Il 18 novembre del 1974 usciva il sesto disco dei Genesis, per alcuni, il capolavoro della band.
Fa quasi impressione pensare che tra il timido esordio di “From Genesis to Revelation”, primo album targato Genesis del 1969, e il loro complesso capolavoro “The Lamb Lies Down on Broadway”, uscito nel novembre del ’74, fossero passati solo cinque anni.
E invece era proprio così e il 18 novembre del 1974 usciva il sesto disco dei Genesis, il più lungo, il più ostico e, per alcuni, il capolavoro della band di Peter Gabriel e soci.
Il concept album era all’epoca un vero e proprio passaggio obbligato per qualsiasi gruppo progressivo: i primi Genesis, sotto la guida non proprio illuminata della Decca e del mentore Jonathan King, avevano già assolto a questo compito con l’album d’esordio. Il disco si era rivelato un pastrocchio pretenzioso, e dopo cinque anni, al culmine di una maturazione veloce, strabiliante, ma completa, fu soprattutto Peter Gabriel a volersi prendere la rivincita.
In mezzo c’era stata la svolta di “Trespass”, la conferma di “Nursery Cryme” e i due capolavori “Foxtrot” e “Selling England by the Pound”. Nel 1974 i Genesis erano ormai una macchina ben oliata per sfornare capolavori che, tra album di studio e lunghi tour sempre più complessi, funzionava alla perfezione.
Il movimento prog si avvia inconsapevolmente verso l’estinzione.
Il movimento prog, tuttavia, si avviava inconsapevolmente verso l’estinzione, a causa della sempre maggiore pretenziosità e complessità di una proposta che andava allontanandosi dalla base di appassionati del rock, disorientata da lavori lunghissimi e da citazioni esageratamente colte. Come era successo milioni di anni prima per i dinosauri, il prog stava diventando troppo maestoso e ingombrante per un mondo come quello del rock e per una società che pativa il riflusso degli anni del grande sogno e si ritrovava in un decennio in cui le velleità dell’estate dell’amore iniziavano a presentare il conto.
In questo clima i Genesis decidono di tirare diritti per la strada intrapresa e sposare l’idea di un concept album molto complesso. Tra le varie proposte vince quella della storia di Rael, giovane portoricano dalla vita difficile che, nei sotterranei di New York, si trova invischiato in avventure sempre più surreali e metaforiche; è una storia molto complicata, farina esclusiva del sacco di Peter Gabriel; in questo fatto, forse già troviamo i prodromi della futura separazione.
Una trama complessa
Qualche parola sulla complessa trama: Rael è un giovane portoricano reduce dal riformatorio di Pontiac. Lo vediamo sbucare da un sottopassaggio di Manhattan dopo aver deturpato un muro con la vernice spray, l’unico modo che conosce per affermare la propria personalità. Gabriel, nel prologo al racconto, suggerisce come stia usando il personaggio quale suo alter ego.
Il protagonista, attraversando Broadway, si imbatte in un agnello disteso fra i vapori dei riscaldamenti sotterranei e in seguito in una densa nebbia che gli corre velocemente incontro fino a travolgerlo: Rael si trova trasportato in un’altra dimensione spazio-temporale, nella quale affronterà una serie di avventure e di incontri con vari personaggi, di ambiente mitologico (Lilith, le lamie) e grottesco (gli Slippermen), oltre a imbattersi più volte nel fratello John. Proprio per salvargli la vita, Rael si getterà fra le rapide di un fiume, salvo accorgersi – nel finale – che il fratello ha assunto le sue stesse sembianze, quasi divenendo la proiezione del suo io. Dopo l’ultimo colpo di scena i due e l’intera storia si dissolvono in una misteriosa foschia purpurea.
“The Lamb Lies Down On Broadway” è uno dei concept per eccellenza della storia della musica, una vera e propria opera rock che troverà la sua perfetta quadratura nelle oltre cento rappresentazioni live del successivo tour.
Uno show sempre più complesso, dove la coesione dei componenti del gruppo raggiungerà la perfezione e i travestimenti dell’istrionico Gabriel saranno al climax; ma è anche un progetto che si lascia alle spalle tante macerie.
L’egemonia di Peter all’interno della band è ormai quasi totale, non tanto nella musica, quanto nei contenuti, a quasi suo esclusivo appannaggio; inoltre, con questo mastodontico doppio disco concettuale, la sua creatività si è spinta al limite, impossibile pensare di spostare l’asticella ancora più su. E così “The Lamb” finirà per essere il disco della diaspora, con Peter Gabriel che se ne andrà via, alla ricerca di nuove sperimentazioni, lasciando la responsabilità di dare una nuova direzione al gruppo sulle spalle troppo esili e orientate al pop di Phil Collins. Gli altri musicisti sono infatti tra i più sopraffini del movimento, per tecnica e feeling, ma nessuno ha la stoffa del leader.
Collins è forse il meno dotato strumentalmente, ma si rivela un ottimo frontman, capace di governare la nave Genesis nei marosi del rock di fine anni Settanta, sacrificando però pian piano gli ideali prog sull’altare di un successo commerciale che arride al complesso sempre più.
