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Jethro Tull e Ian Anderson ancora sulla breccia, recensione del live

Jethro Tull, la formazione 2023

La storia di Ian Anderson e dei Jethro Tull sembra non conoscere il tramonto, nemmeno oltre cinquant’anni dopo la nascita della band. Il resoconto del loro tour 2023, con la data di Pescara.

Per molti non ha senso parlare ancora di Jethro Tull. Infatti, dell’originale formazione del 1967 è rimasto solo l’istrionico leader Ian Anderson. All’epoca, quella di This Was, l’esordio, Anderson non è il leader indiscusso; il suo ruolo è insidiato da Mick Abrahams, chitarrista e cantante dalla solidissima tecnica blues che dopo il debutto si metterà in proprio.

Abrahams e Anderson non condividono l’idea sulla direzione da prendere. Mick vorrebbe proseguire sulla strada sicura del blues, all’epoca genere che va per la maggiore. Anderson è voglioso di sperimentare col suo flauto e con la pletora di strumenti che suona. Ian rimane al timone dei Jethro Tull, con Martin Barre alla chitarra, e dimostra di avere ragione. I pur validissimi Blodwyn Pig di Abrahams durano poco, dei Jethro Tull siamo ancora qui a parlare dopo cinquantasei anni.

La band del tour 2023 è quella che accompagna Anderson dal 2020. Troviamo Joe Parrish-James alla chitarra, l’ultimo arrivato proprio nel 2020. Gli altri membri vantano invece una storia piuttosto articolata nel gruppo e sono David Goodier al basso, John O’Hara alle tastiere e Scott Hammond alla batteria.

La scena del live che andiamo a raccontare è il Teatro D’Annunzio all’aperto; una location abbonata alla qualità – ospita il Pescara Jazz da tanti anni – e molto suggestiva. Il teatro, all’aperto, è ricalcato sulle antiche strutture romane e greche e sorge tra una bella pineta e le sabbiose spiagge della città abruzzese.

Davanti alle gradinate completamente gremite, tanto che il vostro narratore deve sgomitare per trovare un posto decente, Ian Anderson e soci si presentano puntuali. Ian ha apertamente dichiarato da qualche anno di soffrire di una broncopneumopatia cronica ostruttiva. La malattia non gli ha tolto però la verve. Ian, infatti, balza sul palco e saluta con la voce che pare quella di un tempo.

Poche battute concise e il complesso attacca con Nothing Is Easy, grande classico del periodo d’oro. Anderson è il solito istrione: salta sul palco come un folletto, soffia nel flauto traverso con foga e perizia. Le note che subito si diffondono spandono la magia di cinquant’anni e passa fa. Il sound pare davvero non risentire del tempo che passa e il pubblico, democraticamente diviso tra fan della prima ora coi capelli bianchi e giovanissimi appassionati di musica suonata, è in visibilio.

Le dolenti note arrivano però quando Ian si cimenta col canto. La voce è poca e non c’è nulla di male, considerata l’età e la patologia del cantante, tuttavia la qualità della performance non è sempre all’altezza. Il concerto, da questo punto di vista, finisce per assumere più una valenza di rito che di vera prestazione artistica.

Chi vi scrive ha assistito al precedente tour del 2017; in quell’occasione, il buon Ian si faceva aiutare alla voce dal chitarrista, specie nei passaggi più probanti. In un certo senso è strano che, con sei anni di più sul groppone, Anderson abbia scelto di tenere per sé praticamente tutte le parti vocali. Questo nonostante il fatto che i compagni di band siano tutti validi vocalist.

Anche il repertorio risente delle ridotte capacità vocali del frontman. Si finisce per privilegiare una parte di canzoniere non proprio conosciutissima dei Jethro Tull, con ampi estratti dall’ultimo lavoro, il biblico The Zealot Gene.

Tra i classici spuntano With You There To Help Me e la celebre We Used To Know, prototipo della più famosa Hotel California degli Eagles. Anderson, che non ha mai polemizzato sul presunto plagio, non risparmia una salace battuta all’indirizzo della band americana. Il concerto è rigidamente diviso in due parti di circa quarantacinque minuti, con un intervallo di quindici in cui il pubblico si può rifocillare e la band riposare.

La prima parte è chiusa con quello che è forse il cavallo di battaglia più atteso, quella Bourée di Bach arrangiata in chiave rock. La parte più dura, con una batteria che pareva all’epoca anticipare la durezza degli anni Settanta, dà ancora oggi i brividi. Anderson è piacevolmente a suo agio e confidente in un pezzo solo strumentale.

La seconda parte offre pochi appigli ai fan della prima ora; Heavy Horses e una lunga e straniante versione di Aqualung. Il classicissimo dei Jethro Tull è suonato con un arrangiamento che lo depotenzia forse un po’ troppo, in un tentativo sia di adattarlo alla voce di Ian che di modernizzare i suoni. Un esperimento, per chi scrive, non troppo riuscito.

Chiude l’unico bis, la sempiterna Locomotive Breath, col pubblico che si sgola inutilmente per richiamare la band ancora fuori. Il concerto finisce qui. Il presenti applaudono con incredibile entusiasmo, più per l’esperienza che ancora si rinnova di vedere all’opera un mostro sacro in carne e ossa che forse per la qualità del tutto.

Il giudizio è sicuramente positivo; Ian Anderson e i suoi Jethro Tull sono una delle ultime leggende viventi del rock e trovarseli di fronte è un’esperienza unica. Certo, se il buon Ian lasciasse un po’ più di spazio alle altre voci e al repertorio più celebre e collaudato, la qualità sarebbe ancora superiore.

Ma del resto il bizzoso leader della band ha da sempre costituito una categoria a parte, di quelle per cui vale il famoso motto prendere o lasciare. E noi, anche dopo cinquantasei anni di attività, prendiamo con grande piacere.

— Onda Musicale

Tags: Ian Anderson, Eagles, Jethro Tull
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