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White Stripes ed “Elephant”: il colpo di coda del rock blues

White Stripes, Elephant

È il 2003 quando il rock vive uno degli ultimi sussulti della sua storia. Quell’anno esce Elephant, disco della consacrazione di una bizzarra band che arriva dalla Motor City di Detroit, i White Stripes.

I White Stripes sono una delle anomalie più geniali degli anni Duemila. Lui, Jack White, chitarrista e voce con un’anima da bluesman intrappolata in un corpo punk di Detroit. Lei, Meg White, batterista minimalista, silenziosa, con un modo di suonare talmente essenziale da sembrare un atto di ribellione. I due si presentano come fratello e sorella, ma in realtà sono ex marito e moglie. Un dettaglio che contribuisce non poco all’aura di mistero e ambiguità che li circonda.

La band nasce nel 1997 nel cuore operaio del Michigan, in una città che allora viveva tra fabbriche in dismissione e fermenti musicali sotterranei. In un’epoca in cui il grunge aveva già detto tutto e il rock alternativo arrancava alla ricerca di un nuovo linguaggio, i White Stripes riescono nell’impresa di far sembrare di nuovo fresco il vecchio blues elettrico, spogliandolo di tutto ciò che era superfluo e riportandolo all’osso. Voce, chitarra e batteria, rosso, bianco e nero.

Intorno a loro, un movimento che guarda indietro per andare avanti. I precursori Jon Spencer Blues Explosion, The Strokes, The Hives, tutti figli di un ritorno al garage rock più sporco e diretto, ma Jack e Meg hanno qualcosa di più primitivo, quasi rituale. I primi album – The White Stripes (1999), De Stijl (2000) e soprattutto White Blood Cells (2001) – costruiscono passo dopo passo un culto. Il mondo comincia a chiedersi chi siano davvero quei due vestiti di rosso che suonano come se fossero in un seminterrato nel 1965. La critica si divide tra chi li considera geniali e chi pensa siano solo una trovata estetica.

Poi arriva il 2003, l’anno di Elephant, e tutto cambia. Registrato a Londra su nastro analogico, in dieci giorni e senza computer, l’album esplode come un manifesto contro la plastica sonora dell’epoca. I White Stripes, ormai sulla bocca di tutti, sono pronti a diventare un simbolo. Elephant non è solo un disco, è la consacrazione di un’idea di rock che sembrava estinta. Esce nell’aprile del 2003, e da quel momento il mondo scopre che due persone possono bastare per far tremare la terra.

Quando i White Stripes cominciano a lavorare a Elephant, Jack White è ormai convinto che la musica stia diventando troppo levigata, troppo perfetta, troppo priva di difetti umani.

Così decide di fare l’esatto contrario. Sceglie come base i Toe Rag Studios di Londra, una sala d’incisione minuscola e vintage, con apparecchiature risalenti agli anni Sessanta e nessun computer. Lì, tra nastri magnetici, valvole e un vecchio mixer EMI, Jack e Meg registrano l’intero album in appena dieci giorni, tra aprile e maggio del 2002. Nessun effetto digitale, nessuna sovraincisione artificiale, solo microfoni, amplificatori valvolari e il rumore vero degli strumenti.

L’obiettivo di Jack White è chiaro: catturare il suono nel momento in cui nasce, non manipolarlo dopo. La produzione è curata da lui stesso, sotto il nome di The White Stripes, con l’assistenza di Liam Watson, proprietario dello studio e custode di quella filosofia analogica che diventa il cuore del progetto. Watson non tocca quasi nulla, Jack fa di tutto. Dirige, suona, sperimenta, cambia chitarre come pennelli, alternando la sua Airline Res-O-Glass rossa e bianca a una serie di vecchie Kay e Harmony.

Il suono di Elephant è un paradosso: grezzo ma calibrato, rumoroso ma estremamente controllato. È il risultato di un’estetica minimalista portata all’estremo, dove ogni colpo di batteria di Meg sembra più un segnale tribale che un accompagnamento. Gli arrangiamenti oscillano tra il blues più fangoso del Delta e la furia proto-punk di Detroit. Non mancano accenni al country, all’hard rock anni ’70 e a certe malinconie folk che anticipano il Jack White solista.

Non c’è basso – o meglio, quasi mai. Quando c’è, come in Seven Nation Army, Jack lo crea con un pedale pitch shifter collegato alla chitarra. Così inventa uno dei riff più riconoscibili della storia del rock.

