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Intervista a Carlo Zannetti: “I cantanti di oggi, solo “figli di papà” in cerca di visibilità”

Le confessioni a cuore aperto di un musicista professionista: dopo 35 anni di onorata carriera Carlo Zannetti si dice amareggiato da chi fa musica oggi.

Ricercatore di suoni, amante delle parole, filosofo delle emozioni, Carlo Zannetti è un artista poliedrico dai mille volti e le mille anime. Un musicista professionista che dopo 35 anni di tournée, concerti e sessioni di registrazione, ha riscoperto il potere della scrittura e cominciato una nuova avventura nel giornalismo.

Carlo Zannetti ha attraversato mezzo secolo di musica facendosi ammirare come cantautore, compositore, chitarrista professionista e musicista polistrumentista, anche se lui preferisce definirsi semplicemente un “operaio della musica”. 

Fin dagli inizi degli anni ’80 ha collaborato con alcuni dei più importanti artisti del panorama musicale italiano e internazionale, tra cui Loredana Bertè, Enrico Ruggeri, Eugenio Finardi, Shel Shapiro, Jalisse, Jimmy Fontana, Marco Ferradini, Andrea Mirò, Statuto, Sonohra, John Trainor e Sinéad O’Connor.

Ha una serie di strumenti tra cui chitarra, basso, pianoforte e armoniche da cui non si separa mai, neanche per andare a dormire. E una serie di pseudonimi come quel poetaster che gli affibbiarono a Londra. Oggi però la vena poetica ha preso il sopravvento su quella musicale, portandolo a pubblicare quattro romanzi, con il quinto è in arrivo. 

Le parole che ha sempre amato ora danno vita ad articoli sulla musica, la vita, l’amore. E nella musica di oggi non si riconosce più, così preferisce scriverne per i giornali, sognare il ritorno del rock ’n’ roll, ricordare le Feste dell’Unità ai tempi di Guccini o guardare il futuro dalla panchina di Jim Morrison.

Da chitarrista professionista come vedi l’Italia di oggi dal punto di vista musicale?

“Ai miei tempi le case discografiche e i cacciatori di talenti non si preoccupavano di essere in linea con i gusti del pubblico, invece sembra che oggi i programmi musicali in televisione trovino il consenso di tutti. Questo fa riflettere, mi sembra che il pubblico di oggi abbia un modo di ascoltare la musica molto superficiale. Credo che i grandi cantautori di una volta non ci saranno più. A volte mi chiedo: se Francesco Guccini fosse nato nel 2000 avrebbe avuto lo stesso successo? Guccini pesava ogni parola, non badava all’esteriorità, si presentava con le sue camicie a quadrettoni, la sua bottiglia di vino e la chitarra. Ha scritto capisaldi della musica italiana, poca esteriorità ma grandi contenuti. Oggi forse è il contrario.”

Si può dire che sei figlio dei grandi cantautori che hanno scritto la storia della musica italiana?

“Io appartengo a quel periodo in cui il testo era fondamentale e per questo la musica era perfetta. Mi sento molto vicino a cantautori come Luigi Tenco, Fabrizio De André, Francesco Guccini,  Francesco De Gregori, Lucio Dalla, Paolo Conte, Claudio Lolli, solo per citarne alcuni. Conosco però anche molti giovani di 20-25 anni che non ascoltano la musica di oggi, ma i Pink Floyd, Jim Morrison, i Genesis e i cantautori di un tempo. Per cui mi viene un’altra domanda, la tv spazzatura che trasmette la musica del momento è condivisa dalle persone o è così perché non costa nulla? Sono reali i dati di ascolto?”

Secondo te perché i giovani di oggi non ascoltano la musica contemporanea?

