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Il 1969 dei Pink Floyd, la strada per Ummagumma (seconda parte)

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Pink Floyd Ummagumma

Dopo una prima parte del 1969 trascorso tra avventure live e la colonna sonora di More, mesi di grande attività ma che sottendono la crisi creativa successiva alla dipartita di Syd Barrett, i Pink Floyd si trovano a tornare in studio per fare i conti con la situazione venutasi a creare.

Leggi anche la prima parte dell’articolo.

Qualcosa sta cambiando nella musica dei quattro bravi ragazzi inglesi, dal centro del sole psichedelico dove la follia creativa – e non solo – di Barrett li aveva portati, si sposteranno sul lato oscuro della luna.

E Ummagumma sarà il primo, decisivo passo in questa direzione. L’idea, forse partita da Wright – ma chissà? – è tanto semplice quanto geniale, anche se l’anno prima i Cream di Wheels Of Fire hanno già fatto qualcosa di simile: un lato sarà inciso live, a testimoniare il cambiamento nel suono della band, l’altro in studio, equamente diviso tra i quattro componenti.

La parte live di Ummagumma

Iniziamo dalla parte live. Astronomy Domine, Careful With That Axe, Eugene, Set the Controls for the Heart of the Sun e A Saucerful of Secrets sono i quattro brani prescelti. A far loro compagnia dovrebbero esserci anche Interstellar Overdrive ed Embryo, che rimarranno fuori per motivi di spazio.

“La parte dal vivo è un insieme di brani che abbiamo suonato per molto tempo in tutta l’Inghilterra; abbiamo deciso di registrarli prima di abbandonarli definitivamente. Questo perché dal vivo hanno sempre subito notevoli cambiamenti, rispetto all’edizione in studio” – ricorda Roger Waters.

Eppure le facciate registrate dal vivo sono particolarmente interessanti, essendo l’unica testimonianza live del periodo di passaggio tra i Pink Floyd psichedelici dell’era barrettiana e il nuovo corso, sospeso tra gli spazi lisergici del passato e le nuove pulsioni progressive che impazzano nel periodo.

Per la scelta delle registrazioni le possibilità non mancano, la band in quegli anni è una delle più efficaci macchine da concerto. Alla fine si opta per due concerti: il 27 aprile al Mothers di Birmingham e il 2 maggio al College Of Commerce di Manchester. Ci sarebbero anche i nastri del 26 aprile, al Bromley Technical College, ma non vengono utilizzati. Il Mothers è un locale dove il gruppo è praticamente di casa e i Pink Floyd fanno scintille.

John Peel, dj celebre all’epoca, esagera forse nel definire il loro suono come fragore sinfonico, suoni incredibilmente malinconici che si intersecano fra loro come pianti di galassie morenti persi in corridoi di tempo e spazio. Tuttavia è indubbio che la forma della band quella sera sia smagliante; non così quella degli impianti di registrazione che fanno le bizze, rendendo parte del materiale inservibile.

È la stessa tecnologia, però, a permettere di metterci una pezza: mixando i nastri di Manchester si otterrà un risultato che, se da una parte non è un vero documento filologicamente autentico, dall’altro ben rappresenta i Floyd live del 1969.

A proposito del live al College Of Commerce, Wright fu particolarmente ingeneroso: “Incappammo in una brutta serata, e quello che si ascolta sul disco non raggiunge il cinquanta per cento delle nostre potenzialità.”

“In fondo – dirà invece Nick Masonsi trattò solo di pochissimi interventi di correzione o sovrapposizione.”

In ogni caso, la parte dal vivo di Ummagumma mette in buona sostanza d’accordo quasi tutti; si tratta di uno dei live più iconici e importanti della storia del rock e mette a fuoco i nuovi aneliti dei Pink Floyd, una band che si ritrova senza un leader vero e proprio, un frontman come Jagger, Plant o Ian Anderson che infuochi la platea, e priva allo stesso tempo di un guitar hero come Clapton, Page o Hendrix: “Non sono mai stato una macchina da riff – dirà a proposito Gilmour il mio modo di suonare si concentra sulla costruzione di atmosfere.”

E però la musica che fluisce dai nastri live di Ummagumma è qualcosa d’altro: è puro cibo lisergico per la mente, da ascoltare a occhi chiusi perdendosi in un trip acido e colorato, che rappresenta alla perfezione un’era seminale della musica rock.

Molto meno d’accordo la critica se si parla della parte registrata in studio; i brani equamente divisi tra Wright, Rogers, Gilmour e Mason sono di volta in volta ritenuti troppo naif, inconcludenti, pretenziosi, ma anche creativi, seminali, iconici e prototipi del prog che verrà.

