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“Stormbringer”, la svolta funk dei Deep Purple e l’addio di Blackmore

Quando, nel 1973, la gloriosa formazione Mark II dei Deep Purple si era ritrovata azzoppata dopo le defezioni di Ian Gillan prima e di Roger Glover poi, pochi avrebbero scommesso sul futuro della band; il successo di “Burn” aveva in parte smentito i più pessimisti.

L’innesto del nuovo bassista Glenn Hughes, proveniente dai Trapeze e dotato di una voce dai registri alti e dal timbro duttile e pulito, e di David Coverdale, vocalist dalle caratteristiche complementari a quelle di Glenn e dalla presenza scenica importante, avevano portato una ventata di freschezza.

“Burn” aveva venduto molto bene, portando avanti lo stile hard rock e proto metal che aveva giustamente reso leggendaria la band, al netto di qualche venatura soul e blues portata in dote dai nuovi cantanti. Blackmore e soprattutto Lord sembravano però leggermente depotenziati rispetto ai loro contributi e il consueto tasso d’innovazione per cui i Deep Purple spostavano a ogni disco l’asticella un po’ più in su, pareva venuto essere meno. “Burn” era un ottimo disco, fatto di alcune grandi canzoni e con la novità della doppia voce, tuttavia segnava una certa stasi sotto il profilo compositivo.

Arriviamo al novembre del 1974: pochi mesi dopo “Burn” arriva il seguito, “Stormbringer”. Le tensioni in fase compositiva e in sala di registrazione – soprattutto tra il bizzoso chitarrista Ritchie Blackmore e David Coverdale – sono importanti; il primo preme per mantenere un elevato tasso di epicità nei testi e nelle atmosfere, oltre a insistere sul suono hard che ha fatto la storia del gruppo. Coverdale gli tiene spesso testa sulla questione della stesura delle liriche e – spalleggiato anche da Hughes – vorrebbe a livello musicale indirizzare la direzione verso un sound fortemente orientato al soul, al funky e alla musica nera in generale.

Le scintille portano a un compromesso non troppo produttivo.

Diviso tra pezzi tradizionalmente duri e passaggi pesantemente funk, “Stormbringer” risulta un disco poco coeso e vittima di una dicotomia progettuale che ne pregiudica la completa riuscita.

Intendiamoci, presi uno per uno i pezzi sono quasi tutti validi, a parte qualche palese scivolone, tuttavia la band risulta priva di una vera direzione artistica, divisa tra brani quasi metal – la title track – e pezzi al limite dell’AOR americano (“Hold On”), che strizzano l’occhio all’airplay radiofonico d’oltreoceano.

Il risultato non si fa attendere: prendendo a pretesto il mancato inserimento di una cover del gruppo prog dei Quatermass, Blackmore sbatte la porta e se ne va. Fonderà i Rainbow, band dove finalmente potrà spadroneggiare come meglio crede e che otterrà buoni risultati, almeno inizialmente. Anche il mercato si mostra piuttosto tiepido e “Stormbringer” non rinnoverà del tutto i successi precedenti dei Deep Purple.

Il gruppo decide comunque di andare avanti sulla strada del funk e sostituisce il carismatico Blackmore col giovane e talentuoso Tommy Bolin; afflitto da cronici problemi di tossicodipendenza, il chitarrista farà in tempo a licenziare il discreto “Come Taste the Band”, prima di morire di overdose, chiudendo con la sua tragedia la prima parte della carriera dei Deep Purple.

Come suona “Stormbringer”

Il disco è prodotto dal celebre Martin Birch, tecnico del suono che si era fatto le ossa col primo rock blues – i Fleetwood Mac di Peter Green in particolare – e che diventerà il numero uno tra i produttori metal.

Il long plain si apre col pezzo che dà il titolo alla raccolta, “Stormbringer”, e che forse risulta il brano più riuscito. Immaginiamo la reazione del fan dei Deep Purple che si fosse ritrovato a mettere sul piatto il vinile in quel novembre del 1974: probabilmente la reazione sarebbe stata quella dell’entusiasmo più genuini. “Stormbringer” è infatti un pezzo in perfetto stile Deep Purple, degno delle pagine migliori.

Una serrata sezione ritmica che anticipa il metal, su cui Coverdale detta legge con la sua vocalità potente e con Blackmore che ci dà dentro con fill di chitarra azzeccati e con un assolo che forse rappresenta il suo canto del cigno all’interno della formazione; il suono è distorto e i fraseggi serrati senza arrivare al parossismo. Unico neo è forse il contributo troppo defilato di Jon Lord, che punteggia qua e là il pezzo ai sintetizzatori. Un’apertura coi fiocchi.

Purtroppo già con la successiva “Love Don’t Mean a Thing”, il nostro ipotetico ascoltatore anni ’70 rischia di farsi andare di traverso l’immancabile birra da metallaro doc; trainato da un riff d’organo piuttosto leggerino, il pezzo sfoggia un andamento tra il pop e il funky e non basta una prestazione sopra le righe di Coverdale, tutta di gemiti e urletti, per risollevare il tenore del brano; quando arriva il turno di Hughes la situazione si fa ancora più fosca, un incrocio sbilenco tra Stevie Wonder e i Traffic. Non a caso, il contributo di Blackmore si limita alla coda strumentale, risolta con un suono quantomai pulito e qualche fraseggio blues: non certo quello che i fan si aspettano dal pirotecnico chitarrista, sicuramente sottotono in questo pezzo.

