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“After the Gold Rush”, il magico disco di Neil Young

Il 31 agosto del 1970 usciva After the Gold Rush, il terzo lavoro da solista del cantautore e chitarrista canadese (naturalizzato americano) Neil Young.

Nonostante all’epoca The Lonernon avesse ancora compiuto venticinque anni e fosse appena al terzo disco, era già ritenuto un veterano delle scene e un personaggio iconico della West Coast americana. Young – nato a Toronto il 12 novembre del 1945 – aveva iniziato giovanissimo a esibirsi e a scrivere canzoni con Stephen Stills e Joni Mitchell.

La permanenza nei Buffalo Springfield arriva dopo le militanze nei The Squirers e nei Mynah Birds e – soprattutto – dopo una serie di guai di salute e legali per renitenza alla leva. Nella band folk rock Young ha occasione di mettersi in luce sia come compositore che come chitarrista elettrico; la sua tecnica è agli albori, ma già si intuiscono le sue potenzialità di strumentista grezzo ma denso di feeling.

Nei Buffalo Springfield emerge però anche il carattere spigoloso del canadese: i contrasti col management e con Stills sono all’ordine del giorno, tanto che la band si scioglie in breve tempo. L’esordio solista è del 1968 con un disco che porta il suo nome; il lavoro propone già alcune ottime composizioni, tuttavia una produzione troppo patinata e un generale mood un po’ acerbo, ne fanno un debutto non del tutto convincente.

Ma sono tempi in cui tutto scorre veloce e – appena pochi mesi dopo – Young dà alle stampe il seguito, Everybody Knows This is Nowhere, con la band che lo accompagnerà per tutta la carriera, i Crazy Horse; il lavoro cambia le carte in tavola, proponendo il lato più elettrico e rude di Neil, con lunghissime jam session volutamente non rifinite e pezzi storici come Cinnamon Girl”, “Down by the River” e “Cowgirl in the Sand.

Nello stesso periodo il buon Neil si fa convincere a mettere la “Y” del suo cognome nella ragione sociale dei CSN, ovvero Crosby, Stills e Nash. Come prevedibile, dall’unione dei quattro talenti, nascono scintille ma anche un paio di incredibili capolavori come Deja Vù” (leggi l’articolo) e “4 Way Street”. Il sogno però dura poco e i soliti contrasti portano il gruppo allo scioglimento.

Siamo così nell’agosto del 1970, quando Young esce con “After the Gold Rush”, album suonato coi Crazy Horse e Nils Logfren, ma che vede la luce a nome del solo bandleader. In questo lavoro Neil riesce a stare in perfetto equilibrio tra le due anime che in seguito lo renderanno un’icona del rock: quella acustica da cantautore, tecnicamente ineccepibile alla sei corde e all’armonica, una sorta di evoluzione melodica del solco tracciato da Bob Dylan, e quella elettrica e furente, fatta di lunghe svisate di chitarra elettrica, poco attente alla tecnica e alla pulizia ma assolutamente insuperabili a livello emotivo.

Si parte subito forte con la breve Tell Me Why, un bozzetto tra folk e country, per sola chitarra acustica e voce, impreziosito da un ritornello con coretto a cinque (Stills e Logfren sono della partita) e dal suggestivo falsetto di Young. Particolarmente significativi i versi del refrain: “Is it hard to make arrangements with yourself/When you’re old enough to repay but young enough to sell?”

Si prosegue con la title track, uno dei pezzi più celebri – giustamente – del cantautore canadese. After the Gold Rush è una vera perla, una delle più belle ballate della storia del rock. La melodia è cristallina, il canto in falsetto di Young, accompagnato solo dal pianoforte, sembra sempre sul punto di spezzarsi e riesce a emozionare l’ascoltatore attento in profondità. L’assolo è di pertinenza del corno, una scelta sorprendente che fa del pezzo una canzone senza tempo, sospesa tra folk puro e melodia. Un capolavoro probabilmente irraggiungibile.

Si prosegue con Only Love can break your heart, una sorta di valzer sghembo e zoppicante, che ricorda The Band per il suo incedere e che si anima coi soliti cori nel ritornello. Quello che colpisce è la voce di Young, ferma nel declamare versi a volte duri ma tremolante nel far trasparire l’emozione dell’artista.

