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“Selling England by the Pound”: la summa prog dei Genesis

Siamo nel 1973, nel pieno del periodo d’oro del movimento del rock progressivo, un universo multiforme e colto dove i Genesis si sono guadagnati un posto d’eccellenza.

Il 12 ottobre – sebbene alcuni riportino il 28 settembre come data – esce “Selling England by the Pound”, il quinto album della band di Peter Gabriel. Forse quello più importante.

I Genesis, fin da “Nursery Cryme” del 1971, si sono assestati nella formazione col quintetto delle meraviglie composto da Peter Gabriel alla voce, flauto e tamburello, Phil Collins alla batteria e alla voce, Tony Banks alle tastiere e ai sintetizzatori e cori, Mike Rutherford ai cori, il basso e spesso alla chitarra a 12 corde, e Steve Hackett, prodigioso chitarrista acustico ed elettrico. Il disco, dopo un esordio stentato in madre patria, fa faville in altri paesi europei, Belgio e Italia in primis, e fa da apripista a “Foxtrot”, capolavoro prog contenente la celebre suite “Supper’s Ready” che da sola occupa quasi per intero la seconda facciata del lavoro. Il successo finalmente arride al gruppo, anche se non ancora nelle proporzioni oceaniche dei lavori successivi, e il seguente tour si spinge per la prima volta negli Stati Uniti.

La Charisma, l’etichetta discografica che in un certo senso ha salvato anni prima i Genesis dopo la deludente esperienza con la Decca, concede ai musicisti un meritato periodo di riposo e il tempo per preparare, con tutta calma, l’episodio successivo.

Nasce così “Selling England by the Pounds”; non sta a noi dire se si tratti del capolavoro dei Genesis, certo è quello che esce nel loro periodo di massima creatività, con un Peter Gabriel sempre più istrionico nei suoi travestimenti e dei musicisti di grande talento che – se da una parte iniziano ad avere qualche screzio tra loro – sono al top della forma. Gabriel e soci, non dimentichiamolo, sono allora poco più che ventenni, e sono tuttavia pronti ad affrontare un lavoro monumentale, nei testi impegnati e nella struttura musicale sempre più complessa.

La proposta dei Genesis brilla di luce propria nel vasto panorama prog del periodo; la voce di Peter Gabriel, incredibilmente matura per un ragazzo di 23 anni, sfoggia un timbro estremamente riconoscibile e unico, e una tecnica che gli permette di passare da un registro espressivo all’altro in scioltezza; le atmosfere delle loro lunghe canzoni sono suggestive, tanto da trasportare l’ascoltatore in un mondo parallelo ed evocativo, fatto di momenti classici e barocchi – ma il loro è un “barocchismo” mai gratuito – e di repentine accelerazioni rock, ai limiti dell’hard. Il virtuosismo degli strumentisti non è mai fine a sé stesso, ogni intervento costituisce un puntello nella solida architettura dei loro pezzi: se solo si togliessero poche note tutto rischierebbe di crollare. Alcuni a solo del disco sono inoltre entrati nella storia, pur senza proporre gli eccessi di tanti gruppi coevi, come la parte di chitarra di Steve Hackett in “Firth of Fifth”.

La copertina ospita un dipinto della pittrice inglese Betty Swanwick intitolato “The Dream”, al quale Gabriel si ispirò per il testo di “I Know What I Like (In Your Wardrobe)”; al quadro la pittrice aggiunse – su esplicita richiesta della band – un tosaerba di fine ‘800, citato nel testo della canzone.

Non rimane allora che mettere questo “Selling England by the Pound” sul piatto, posizionare la puntina e partire per le lontane terre incantate della musica dei Genesis.

L’album si apre con uno dei pezzi più iconici della discografia della band, “Dancing With the Moonlit Knight”, che Peter Gabriel usava eseguire dal vivo nel costume della “Britannia”, antica versione dell’Inghilterra. L’avvio è tutto per l’ugola d’oro di Peter.

