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I Pink Floyd e la magia di Wish You Were Here, un’assenza presente

Wish You Were Here - Pink Floyd

È il 12 settembre 1975 e nello studio 3 di Abbey Road l’anima prende corpo e si trasforma in musica. I Pink Floyd plasmano il secondo concept album della loro carriera: Wish you were here.

Chissà quante volte avrete già ascoltato il capolavoro che è Wish You Were Here. Oppure non è mai successo ancora? Non importa. C’è sempre un ottimo motivo per farlo, e provare emozioni ogni volta sorprendenti.

Basta chiudere gli occhi e lasciare il corpo a terra, al resto ci pensa Wright. Ci prende e ci porta per mano. Un lento fade-in di atmosfere lunari disegnate dal suo sintetizzatore prende forma e in un attimo siamo in assenza di gravità. Le tastiere sono cupe, talmente cupe che camminando ci sembra di arrivare sull’orlo di uno strapiombo ma restiamo appesi alle note della chitarra di Gilmour. Sembrano cristalli che volteggiano sospesi e tendono all’infinito. Una breve pausa, silenzio. Entrano le quattro note più celebri della storia dei Pink Floyd e crescono le percussioni ad accompagnare il tema centrale. La chitarra è sempre più disperata, il sentiero ci sembra senza via d’uscita. Trapelano perfettamente la disperazione, il vuoto, il dolore, l’assenza. Poi, una luce spezza le tenebre.

“Remember when you were young, you shone like the sun”

Ogni strumento è disperso nel suo mondo, chiuso nella propria disperazione. Eppure insieme raggiungono una potentissima forza espressiva, quasi unica. Ogni parola si rifrange più volte “Shine on you crazy diamond” rendendo ancora più reale ed evocativa l’immagine del diamante che splende di follia in una galassia di tenebre. “Come on you raver, you seer of visions/Come on you painter, you piper, you prisoner, and shine” ed eccolo Syd Barret che come per magia si materializza davanti ai nostri occhi. In tutta la sua pienezza, per nulla assente, descritto dalle struggenti note di sax di Dick Parry. Come un Don Chisciotte sembra allontanarsi malinconicamente, urlando anche lui disperato al mondo. E noi vorremmo quasi poterlo accompagnare. Poi il buio.

Sembra ci abbiamo abbandonati in una buia vecchia fabbrica in cui a fatica iniziano ad accendersi le luci a neon. Ci troviamo in un attimo negli ingranaggi di una delle “macchine”, tra pistoni che ci riempiono le orecchie e sbuffi di vapore che ci offuscano la vista. Il mondo sembra un marchingegno metallico che riesce a regolare persino il battito del nostro cuore.

What did you dream?/ It’s alright we told you what to dream”

È la macchina della società che ci disumanizza e ci riduce a mero numero. Ci insegna cosa sognare, facendoci credere che sia veramente il nostro sogno. Il sintetizzatore in coda regala un retrogusto pungente e aspro, proprio come la consapevolezza. Un breve vocio spezza l’aridità. Buio di nuovo.

Improvvisamente siamo seduti davanti a un arrogante impresario di un’etichetta discografica che fuma, sorseggia whiskey e parla troppo velocemente appositamente per non farci rispondere. La voce di Roy Harper è così suadente. Tra cliché, false promesse e complimenti ci frastorna, vuole circuirci. E’ Money che torna, sotto le sembianze dell’imponente dio denaro. Sempre lui a comandare il gioco. Il ritornello vortica in una fantasia psichedelica, surreale e brillante, ma degradata all’interno. Improvvisamente veniamo risucchiati via anche noi, proprio come la base.

Ci ritroviamo davanti a una vecchia autoradio, stiamo cercando la nostra stazione preferita, ne cambiamo un paio, ci fermiamo. La chitarra è così vicina, sembra essere nella stanza con noi. Ci abbraccia, ci avvolge, sembra una coperta calda dopo un temporale davanti a un camino acceso. La voce di Gilmour riesce profondamente a dare vita ai nostri ricordi. Il synth, così tondo e caldo, è un compagno vincente. All’improvviso, sembra andare tutto inspiegabilmente bene. Un respiro di serenità. Cinque minuti volano ed ecco che partiamo per il tramonto sulle ali del desiderio. Ma ci lasciano in balia di una tempesta di neve aspra e ventosa. I bassi martellanti sfondano la nebbia che dobbiamo attraversare. E’ tempo di splendere ancora.

Siamo nuovamente tra le tenebre, il basso delinea l’orizzonte e l’universo dei Pink Floyd ci trapassa voracemente.

Ora siamo più forti ma siamo anche stanchi. Stiamo andando alla deriva, sempre più in alto. Il nostro corpo è sparito di nuovo. Funky, presuntuosa e cool la traccia finale vaga al contrario, chiudendo il cerchio al suono spaziale iniziale. Sembra tutto grandioso, come a ricordarci che in fondo, i valori che contribuiscono a rendere una persona unica, gli impediscono di essere realmente assente. L’universo si dilata ancora, pian piano ogni cosa si frammenta e tutto si trasforma in polvere di diamante. All’improvviso, su una distesa illuminata da fasci di luce, il nostro viaggio finisce. Il rumore della puntina sul vinile ci riporta timidamente alla realtà.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, David Gilmour, Roger Waters
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