Elephant esce il 1º aprile 2003 per la V2 Records e l’accoglienza è travolgente. La critica parla di miracolo, Rolling Stone lo definisce “il disco che salverà il rock”. Pitchfork gli assegna voti stellari, e perfino chi non li sopportava è costretto ad ammettere che sì, questi due vestiti di rosso hanno tirato fuori un capolavoro. I singoli sono Seven Nation Army, The Hardest Button to Button, I Just Don’t Know What to Do with Myself e There’s No Home for You Here. Tutti diventano piccoli classici, ma il primo, con quel riff nato quasi per scherzo durante un soundcheck, diventa un inno planetario. Cantato negli stadi, remixato, fischiettato, trasformato in colonna sonora universale di tutto ciò che è vittoria, rivincita o rabbia contenuta. È la consacrazione definitiva dei White Stripes e l’inizio della leggenda.

Mettiamo Elephant sul piatto e ascoltiamolo. Seven Nation Army è il centro gravitazionale di Elephant: il pezzo che li fa esplodere e poi vive di vita propria come inno collettivo. La linea di basso che tutti conosciamo non è in realtà suonata con un basso. No, è Jack che prende una chitarra semi-acustica (una Kay nelle versioni più citate), la accorda in modo non ortodosso per ottenere più corpo, la manda attraverso un pitch-shifter (il DigiTech Whammy) abbassandone l’ottava e la riempie di fuzz. Il risultato è un riff che suona come un basso spaventoso ma conserva la timbrica della chitarra; la scelta tecnica è fondamentale per quel suono così semplice ma e cattivo.

Il brano è essenziale: voce distorta, cassa marziale di Meg, riff ipnotico e uno spazio vuoto attorno che permette al riff di entrare nella memoria collettiva. È interessante come qualcosa nato in studio quasi per gioco (Jack ha raccontato spesso che è venuto fuori mentre provava riff) si sia trasformato in un classico pop.

Stadi, cori urlati, ritornelli che diventano il modo più semplice e universale di cantare un nome o un evento sportivo. La traiettoria è documentata, il singolo esce nel 2003 e il pezzo diventa un fenomeno planetario, fino a trasformarsi nell’arma segreta addirittura di tifoserie. Insomma, la canzone che doveva essere solo un singolo indie è diventata un canto popolare globale.

Un altro pezzo forte è I Just Don’t Know What to Do with Myself, cover di Burt Bacharach che sul disco funziona come una piccola bomba emotiva. La versione dei White Stripes nasce dallo stesso desiderio di reinterpretare classici in modo spoglio ma invasivo. Jack e Meg prendono una canzone pop orchestrale e la svuotano dell’orchestra, la ricostruiscono attorno a una dinamica che parte quasi sussurrata e poi esplode in urla controllate. Jack usa il fraseggio vocale per trasformare il testo in un’apologia dell’imbarazzo esistenziale più che in una ballad melodrammatica.

La registrazione di questo pezzo cela alcune curiosità. Viene incisa in una session separata – a Maida Vale, nel novembre 2001 – prima delle due settimane al Toe Rag che producono il resto dell’album. Il video vanta la regia di Sofia Coppola, con Kate Moss protagonista, il che contribuisce alla diffusione pop del brano. Musicalmente è un capolavoro di sottrazione. Jack rispetta la melodia ma la costringe in una gabbia ritmica nuda che rende il sentimento più vero e più urgente.

In the Cold, Cold Night è il piccolo ribaltamento dell’album perché per la prima volta Meg White è voce solista su un brano importante del disco. Il pezzo è minimalista, con un’atmosfera rarefatta e un senso quasi cinematografico di attesa e desiderio.

Meg non canta come una star tradizionale — la sua cifra è proprio quella voce “sottovoce” e un poco ingenua che Jack sa come incastonare nello spettro emotivo del disco — e il risultato è straniante e bellissimo. Sembra una canzone country-noir cantata dal lato opposto dell’America. Critici e fan hanno sempre indicato questo brano come una delle poche volte in cui la parte più delicata della band emerge con forza, e la scelta di far cantare Meg aggiunge un tono intimo e inquietante alla tracklist. Richiamando, perché no, i Velvet Underground di After Hours, con Maureen Tucker alla voce.