“Forse perché non dice nulla, non tratta nessun tipo di tema, non ha grandi contenuti. La musica oggi si è ridotta ad essere un sottofondo da ascoltare in modo passivo mentre puliamo la casa o quando siamo in macchina. Una volta la musica si ascoltava con attenzione, si rifletteva sui testi. Dicono che l’ultima di Sfera Ebbasta sia la canzone più ascoltata, ma su che basi? Non la si può paragonare a una canzone di successo di una volta come poteva essere “La donna cannone” di Francesco De Gregori. Una volta si parlava di milioni di dischi venduti, oggi migliaia di ascolti, ma questi non sono numeri reali. I fans che pagavano per seguirti ai concerti o nei locali oggi si traducono in followers che ti seguono gratis sui social. Non esiste proprio il paragone.”

Dalle tue parole sembra emergere un grande divario tra i musicisti di ieri e quelli di oggi, è così?

“Sono tante le differenze fra noi vecchi musicisti e i giovani di oggi. In primis per quanto riguarda l’ossessiva e squallida ricerca di una originalità che non c’è, e che serve a nascondere una mediocrità disarmante, quasi sempre presente nei cosiddetti nuovi talenti. Ai nostri tempi poi erano necessari preparazione, capacità e contenuti. La preparazione prevedeva una vera abilità nel suonare bene uno strumento musicale, una gavetta fatta di centinaia di serate passate nei locali di musica dal vivo tra cover e canzoni suonate e cantate a menadito. I contenuti di tutto quello che si interpretava dovevano essere snocciolati come introduzione ai brani. Non potevi fingere nulla, o eri o non eri. Si campava così. I cosiddetti giovani talenti di oggi morirebbero tutti di fame se dovessero guadagnarsi da vivere così. Loro si accontentano di qualche cover famosa presa in prestito, cantata alla meno peggio e con tanta supponenza basata sul nulla.”

E poi quali altre differenze vedi tra voi della vecchia scuola e chi fa musica oggi?

“Faccio un esempio: i miei genitori pensavano che con la chitarra non si potesse guadagnare neanche una lira, erano ossessionati dal posto fisso, così a vent’anni sono dovuto andar via di casa con tutti i guai a cui vai incontro quando vai a vivere da solo a vent’anni. È stata dura ma oggi, per fortuna, c’è molta più sensibilità per l’arte e qualcuno soffrirà un po’ meno di me. Io comunque non avrei potuto fare altro: la musica era una strada che avrebbe potuto portarmi a morire di stenti, ma era l’unica percorribile per me. Oggi al contrario vogliono diventare musicisti per avere visibilità, e diventare famosi. A guardarli danno l’impressione di essere dei figli di papà, dei giovani viziati che chiedono in regalo per il loro compleanno un po’ di celebrità e un po’ di followers.”

Ma nell’attuale panorama musicale italiano c’è qualcuno che salvi?

“A mio avviso uno dei pochi grandi cantanti italiani rimasti è Tiziano Ferro, che con la sua straordinaria interpretazione di “Rimmel” di De Gregori insegna a tutti cos’è la vera classe, la capacità innata di riuscire a colorare con la propria sensibilità le note di un capolavoro. Anni di lavoro, di rinunce, di delusioni hanno il loro peso nella musica, e ti fanno venire la pelle d’oca al solo ascolto del brano.”

Stai dicendo che quella di oggi non è più musica?

“Dico che questa di oggi non è la mia musica. E pur continuando a collaborare con alcuni musicisti importanti, ho cominciato a scrivere libri, racconti e articoli. Ho rispolverato un’altra parte della mia creatività e mi piace raccontare storie d’amore, di musicisti, e scrivere articoli dedicati al mondo musicale.  Perché con la musica di oggi non ho niente a che fare.”

Ai tuoi tempi come si diventava musicisti?