Cantando a cappella, la voce dei Genesis riesce a calare istantaneamente l’ascoltatore in un clima quasi medievale; il suo canto è puntellato dai delicati fill di chitarra di Steve Hackett, sempre preciso e puntuale. Già nelle prime strofe Gabriel pronuncia la frase che dà il titolo al disco, “Selling England by the pound”, ovvero “vendere l’Inghilterra alla libbra”, un’espressione che appariva in un manifesto laburista dell’epoca con l’intenzione di denunciare lo svilimento capitalista della nazione. Lungi dal calarsi apertamente in polemiche politiche, il pezzo è comunque pervaso da una forte critica sociale.

Dopo l’inizio così sospeso nel tempo, entrano tutti gli strumenti e la strofa si ripete, per poi lasciare spazio a un’improvvisa esplosione ai limiti dell’hard rock, con Hackett che si cimenta con la tecnica del tapping, resa poi celebre dal metal; il chitarrista aveva già utilizzato questa tecnica e alcuni ritengono sia stato il primo a impiegarla in ambito rock.

Il pezzo è un susseguirsi di assoli di chitarra e tastiere, di stampo prettamente prog, col grande lavoro ritmico di Phil Collins e di Rutherford; il tutto rimane però nei confini del buon gusto, senza abbandonarsi a eccessivi barocchismi, rischio sempre in agguato col rock progressivo.

Dopo un attacco così memorabile, otto minuti di puro prog della miglior specie, ci si rilassa con “I Know What i Like”, pezzo introdotto dallo spoken di Phil Collins e che anticipa in parte il futuro più pop e commerciale della band, con un basso rotolante di Rutherford che pare quasi accennare la disco music di là da venire. Il testo è un sarcastico ritratto di Jacob, disoccupato e scansafatiche, refrattario alle regole sociali e tradizionali britanniche, di cui però è rigidamente permeato. Il ritornello è estremamente accattivante, catchy, diremmo oggi: melodico e che si stampa subito in testa, tanto che il pezzo diventerà un cavallo di battaglia anche dal vivo, come momento distensivo e col ritornello da cantare assieme al pubblico. Peter Gabriel non lo amava particolarmente, lo riteneva un po’ noioso.

Il tempo di sfumare e il leggendario piano di “Firth Of Fifth” si fa subito largo: è l’inizio di una delle cavalcate prog più conosciute dei Genesis. La parte pianistica iniziale, una piccola fuga, era stata composta già da tempo da Tony Banks ma era stata scartata dalla scaletta di “Foxtrot”. La difficoltà esecutiva è abbastanza importante, tanto che il tastierista la eliminò dalla parte live dopo essere inciampato durante una performance dal vivo.

Entrano gli altri strumenti e la solita, trionfale voce di Gabriel che declama con sicurezza un testo con riferimenti medievali, – mentre il titolo è uno dei suoi celebri giochi di parole su un fiordo scozzese – poi si entra nel vero cuore della composizione, con le lunghe parti strumentali. Gabriel inaugura la sezione con una delle sue performance più conosciute al flauto, sciorinando un tema dalla bellissima melodia classicheggiante. Ancora una parte strumentale più corale e arriviamo a uno dei momenti clou di tutto il repertorio dei Genesis, l’assolo di Steve Hackett. Il chitarrista riprende magistralmente il tema già proposto dal flauto di Peter Gabriel, ampliandolo a dismisura e offrendo una sezione che fa venire i brividi ancora oggi: è forse il più bel solo di chitarra di tutto il rock progressivo.

Con la sua Gibson Les Paul attrezzata con un doppio distorsore che allunga all’infinito il sustain delle note, senza però attenuare la rotondità perfetta del suono, Hackett mette a segno pochi minuti in cui suona l’assolo della vita, un mix di melodia e suggestione con pochi eguali. Il pezzo si conclude con la ripresa del tema iniziale. Chapeau.

La prima facciata si chiude con l’acustica “More Fool of Me”, cantata per intero da Phil Collins; a quanto pare, Gabriel, che non amava questa canzone, si rifiutò di cantarla. Si tratta di una ballata per chitarra e voce, dolce e quasi bucolica ma – effettivamente – dalla consistenza abbastanza evanescente; sicuramente buona per tirare un po’ il fiato dopo la cavalcata prog precedente e in attesa di voltare il vinile.

