Intervista a Marilena Anzini, fuori con “Bio-“, realizzato assieme al suo ensemble vocale femminile Ciwicè.
“Bio-“ è un disco di voci, di coralità, di strumenti piccoli e preziosi. È un lavoro che si poggia dentro le pieghe della natura, cerca un “centro di gravità permanente” dentro cui ritrovare equilibrio e visioni. La fanciullezza ma anche l’incanto di una cantautrice che ormai ci ha abituati ad un suono fatto di colori a pastello, più che ragionati direi raccolti dalla nostra Madre Terra.
In “Bio-“ Marilena Anzini si affida al suo ensemble vocale femminile Ciwicè, alla sua chitarra acustica anche e dal basso di Michele Tacchi. Il suono del Ronroco, bellissimo strumento boliviano a cinque corde doppie, l’arpa celtica di Ludwig Conistabile e un particolare scacciapensieri proveniente dalle steppe della Mongolia a chiusa del disco. Sono alcuni degli ingredienti di un disco in bilico tra ricerca vocale e spiritualità, tra canzone d’autore e forme futuristiche del canto corale.
La voce è il centro pulsante di “Bio-“. Da sempre lo stato per la tua musica. Che ragione ha questo legame, da dove viene… e perché?
Credo che il legame con la propria voce sia molto forte in ogni essere umano: che ne siamo consapevoli o meno, attraverso la voce esprimiamo i nostri pensieri e le nostre emozioni, creiamo relazioni, collegando il nostro mondo interiore con ciò che è al di fuori di noi. Con la voce creiamo arte attraverso il canto nella musica e la voce parlata nella recitazione. Anche “solo” con il suo suono, la voce racconta tanto di chi siamo. Ho sempre cantato, da che ne ho memoria e non saprei dirti l’origine di questo desiderio: so che mi è sempre venuto naturale.
Cantavo da sola per ore e sentivo che mi faceva stare bene. Poi, crescendo, ho reso la relazione con la mia voce sempre più consapevole attraverso lo studio e l’esperienza: da lì a voler condividere il mio percorso con chi come me desiderava conoscere meglio la propria voce, è stato un passo naturale e così sono diventata insegnante di canto. La voce è uno scrigno pieno di doni: può aiutarci a conoscerci meglio e a crescere come esseri umani, nella relazione con noi stessi e anche con gli altri. Amo tutto ciò che la riguarda e per questo ho messo la voce umana al centro della mia musica.
Tre brani di “Bio-“ sono interamente a cappella: cosa ti affascina maggiormente della “nudità” sonora che nasce quando resti soltanto con la voce?
Mi piace la tua definizione “nudità sonora”: è proprio così! I brani a cappella mettono a nudo chi canta e fanno sperimentare una maggiore vulnerabilità: non ci sono appigli per l’intonazione o per il ritmo e tutto è regolato dall’ascolto interiore e reciproco, in una relazione che diventa immateriale e delicata. C’è interdipendenza, la necessità di fidarsi l’una dell’altra, e la consapevolezza per ognuna di essere una parte che, anche se piccola, è di fondamentale importanza per l’insieme. Cantare in coro e senza strumenti vuol dire fare musica con lo strumento più antico con cui la musica, molto probabilmente, è nata: il nostro corpo messo in vibrazione e in risonanza che, a sua volta, mette in risonanza anche chi ascolta. Il canto corale è una “magia” che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita.
E quindi arriviamo all’ensemble vocale che tu stessa dirigi. Quali sono gli obiettivi che insegui assieme a loro?
Le Ciwicè sono tutte cantanti che hanno fatto parte per anni del mio laboratorio corale “Canta che ti passa” dove sperimentiamo la voce e il canto corale attraverso la Funzionalità vocale -un approccio alla voce che passa dalla consapevolezza corporea- e l’Improvvisazione vocale, un modo di fare musica con la sola voce e in modo non programmato, che ha origine nel lavoro del grandissimo Bobby McFerrin. Cantare, come già detto, da una parte ci fa fare i conti con la nostra vulnerabilità, ma dall’altra ci apre ad un contatto più profondo e autentico con noi stessi e con gli altri.
Con le Ciwicè abbiamo lavorato tanto insieme e negli anni si è creata una relazione umana e comunitaria che è andata ben oltre la realizzazione dei brani. Dalla voce e dal canto si passa con naturalezza alla vita, come dicevamo prima. Ovviamente lavoriamo molto per la realizzazione il più possibile precisa dal punto di vista tecnico e musicale, ma ci teniamo soprattutto che nella nostra musica passi questa connessione profonda che ci lega, una connessione fatta di ascolto, collaborazione, fiducia e condivisione: gli ingredienti della musica, praticamente. Forse l’orizzonte che teniamo come riferimento è “essere musica”, più che “fare musica”.
Cantare della vita e nel vivo della vita… oggi che siamo dominati dalle macchine… che “Bio-“ sia anche un disco denso di provocazioni sociali?
Penso che l’arte abbia sempre una funzione sociale, anche quando l’artista non la esplicita. L’arte ci fa uscire di casa, ci fa incontrare di persona, dal vivo, senza i filtri dei social e dei dispositivi elettronici; ci smuove i pensieri, facendoci scoprire le tante e complesse sfaccettature della realtà; ci apre alle emozioni, facendoci entrare più profondamente in noi stessi e poi rivolgere lo sguardo di nuovo all’esterno in modo più autentico, per poter riscoprire di essere connessi agli altri esseri umani; ci fa assaggiare l’Infinito, perché ci mostra le tante sfumature della Bellezza, una via preferenziale attraverso cui è possibile connettersi con la nostra sfera spirituale, aprendoci alla possibilità di una realtà che supera di gran lunga la nostra esistenza e che ci abbraccia tutti.
Educazione alla bellezza nelle scuole e divulgazione dell’arte e della cultura per sviluppare la sensibilità negli esseri umani: questa per me è la condizione necessaria ed indispensabile per una vera rivoluzione umana e sociale, da tenere ben presente nel lavoro di ogni artista e operatore culturale.
Nella tua musica le voci spesso non pronunciano parole ma fonemi, sillabe, suoni inventati: pensi che la comunicazione possa essere più autentica proprio quando abbandona il linguaggio convenzionale?
Penso ad un neonato, a come sappia comunicare anche senza parole attraverso suoni, vocalizzi e fonemi, tramite la lallazione. Certamente la sua è una comunicazione essenziale, che passa anche da altri canali non verbali, ma è comunque impressionante la quantità di cose che riesce a “dire” anche senza parole, soprattutto ai genitori che lo conoscono bene e lo ascoltano ogni giorno con amore e attenzione.
Ovviamente penso che il linguaggio verbale sia fondamentale per una corretta comunicazione e che sia importante cercare di renderlo il più preciso e raffinato possibile; essendo meno essenziale e quindi più complesso, è però possibile che diventi più complicato e insidioso: nella comunicazione verbale diventa più facile perdersi, nascondersi, mentire, manipolare… In questo senso ritornare alla lallazione facendo musica è un bell’esercizio di autenticità, di ritorno all’essenziale, di comunicazione autentica e senza filtri. In fondo, per essere artisti, bisogna un po’ ritornare bambini…