“A diciassette anni ero già un mostro con la chitarra perché ho sacrificato tutto ciò che era ritenuto normale ai miei tempi, amicizie, ragazze, feste, discoteche e quant’altro. Suonavo anche dodici ore al giorno. E poi ero un gran rompiballe. A Bologna andavo in giro con la mia chitarra e insidiavo qualsiasi persona pur di imparare a suonare. All’epoca non c’era internet, non c’erano soldi per pagare grandi professori, dovevo arrangiarmi. Molti di quelli che hanno fatto la storia della musica se lo ricordano. Tra questi Claudio Lolli era la mia migliore vittima, perché da professore e cantautore era un uomo molto paziente. Lo seguivo fino a casa per chiedergli gli accordi. Li chiedevo anche a Francesco Guccini ma lui mi mandava al diavolo perché aveva un carattere un po’ più complicato. Poi andavo alle Feste dell’Unità e lì facevo il pieno, chiedevo a Edoardo e a Eugenio Bennato gli accordi che mi mancavano. Devo dire che alcuni di loro rimanevano anche stupiti di quello che riuscivo a fare con la chitarra.”

Cosa ha rappresentato per te Londra e l’incontro con Levon Helm?

“Londra è stata la mia fortuna, dopo un periodo di grandi problemi. Nei pub in cui suonavo ho conosciuto un impresario artistico inglese che mi ha preso in simpatia e mi ha presentato gente importante, tra cui Levon Helm che in Italia è sconosciuto ma negli Stati Uniti è famosissimo. È una persona con cui siamo entrati subito in buoni rapporti, poi ci siamo scritti per molto tempo delle lettere. Io ero ancora giovane e lui mi ha insegnato tanto. È stato il padre che non ho mai avuto. Levon Helm credeva che l’artista debba dare il buon esempio ai giovani. Non era insomma il Lou Reed della situazione che prendeva la pasticca di LSD davanti ai fans prima di iniziare il concerto.”

Tornato in Italia, negli anni ’90, hai pubblicato due album e collaborato con grandi nomi della musica. Che ricordi hai di quel periodo?

“È stato il momento di massimo splendore della mia carriera artistica. Sembrava che cadesse tutto dal cielo da un momento all’altro, un incontro dopo l’altro. Ho iniziato a fare tournée musicali di un certo livello, ho praticamente vissuto sul palcoscenico in quel periodo. Poi ho conosciuto personaggi molto importanti per me. Ognuno di loro, nel bene o nel male, mi ha insegnato qualcosa. Tra i tanti l’unico che è rimasto davvero mio amico è Marco Ferradini, un grande musicista e una persona speciale. Abbiamo collaborato tante volte insieme ma mai a livello musicale. Non escludo, però, che un domani facciamo qualcosa insieme. Mi piacerebbe scrivere con lui una canzone rock’n’roll italiana per tornare ai bei vecchi tempi. Sarebbe bello provare a lanciarla sul mercato e vedere cosa succede.”

Hai avuto altre collaborazioni importanti?

“A quei tempi ho lavorato parecchio con Eugenio Finardi, Enrico Ruggeri, Fabio Concato, come chitarrista ho collaborato con i Jalisse. Questi sono i grandi artisti con cui mi sono trovato molto bene. Altre collaborazioni sono finite male e non voglio neanche parlarne.”

Cosa è successo?

“Ci sono rimasto molto male quando mi sono accorto che alcuni artisti sono solo degli ipocriti, fanno finta di riconoscerti e poi non è vero. Quando fai comodo a loro sono i migliori amici, poi dopo qualche giorno non si ricordano nemmeno come ti chiami e che hai suonato con loro. Molti anni fa, alcuni non si sono nemmeno degnati di scrivere il mio nome tra gli autori di alcune loro canzoni. Non aggiungo altro.”

La delusione per quegli incontri ha influito sul tuo rapporto con la musica?

“Certo che sì! Per quanto mi riguarda, la gratitudine è un sentimento fondamentale anche se mi rendo conto sia molto rara, soprattutto in certi ambienti.”

Provi una certa delusione quindi per l’intero mondo dello spettacolo?