Si riparte subito a ritmo di marcia con un altro pezzo totalmente prog: “The Battle of Epping Forest”. L’ispirazione per il lungo brano, come noto, venne a Gabriel leggendo di una grottesca battaglia tra band giovanili alla periferia di Londra; su questo tema, il buon Peter incastra la storia di un ex-sacerdote corrotto da sesso e denaro. La prestazione del vocalist è debordante – forse fin troppo, per alcuni – riproponendo il suo stile espressivo che gli permette di dar vita ai vari personaggi, quasi come in un musical. Le parti strumentali sono prettamente prog, con continui cambi di ritmo e d’atmosfera, passando da momenti cupi, sottolineati in particolare dall’organo, a momenti più solari. Un grande pezzo in cui tutti i musicisti hanno occasione di mostrare la loro tecnica, tuttavia meno equilibrato di altre minisuite: la sensazione è che qualcosa abbia un po’ preso la mano a Gabriel, forse il testo risulta un po’ ridondante e alla fine i musicisti non furono particolarmente soddisfatti del risultato, al netto di una composizione che rimane comunque uno dei momenti più puramente progressive del repertorio dei Genesis.

La successiva “After the Ordeal” è di nuovo un momento di alleggerimento tra due epiche cavalcate prog; il pezzo strumentale è una creazione di Hackett, dalle atmosfere classicheggianti, come si comprende già dal titolo che rievoca la pratica dell’ordalia, il cosiddetto “giudizio di Dio”. Dopo un’intro acustica arriva il tema centrale, condotto dalla sei corde elettrica di Steve e annunciato dall’ingresso della batteria di Collins; di nuovo una melodia cristallina che lascia senza parole per la sua bellezza. Il brano era inviso, a testimonianza di qualche prima scintilla tra i musicisti, al tastierista Tony Banks, che pure vi suona da par suo il piano.

C’è ancora tempo, in questa seconda facciata per alcuni troppo lunga, per un capolavoro: “The Cinema Show”. Il testo è una versione in chiave moderna di “Romeo e Giulietta”, incastrata con una rivisitazione del mito greco di Tiresia, a testimonianza di riferimenti colti sempre in primo piano. La parte iniziale è estremamente delicata, con la chitarra che arpeggia e la voce carezzevole di Gabriel che narra la vicenda dei due innamorati; parte anche un assolo di chitarra piuttosto dimesso, mentre Collins conduce la sezione ritmica senza particolare nerbo. All’improvviso, una solenne pennata di Rutherford alla 12 corde annuncia la sezione centrale; la musica prende un ritmo concitato che, nelle intenzioni, allude al rapporto sessuale tra i due protagonisti. L’intero segmento è appannaggio di Banks, Rutherford e Collins, rimasti forse più in ombra in precedenza; una cavalcata di cinque minuti in cui è specialmente Banks, col suo armamentario di Hammond, mellotron e sintetizzatore ARP presettato a farla da padrone, anche se l’apporto ritmico di Collins e Rutherford è sempre inappuntabile.

Il finale, come a evocare la circolarità di un concept album – anche se la concettualità del racconto è qui piuttosto flebile, non essendo i pezzi davvero collegati in una storia coesa – viene ripreso il tema iniziale in chiave più acustica e delicata, con “Aisle of Plenty”, che chiude in modo degno uno dei più incredibili album della storia del rock progressivo e, in definitiva, del rock tutto. Ci sarà ancora spazio per il vero album concept dei Genesis, “The Lamb Lies Down on Broadway”, ultimo capolavoro prima dello scisma che vedrà Peter Gabriel uscire dal gruppo alla ricerca di sperimentazioni slegate dal successo commerciale che pure gli arriderà sempre.

Ma questa, come si dice solitamente, è tutta un’altra storia.

— Onda Musicale

Tags: Genesis, Selling England By The Pound, Phil Collins, Peter Gabriel, Steve Hackett, Foxtrot
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