“The Lamb Lies Down on Broadway” è un lavoro troppo complesso per essere analizzato a fondo in un semplice articolo: ci vorrebbe un vero e proprio trattato. Certo è che siamo di fronte a un concept imponente che cela al suo interno di tutto, compreso qualche importante difetto che, lungi dal minarne l’incredibile qualità, ha forse contribuito a farlo invecchiare peggio di altre opere. Innanzitutto, va detto che c’è un certo sbilanciamento tra la storia e la parte musicale, con la prima che domina sul resto.
The Lamb è un lavoro articolato e un concept imponente
L’idea originale di Gabriel, di far uscire il progetto diviso in due dischi, a distanza di sei mesi, era di difficile attuazione ma forse era quella giusta; ascoltando l’album per intero, si rischia di rimanere soverchiati dall’abbondanza di input, dalla varietà dei temi musicali e da una storia affascinante, ma al tempo stesso talmente personale e onirica da risultare a volte difficile da interpretare.
L’eccessiva lunghezza fa inoltre sì che l’opera risulti priva di un vero cavallo di battaglia che emerga su tutto il resto; la cosa – diciamolo – non può essere considerata un vero e proprio difetto, anzi la compattezza generale di un lavoro di oltre un’ora e mezza è qualcosa di strabiliante. È pur vero però che negli album precedenti era sempre presente una traccia entrata nell’immaginario collettivo, come “The Knife” o “The Musical Box”, come “Supper’s Ready” o “Firth of Fifth”. In “The Lamb” abbiamo un livello compositivo sublime, ma manca forse il colpo del K.O. o, se c’è, rimane quasi schiacciato dalla complessità del lavoro.
I passaggi da ascoltare e riascoltare ovviamente non mancano, dalla titletrack con la bella intro di Tony Banks, ai singoli estratti, l’orecchiabile “Counting Out Time” e “Carpet Crawlers”, forse il pezzo più armonioso e celebre del lotto; la psichedelica e sperimentale “The Waiting Room”, col contributo di Brian Eno, la classica “Cuckoo Coccon”, la claustrofobica ma riuscita “In the Cage”, ma anche il bozzetto strumentale di “Hairless Heart”, passaggio che rievoca i Genesis più gentili con un’aria fiabesca e quasi medievale, dominata dai sintetizzatori di Banks e dalla chitarra di Steve Hackett. “Lilywhite Lilith” è invece un ripescaggio di un brano dell’epoca di “Nursery Cryme”, una bella canzone che non aveva mai trovato spazio su un album.
L’album vendette bene, anche se molto meno dei due precedenti successi. Seguì come un tour di 102 date, all’interno del quale Gabriel maturò la decisione di abbandonare.
La rappresentazione dell’opera era molto complessa, e anche la composizione ne aveva risentito in prospettiva: molti brani, specie gli strumentali, erano quasi riempitivi per consentire a Gabriel i suoi cambi di costume, sempre più frequenti e complicati. Al contrario di molte dicerie, i testi non sono esclusivamente di Gabriel, anche se l’idea del concept è tutta sua, mentre le musiche sono in larga parte composte dai soci.
Il fatto che le luci della ribalta fossero praticamente tutte per Gabriel, contribuì non poco alle tensioni interne che portarono al suo abbandono; il suo istrionismo metteva ormai in ombra l’incredibile lavoro di Tony Banks, Steve Hackett, Mike Rutherford e soprattutto di Phil Collins. Inoltre, Gabriel era ormai una vera star e la tentazione di continuare a suo esclusivo nome era forte, fomentata anche dalla nascita del primo figlio e dalla volontà di trascorrere più tempo lontano dagli infiniti tour.
Insomma, il lavoro più complesso e ricercato, più pretenzioso, finì per alzare sì l’asticella in modo irraggiungibile per tutto il movimento, ma anche per sancire la fine dei Genesis come erano stati fin lì.
“The Lamb Lies Down On Broadway” è considerato per alcuni come “The Wall” per i Pink Floyd, ovvero un lavoro del solo Waters con i propri compagni relegati al ruolo di comprimari, ma è anche l’opera più complessa mai rappresentata su un palco da un gruppo rock.
Più coesa nella trama di “The Dark Side of the Moon” e faraonica quanto gli show di Emerson, Lake & Palmer che tuttavia non vantavano una storia omogenea; forse solo “Tommy” degli Who vantava una storia altrettanto strutturata – anche meglio, per alcuni – ma la band mod preferì ricorrere al medium del cinema per rappresentarla. Cinema che corteggiò anche i Genesis, per questa storia, con un progetto che vedeva in cabina di regia il visionario psicomago Alejandro Jodorowski, ma che non vide mai la luce, come tipico per il messicano.
Ultime due note sulla rappresentazione live, per dire che purtroppo ne esistono solo pochissimi e non ufficiali riflessi filmati, e sulla copertina che, a differenza di quelle precedenti, curatissime sotto il profilo artistico, risulta stavolta una vera nota stonata, con uno scialbo montaggio di varie foto.
Ci vorranno due anni per rivedere i nuovi Genesis, quelli capitanati da Phil Collins: sarà un lento passaggio – calvario, per alcuni – dal prog al pop patinato; un anno in più per l’esordio solista di Peter Gabriel, che continuerà invece la sua carriera all’insegna di un pop sempre sperimentale e di grande successo.
La magia del rock progressivo, invece, era forse già ai titoli di coda ancora prima, quando i maestosi concept album dominavano il pianeta del rock.