborato per la colonna sonora del film “The Body” e avevano presto legato grazie al comune interesse per la musica e – soprattutto – alla passione per il golf.

Quando in primavera il gruppo partì per un lungo tour negli Stati Uniti, l’ossatura della futura “Atom Heart Mother” fu lasciata nelle mani di Geesin, che la rimaneggiò a tal punto da farne quasi un’opera propria, tanto da rimanere deluso dal fatto che nei crediti di copertina il suo nome fosse citato dopo quello della band.

Ron avrebbe infatti preferito la dicitura “Atom Heart Mother di Ron Geesin con la collaborazione dei Pink Floyd”. Una pia illusione la sua, forse anche immotivata, ma che fu motivo di un risentimento decennale, appianatosi solo negli ultimi anni e a quel punto mancava solo il titolo, e ancora una volta fu Roger Waters a risolvere la situazione: leggendo un quotidiano, rimase colpito dalla notizia di una donna che aveva partorito pur essendo afflitta da problemi cardiologici che avevano richiesto l’installazione di un pace-maker atomico; o meglio, più che la notizia, a colpire Waters fu il titolo: “Atom Heart Mother Named”.

Il disco uscì il 2 ottobre del 1970 ed ebbe immediato successo

N°1 nel Regno Unito e 55 negli Stati Uniti. All’epoca era il miglior risultato in classifica dei giovani Pink Floyd. La prima facciata del vinile era interamente occupata dalla suite che dà il titolo al lavoro, la seconda ospitava tre canzoni abbastanza tradizionali e la sperimentazione riuscita a metà di “Alan’s Psychedelic Breakfast”, un pezzo che il complesso eseguiva fin dai tempi delle suite “Journey” e “The Man”.

Atom Heart Mother” è divisa in sei movimenti e si apre con quello denominato “Father’s Shout”, di cui Ron Geesin rivendica la totale paternità. Si tratta di un crescendo di suoni orchestrali, quasi disordinati, fino a quando la sezione degli ottoni mette ordine tracciando l’epica melodia, – quella quasi da spaghetti western – poi entrano in scena una serie di effetti ambientali. Cavalli al galoppo, esplosioni e il rombo di una moto preannunciano la ripresa della melodia.

Arriviamo a “Breasty Milk”, la seconda parte, con un duetto tra l’organo arpeggiato di Richard Wright e un violino. Poco dopo entra, maestosa, la slide guitar di David Gilmour con tutti gli altri strumenti. Uno dei momenti più lirici e suggestivi dell’album.

La parte successiva, “Mother Fore”, è dominata dai cori e dai sapienti arrangiamenti di Ron Geesin. Da rimarcare – poco dopo i nove minuti – lo splendido ingresso della batteria di Nick Mason, uno dei momenti più alti ed emblematici dell’incontro tra rock e classica.

All’improvviso l’atmosfera cambia completamente con “Funky Dung”, un irresistibile groove funky di basso e organo, forse frutto anche questo delle session di “Zabriskie Point”, su cui si staglia l’ispiratissima chitarra di David Gilmour che tira fuori sonorità blues pulitissime. Forse il momento migliore dell’intera suite, almeno per gli appassionati del rock.

La parte successiva, “Mind Your Throats Please”, riprende in parte alcune trovate della colonna sonora di “The Body”, con inserti ambientali e rumoristici a cura di Mason e Waters e l’utilizzo del piano filtrato dall’amplificatore Leslie, che sarà ripreso largamente in “Meddle”.

La parte finale, “Remergence”, si prende la responsabilità si riannodare un po’ tutti i fili pendenti lasciati in precedenza; Ron Geesin la riteneva la parte più riuscita, probabilmente sia per il predominio dell’orchestra che per l’inserimento di un’ulteriore melodia di suo conio. Anche in questa fase la chitarra di Gilmour fa scintille, conducendo le danze per larghi tratti.

La seconda facciata del vinile è divisa – un po’ come per “Ummagumma” – equamente tra i membri del gruppo, tranne Nick Mason, che non ha mai fatto mistero delle sue scarse fantasie compositive. Abbiamo così “If” di Roger Waters, “Summer ‘68” di Wright e “Fat Old Sun” di David Gilmour.

“If” è una bellissima ballata con chitarra arpeggiata e con la voce di Waters quantomai carezzevole; solo successivamente entrano gli altri strumenti, ma sempre in modo poco invadente. Se le liriche sono ispirate all’omonima poesia di Kipling, è pur vero che il testo potrebbe essere considerato il primo esito degli annosi sensi di colpa di Roger verso Syd Barrett.

“Summer ‘68” è uno dei pochi contributi compositivi a tutto tondo di Richard Wright, come sempre però molto validi; è una ballata dai sapori tra il beat e la psichedelia, che fa un po’ da anello di congiunzione tra il vecchio corso e la svolta prog del disco.

“Fat Old Sun” è un’altra ottima ballata malinconica di David Gilmour, introdotta dalle stesse campane di “Big Black Smoke” dei Kinks, e ricorda anche un altro brano dei fratelli Davies: “Lazy Old Sun” a cui Gilmour ammise di essersi forse ispirato involontariamente. Il testo è molto nostalgico, come capiterà sempre più spesso ai Pink Floyd, e torna a un’età giovanile vista quasi come idilliaca. Il brano avrà grande fortuna dal vivo, essendo spesso ripreso in versioni molto dilatate. (leggi l’articolo)

Il disco si chiude con la lunga e sperimentale “Alan’s Psychedelic Breakfast”, ripresa dalla vecchia suite “The Man”; rumori ambientali di un uomo che prepara una colazione all’inglese si mescolano a stacchi strumentali non troppo centrati. Un esperimento non del tutto riuscito e di difficile ascolto.

Le nostre conclusioni

“Atom Heart Mother” è in definitiva un lavoro imprescindibile nella discografia dei Pink Floyd – anche se probabilmente non il più riuscito – e del rock in generale. Pur se invecchiato non benissimo e oggetto di pareri contrastanti da parte dei Pink Floyd stessi, è sicuramente uno dei loro lavori più iconici e leggendari.

Nonostante all’inizio la band fosse entusiasta di suonare la suite dal vivo, col passare del tempo le opinioni andarono maturando in senso negativo: “Se qualcuno ora mi dicesse – bene, se esci sul palco e suoni “Atom Heart Mother” ti darò un milione di sterline – io gli risponderei: ma che cazzo di scherzo è?” disse come sempre in modo tagliente Roger Waters; per David Gilmour il disco è un “mucchio di rifiuti” e “una vera porcheria”, specie riguardo alle due suite che aprono e chiudono il disco. Anche Mason si disse poco contento del risultato, attribuendo la colpa alla scarsa attenzione ai dettagli dovuta ai troppi impegni nei vari tour.

Per noi, anche dopo cinquant’anni, “Atom Heart Mother” rimane comunque uno dei più esaltanti capitoli della leggendaria avventura dei Pink Floyd.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, David Gilmour, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason
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