Ball and Biscuit merita un trattato a parte perché è la dichiarazione blues dell’album e la traccia che dimostra quanto Jack conosca — e sappia sfruttare — il vocabolario del blues classico. È un 12-bar esteso, quasi sette minuti di crescendo, dove Jack recita il ruolo del predatore carismatico. Il testo evoca la figura del seventh son quel settimo figlio che ricorre spesso nella mitologia del blues. Una citazione che dà alla canzone quella patina voodoo di potere e superstizione.

Musicalmente il pezzo alterna assoli sporchi, fraseggi di Chicago-blues e una base ritmica ossessiva. Meg tiene il tempo come un battito primordiale, Jack stira la chitarra fino al limite del feedback e poi la tira indietro, costruendo piccoli archi dinamici che sostengono l’ossessione lirica. Una curiosità gustosa: il titolo può rimandare anche a un microfono, l’STC Coles 4021 soprannominato proprio ball and biscuit.

The Hardest Button to Button è il brano che mette insieme la narrativa famigliare di Jack con una delle hit più immediate del disco. Un giro ossessivo, una cassa puntata e quel senso di claustrofobia che nasce dal testo. Jack lo descrive infatti come la storia di un bambino che fatica a trovare il proprio posto in una famiglia disfunzionale. Dal punto di vista sonoro c’è di nuovo la volontà di simulare un basso potente senza suonare il basso reale e la costruzione ritmica è deliberatamente martellante.

Il videoclip d’autore di Michel Gondry, con sequenze in stop-motion che moltiplicano batteria e amplificatori a ogni battuta, alimenta la mitologia visiva della band e trasforma la canzone in immagine virale.

Qualche parola per le altre tracce. Black Math è un colpo secco di garage rock tagliente che mostra la capacità di Jack di scrivere riff corti e virali. There’s No Home for You Here spinge la tecnica dell’8-track sul filo del collasso, una prova che Elephant è stato inciso e miscelato tenendo d’occhio i limiti hardware e trasformandoli in scelta estetica. Hypnotize, You’ve Got Her in Your Pocket, Little Acorns (con quel sample parlato di Mort Crim che dà colore alla narrazione) e I Want to Be the Boy to Warm Your Mother’s Heart funzionano come variazioni di tono. Qualcuno spinge più sul country, qualcuno sul pop-blues, ma sempre con la regola d’oro della band: economia di mezzi, massima espressività.

Una regola che lascia la sensazione che il disco abbia momenti imprescindibili e qualche digressione che, per alcuni ascoltatori, allunga un po’ troppo il percorso.
Concludendo, Elephant è irresistibile, un disco che conserva il suo status di cult perché combina miti del blues, artigianato sonoro e istinti pop capaci di generare inni come Seven Nation Army. Allo stesso tempo si può obiettare che, con 14 tracce e qualche digressione lunga, l’album ogni tanto perde il ritmo narrativo. Qualche taglio avrebbe reso il disco un vero capolavoro.

I White Stripes dopo Elephant proseguono la carriera con altri due dischi importanti (Get Behind Me Satan nel 2005 e Icky Thump nel 2007) prima dell’annuncio ufficiale dello scioglimento nel 2011. La band chiude per preservare la propria eredità, non per problemi di salute o dissidi plateali, anche se la crescente insofferenza di Meg per le luci della ribalta ha il suo bel ruolo.

Dopo lo scioglimento Jack White non si ferma di certo. Fonda e fa crescere l’etichetta Third Man Records e forma altri progetti importanti come i Raconteurs e i Dead Weather. Non solo, porta avanti una carriera solista densa (da Blunderbuss a Lazaretto, fino alle uscite più recenti) e continua a collaborare e produrre artisti, mantenendo intatta la sua aura cult del rock contemporaneo.

Nella discutibile deriva autoritaria dell’America di oggi, Jack White – e i White Stripes – non sono rimasti neutrali. Nel 2016 la band si era detta “disgustata” dall’uso non autorizzato di Seven Nation Army in materiale pro-Trump. Jack si è poi esposto pubblicamente in più occasioni, sostenendo, per esempio, Bernie Sanders, fino ad arrivare a dispute legali e prese di posizione più recenti rispetto all’uso politico del repertorio.

Oggi Jack è una figura rock impegnata e la sua linea — tra cultura analogica, produzioni indipendenti e prese di posizione pubbliche contro certi soggetti politici — fa parte della sua figura di culto.

— Onda Musicale

Tags: Jack White, Velvet Underground, Raconteurs, The Strokes
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