Il pezzo successivo è uno di quelli entrati a buon diritto nell’immaginario rock di ogni tempo, quella Southern Man che farà infuriare i Lynyrd Skynyrd, che risponderanno per le rime ma piuttosto grossolanamente a Neil con la celebreSweet Home Alabama. La caratura di Young rispetto alla band di southern rock è ben superiore, ma è pure vero che la polemica morirà presto tra grandi e reciproci attestati di stima, sopravvivendo ancora oggi solo nell’iconografia del genere. La canzone svela il Neil Young più duro e aggressivo a livello musicale, trattandosi di una robustissima tirata rock con la chitarra sporca e cattiva di Neil sempre in gran spolvero. “Southern Man” passa però alla storia più per il contenuto, un’invettiva sanguigna contro il razzismo del sud degli Stati Uniti; un’invettiva polemica – purtroppo – ancora attualissima.

Il lato “a” del vinile si chiude con la brevissimaTill the Morning Comes, quasi un divertissement posto in chiusura. La seconda facciata si apre con l’unica composizione non a firma Young,Oh Lonesome Me, brano composto da Don Gibson. Si tratta di un lento e classico country rock, dal testo piuttosto amaro e cantato in modo magistrale da Young, bravo anche nelle parti di armonica; la canzone – nonostante non sia di Young – è perfettamente organica all’umore generale del lavoro.

Old man lying by the side of the road
With the lorries rolling by
Blue moon sinking from the weight of the load
And the buildings scrape the sky

Con questi versi inizia la bellissima Don’t let it bring you down, una delle ballate più riuscite del canzoniere di Young. Le parole hanno un taglio quasi cinematografico, sembra di assistere alle scene narrate dall’incalzante falsetto del cantante. Il ritornello pare voler illuminare con un raggio di luce l’oscurità delle immagini proposte nelle strofe, ma tutto l’andamento della canzone rema dalla parte opposta, portando al climax l’inquietudine dell’ascoltatore, prima che un cambio di melodia nel finale riesca effettivamente ad aprire un varco tra le ombre dei versi.

Birds, come la title track, si regge sulla splendida voce di Young e sul pianoforte; una ballata dalla struggente melodia sul tema del distacco e probabilmente sulla fine di una storia. Il coro del ritornello sembra quasi gospel, mentre tutta l’atmosfera ricorda un po’ certe cose – le più malinconiche – di Simon & Garfunkel.

In questo disco Neil Young tiene un po’ a freno le sue istanze più rock e aggressive, privilegiando il mood più malinconico e acustico delle ballate, ma prima della fine c’è ancora spazio per un’immersione nelle jam elettriche tipiche dei Crazy Horse; When you dance i can really love si inserisce nel filone delle ballate rock comeCinnamon Girl” o “Like a Hurricane”, pezzi non tiratissimi ma con un arrangiamento pesantemente elettrico che lascia spazio alle velleità soliste dei vari strumenti.

Prima della chiusura c’è ancora spazio perI Believe in You, un’altra bellissima ballata dal testo ironico e musicalmente ancora attualissima: quante band indie folk di oggi farebbero carte false per scrivere un pezzo del genere?
Il finale è affidato alla brevissimaCripple Creek Ferry, quasi un brano tradizionale che chiude sfumando uno degli album capolavoro di Neil Young.

Dopo l’uscita del disco, il canadese inizierà un lungo tour in solitaria, completamente acustico, in cui metterà a punto la maggior parte delle canzoni che nel 1972 daranno vita aHarvest, il suo più grande successo commerciale; un album che contende a “After the Gold Rush” il titolo di capolavoro della discografia younghiana. Sono anni felici per Young, che convive con l’attrice Carrie Snodgress, di cui si è innamorato vedendola recitare in “Diario di una casalinga inquieta”.

Purtroppo la nascita del figlio Zeke, affetto da paralisi cerebrale, preluderà a un periodo buio per il musicista, fatto di depressione, traversie sentimentali e della perdita di tanti amici musicisti, a partire da Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse che muore per overdose.

Ma la storia musicale del “Loner” sarà ancora lunga e gloriosa, e presto vi parleremo dei suoi altri capolavori.

— Onda Musicale

Tags: Crazy Horse, Neil Young
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