La successiva “Holy Man” si apre con suggestioni beatlesiane e la chitarra slide di Blackmore che cita quella di Harrison. La parte cantata è appannaggio di Hughes, che reclamava spazio maggiore e non di occuparsi solo di basso e armonie vocali. Il risultato non è disprezzabile e si colloca tra le ballate quasi melodiche della band, non sfigurando ma certo non facendo nemmeno nulla di memorabile; il ritornello quasi country suona peculiare e il contributo strumentale di Blackmore e Lord risulta sfumato. Sono lontani i tempi dei duelli chitarra – organo risolti in sterminate cavalcate.

“Hold On” prosegue mostrando forse troppa leggerezza e ancora la voce di Hughes a farla da padrone; nel ritornello pare quasi di ascoltare band come Electric Light Orchestra ibridati con gli ZZ Top all’inizio del loro periodo più commerciale. L’assolo di Blackmore, con inaspettati risvolti melodici, suona tanto come il compitino svolto in maniera egregia ma senza nessuno slancio; la breve parte d’organo di Lord non fa che aumentare il rimpianto per il passato: siamo più dalle parti degli Steely Dan che delle selvagge cavalcate di Manzarek e dei Doors; sono i tempi che cambiano, ma un po’ di nostalgia viene anche ora.

“Lady Double Dealer”, dopo tre pezzi ad alto tasso glicemico, risolleva un po’ il morale dei più rockettari; si tratta di un robusto hard rock dall’andamento veloce e sostenuto. Il ritornello coi coretti e la melodia spiccata fa da contraltare risultando però gradevole. Blackmore, evidentemente più a suo agio, sciorina un assolo dei suoi, con tanto di uso della leva del vibrato in maniera kitsch come ai bei tempi della Mk II. Un bel brano sostenuto che in “Stormbringer” fa quasi la figura del cavallo di battaglia: in “Machine Head” sarebbe stato probabilmente un riempitivo.

La successiva “You Can’t Do It Right (With the One You Love)” torna a pestare il pedale dell’acceleratore sul funk. Le voci di Coverdale e Hughes si alternano efficacemente e si armonizzano nei coretti del ritornello, il ritmo è sostenuto e il risultato è buono. Il disperso Jon Lord torna a fare capolino con un assolo al sintetizzatore che non lascia certo il segno, mentre Blackmore – come in quasi tutti gli episodi funk – risulta decisamente defilato.

“Highball Shooter” si apre con un bel riff blues – un po’ alla “Lazy” – e va avanti sostenuta offrendo una prova abbastanza in tono con i Deep Purple più tradizionali e con le voci di Hughes e Coverdale che si alternano come sempre con efficacia. A metà pezzo parte l’assolo d’organo di Lord, preannunciato dallo stacco di batteria di Ian Paice, e sembra veramente di essere tornati ai bei tempi. A latitare un po’ stavolta è la chitarra di Blackmore, tuttavia il brano risulta ben riuscito.

Il disco si chiude riprendendo quota con due belle ballate. La prima è “The Gypsy”, sostenuta da un bel riff e da una ritmica rocciosa che fa da base a una melodia epica che ricorda certe cose dei primi tempi della band (la bella e misconosciuta “Hallelujah”).

L’assolo offre una rara prestazione di Blackmore alla slide, dove il chitarrista si doppia da solo in sovraincisione; nulla di trascendentale ma abbastanza evocativo.

La chiusura del disco spetta a “Soldier of Fortune”, ballata malinconica dai temi epici, insolita nel repertorio della band ma curiosamente assurta a vero oggetto di culto, coverizzata da svariate band, tra cui gli Opeth e i Whitesnake dello stesso Coverdale.

Aperta dalla chitarra classica di Blackmore, la canzone è cantata in modo sofferto e ineccepibile da Coverdale e deve forse qualcosa a livello di struttura alla bellissima “Waiting Around to Die” del grande Townes Van Zandt, sottovalutato artista folk.

La parte di chitarra elettrica è molto misurata e lascia forse qualche rimpianto per quella che poteva essere un’altra “Child in Time”, se non la “Stairway to Heaven” dei Deep Purple.

“Stormbringer” è insomma un disco dignitoso, con alcune ottime canzoni e altre decisamente dimenticabili, inciso da un gruppo che ormai non riusciva più a sopperire con la tecnica e il mestiere agli aneliti troppo discordanti dei vari componenti. A metà anni settanta il triangolo dell’hard rock inglese, composto dai Deep Purple, i Led Zeppelin e i Black Sabbath, era praticamente smantellato. Il gruppo di Page e Plant era passato a dischi sempre più complessi e sperimentali, forse impossibilitato a replicare i primi quattro capolavori; i Black Sabbath stavano virando decisamente all’heavy metal.

I Deep Purple – schiavi di cronici problemi interni – tentarono la chiave del funk, ma i fatti gli diedero torto e, nonostante dei buoni dischi, la band – dopo la morte di Bolin – tornerà in studio solo nel 1984.

— Onda Musicale

Tags: Whitesnake, Heavy metal, Rainbow, Stairway to Heaven, Deep Purple, Hard rock, Soul, Rock, Funk, Blues
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