È uscito da un po’ questo primo disco di un artista toscano, Matteo Nativo, che di certo non è di primo pelo e di certo non è nuovo alla musica
L’ingenuità degli esordi di Matteo Nativo qui lascia subito lo spazio al potere di sintesi che significa maturità e saggia scelta delle soluzioni, dove non c’è la fretta dell’estetica quanto più lo spazio vuoto delle riflessioni. Danza modellando la vita e le impressioni che si ha di se questo “Orione”, lavoro che “fa il verso” alle delicatezze acustiche di Springsteen o alle vellutate melodie di Ugo Mazzei. È uno Shangri-La dove il suono fatto di blues e di southern rock accoglie l’italiano come lingua cantata, ma in generale, come accade qui, non sono pochi i cazzotti che la nostra lingua prende se sfida l’inglese come resa… suoni che nella direzione di Bob Mangione somigliano a disegni a matita, pastelli primaverili nonostante il dolore che ci è
voluto per rinascere e scrivere un disco come questo. Fatelo vostro in un giorno qualunque: lasciate perdere le melodie facili e il pop da cassetta.

Intimo e scuro in volto… sono caratteristiche importanti per il suo modo di pensare alla canzone. Sbaglio?
No, non sbagli. L’intimità e una certa ombra fanno parte del mio modo di pensare la canzone. Scrivo sempre partendo da qualcosa che mi riguarda da vicino, da emozioni vere. A volte questo porta verso toni più scuri, ma credo che proprio lì si trovi la parte più autentica di noi. La canzone, per me, è un modo per attraversare quelle zone e trasformarle in qualcosa che possa arrivare anche agli altri.
Quanta sofferenza c’è dietro questo disco di Matteo Nativo? E in generale pensi ce ne voglia prima di fare un’opera?
C’è sicuramente della sofferenza dietro Orione, ma non la intendo come qualcosa di negativo. È piuttosto un passaggio, un’energia che si trasforma. Alcune canzoni sono nate da momenti difficili, da fratture personali, ma scriverle è stato un modo per dare un senso a quello che stava accadendo. Credo che la sofferenza, quando la attraversi e non la neghi, possa diventare una forza creativa. Non serve cercarla, arriva da sé, come arriva la vita. L’importante è avere il coraggio di ascoltarla e trasformarla in qualcosa che possa parlare anche agli altri.
E poi ci sono punti di energia solare: “Fantasma” è uno di questi ma proprio nella scrittura sembra uscire fuori dal tutto… che mi dici?
Sì, “Fantasma” è una canzone che porta dentro una specie di luce nuova. È nata quasi per contrasto, in un momento in cui avevo bisogno di leggerezza, di aria. Forse è per questo che “esce” un po’ dal resto del disco: rappresenta un punto in cui la malinconia lascia spazio a qualcosa di più aperto, quasi solare. Mi piace pensare che anche dentro un percorso più ombroso ci siano spiragli di luce, momenti in cui la vita ti sorprende e ti riporta in superficie. Fantasma per me è proprio quello: una canzone che parla di presenza dopo l’assenza, di vitalità che ritorna, anche se resta un filo di
mistero.
“Oradur” come la title track sembrano invece essere dei momenti assai importanti. E si torna alle tonalità di Tom Waits…
Oradur e la title track sono momenti importanti perché lì si concentra molto del cuore del disco, e in effetti c’è un richiamo alla tonalità di Tom Waits, con quell’ombra e quel calore insieme.
Ha senso dirti che sembra un disco per niente eccentrico? Un po’ come le tue foto: di lato, senza maschere ma neanche sfacciatamente in primo piano… sei così nella vita?
Sì, ha senso. Credo che Orione non sia un disco eccentrico nel senso di voler colpire o sorprendere a tutti i costi. È piuttosto un disco autentico, che nasce dalla sincerità e all’osservazione delle cose, senza artifici. E credo che sia un po’ come me nella vita: non sento il bisogno di apparire, ma cerco sempre di essere vero in quello che faccio, sia nella musica sia nelle piccole cose quotidiane.
Quanto hai preso dall’America? Immagino tanto… omaggi a parte… parlo proprio del suono e della forma… qualcosa o qualche artista in particolare da segnalare?
Sì, ho preso davvero tanto dall’America, ma non in modo meccanico: è stato più un assorbire atmosfere, approcci, modi di pensare la canzone. Il folk e il blues americani mi hanno insegnato molto sul respiro della musica, sulla libertà di arrangiamento e sulla voce come strumento narrativo. Tra gli artisti, ovviamente Tom Waits è stato un riferimento importante, ma anche il folk più acustico, il suono dei cantautori New England e alcune esperienze vissute nei club americani mi hanno formato: è tutto quello che ho incontrato con le orecchie e con gli occhi, e che poi ho cercato di filtrare nella mia scrittura.
Bello il video. Una metafora di quel che vorresti che fosse la vita? Anche qui, la realtà non è in chiaro…
Sì, “Clap Hands” è un piccolo racconto visivo che riflette il modo in cui vedo la vita: non sempre in chiaro, spesso fatta di contrasti, di luci e ombre. La realtà non è semplice, non è mai tutta bianca o tutta nera, e il video vuole mostrare proprio questa complessità. La canzone e le immagini cercano di catturare un momento di gioco, di leggerezza, anche dentro le difficoltà: la vita è fatta di questi lampi, di attimi che si illuminano, e credo che sia bello provarli e raccontarli senza filtri.