Non un giudizio unanime, insomma, per due facciate che sono “il prodotto di un momento di caos, in cui nessuno sapeva bene cosa fare” nelle parole di Peter Mew, tecnico del suono.

I primi a essere piuttosto rigidi verso la parte in studio sono gli stessi componenti del gruppo; e se Wright si limita a definire pretenzioso il suo contributo, Rogers è più duro: “Sarebbe venuto meglio se ci fossimo ritrovati insieme a discutere delle nostre idee, invece di lavorare in completo isolamento.”

Il giudizio di Gilmour è pure negativo: “Questo disco è solo un esperimento. Inoltre, penso che sia stato registrato male: la facciata “in studio” poteva essere fatta meglio.”

La parte in studio di Ummagumma

Le facciate si aprono con Sysyphus, la composizione ideata da Richard Wright. Come detto, ogni sezione dura dieci minuti ed è completamente ideata, scritta e suonata dai singoli componenti.

Wright, forse ideatore e sicuramente il più entusiasta dell’idea, era abbastanza ambizioso e voleva dimostrare la propria abilità come compositore. Sysyphus è sostanzialmente un concerto pianistico diviso in quattro movimenti che passano di volta in volta dal classico al free jazz, dall’avanguardia alle dissonanze a là Stockhausen.

In realtà, al di là di qualche buona idea, il componimento mette in luce più le lacune che le virtù del tastierista, non troppo a suo agio con le partiture classiche. La parte di Waters è divisa tra Grantchester Meadows, ballata bucolica per sola chitarra classica ed effetti ambientali che origina dal tour con le suite The Man e The Journey del ’69.

Permeata dalla nostalgia per il passato – Grantchester Meadows erano i parchi boschivi di Cambridge, teatro di infanzia e adolescenza di Waters – è forse la parte migliore dell’intero lavoro. Several Species Of Small Furry Animals Gathered Together In A Cave And Grooving With A Pict, al di là del titolo sensazionale, è pura avanguardia, cinque minuti di nastri mandati al doppio della velocità o al contrario, di effetti sonori e ambientali, dove a latitare è però la musica.

Discorso diverso per i dieci minuti di David Gilmour. Il chitarrista, da poco subentrato a Barrett e a totale digiuno di scrittura e produzione, ricorda: “Provai un assoluto terrore, ero vittima di un misto di paranoia e pigrizia.” Privo di idee, David non trova di meglio che riciclare una composizione eseguita già dal vivo, anch’essa parte della suite The Journey, Narrow Way.

Preso dal panico per la stesura dei testi, David Gilmour prova a chiedere aiuto a Waters; per tutta risposta il bassista gli dice di arrangiarsi, sbattendogli il telefono in faccia.

Le prime prove da dittatore di Waters? Forse, ma allora probabilmente nemmeno loro sarebbero stati in grado di prevedere i futuri sviluppi. Tuttavia la classe di Gilmour è tale che, nonostante dubbi e problemi, la sua parte la fa eccome: Narrow Way è sicuramente tra i passaggi migliori dell’album.

Nick Mason, da sempre il meno a suo agio con la composizione, gioca a sua volta l’ambiziosa carta di The Grand Vizier’s Garden Party, sorta di suite d’avanguardia percussionistica, col solo contributo esterno di Ummagumma, il flauto suonato dalla moglie Lindy. Il risultato è bizzarro, ma dimenticabile: “Per quanto ci riguarda, la somma è sempre stata meglio delle singole parti” ammette Mason con sincerità.

Molto rimane da dire su Ummagumma, su come nacque il nome e soprattutto sulla bellissima copertina dello studio Hipgnosis, ma questo lo faremo nella prossima parte.

Quanto alla musica, il giudizio non può che rimanere ambiguo, al netto dell’unanimità nel considerare seminale la parte dal vivo. Ummagumma, nelle sue facciate in studio, può considerarsi a buona ragione un lavoro importantissimo; all’epoca ebbe grande successo in patria e permise un primo, timido approccio all’America. Musicalmente appare effettivamente pretenzioso, non del tutto riuscito e indietro rispetto ad altri lavori progressive dello stesso periodo – In The Court Of The Crimson King, su tutti – eppure è proprio Ummagumma che sancirà la nascita dei futuri Pink Floyd.

Quelli che di lì a poco saranno chiamati da Michelangelo Antonioni per Zabriskie Point e che, soprattutto, licenzieranno il loro primo vero capolavoro: Atom Earth Mother.

— Onda Musicale

Tags: Roger Waters/Nick Mason/Syd Barrett/David Gilmour
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