“Nel mondo dello spettacolo spesso manca un po’ di buon senso. Penso a certi artisti, anche molto famosi, che diventano degli idoli da emulare per i più giovani e che quindi dovrebbero cercare di adottare uno stile di vita più esemplare. Si può essere artisti lo stesso senza essere stravaganti, tossicodipendenti o alcolisti. La creatività, quella vera, non ha bisogno di nessun coadiuvante.”

Che relazione hai avuto, invece, con John Trainor e Sinéad O’Connor?

“Ho conosciuto John Trainor che è stato forse il primo manager non ufficiale degli U2 quando erano ancora ragazzini. Essendo irlandese conosceva anche Sinéad O’Connor che in quel momento scriveva canzoni per un suo gruppo. Entrambi erano affascinati dai miei testi, quindi con loro c’è stato un intenso scambio di parole, suggestioni, idee. Sinéad O’Connor poi rimane per me una delle migliori voci del panorama musicale, ha un modo di interpretare unico, fa venire la pelle d’oca.”

Dai brani ai romanzi, hai sempre scritto nella tua vita. Ma per te la scrittura gravita sempre intorno alla musica?

“Sì, per esempio nei miei romanzi intitolati Il tormento del talento ho scandagliato le vite dei grandi musicisti al di fuori del palcoscenico, alla ricerca di aspetti poco noti e misteri del talento che spesso può diventare un vero tormento. Ho ripercorso quindi le vite di quegli artisti che hanno seguito parabole discendenti. Sono andato a cercare il comodino dove ha sbattuto la testa Janis Joplin prima di morire, sono andato tre volte nell’appartamento dove è morto Jim Morrison, mi sono seduto sulla panchina dove si è seduto Jim Morrison e ho visto cose strane, e vi posso assicurare che non avevo preso droghe. C’è una vita parallela molto sottile che corre intorno alla musica, almeno c’era, non so se c’è ancora. Ad ogni modo i veri talenti non vengono più alla scoperta come una volta. Al momento preparo il quinto libro, una serie di riflessioni sull’amore.”

L’amore è un tema ricorrente nella tua creazione…

“Cosa fai senza amore? Tutte le grandi cose della vita nascono da un amore.”

Il giornalismo, infine, è un’inversione di rotta o un naturale approdo della tua carriera?

“Per il momento posso solo definirmi un redattore di articoli, perché mi mancano ancora alcuni mesi per potermi iscrivere all’elenco dei giornalisti pubblicisti. Non considero il giornalismo una vera e propria inversione di rotta, piuttosto una riflessione a cui sono arrivato in età matura. Ho capito che il mondo è cambiato e che in questa musica di oggi non mi riconosco, perciò preferisco scriverne per i giornali.”

La musica però rimane una costante della tua vita?

“La musica non puoi abbandonarla, prima o poi torna sempre. Ti sveglia una nota, una frase e la tua natura ti impone di musicarla, di trovare una soluzione. In camera da letto ho un pianoforte, una chitarra e un violino, io dormo con i miei strumenti.”

Non credi che in alcuni momenti più di altri, come in questo lockdown, ci rendiamo conto dell’importanza dell’arte?

“L’arte è come una bella cornice che avvolge un quadro. La vita senza arte può diventare monotona e per alcuni anche squallida. Attraverso le cose che ci impressionano ci ricordiamo i vari momenti della nostra esistenza. L’arte ci impressiona con la sua misteriosa bellezza. Io per esempio mi ricordo ancora di quella volta in cui ascoltai il Requiem di Mozart suonato dal vivo. Mi ricordo perfettamente dove ero e con chi. Non mi ricordo, invece, chi c’era vicino a me al ristorante per una festa di laurea di un amico qualche giorno dopo.”

— Onda Musicale

Tags: Andrea Mirò, Sonohra, Enrico Ruggeri, Sinead O’Connor, Eugenio Finardi, Loredana Bertè, Statuto, Marco Ferradini, Shel Shapiro
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