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Creedence Clearwater Revival: l’album che diede inizio alla leggenda

I Creedence Clearwater Revival

Nel luglio del 1968 il mondo era in subbuglio sotto la spinta dei giovani. Idee rivoluzionarie avevano infiammato il Maggio Francese, la filosofia hippie imperversava in America. In tutto ciò, una band conservatrice fin dal nome debuttava col primo album: erano i Creedence Clearwater Revival.

Pur arrivando da El Cerrito, una cittadina dell’area di San Francisco, in California, i Creedence Clearwater Revival non fanno parte della coeva ondata psichedelica; così, mentre San Francisco diventa la patria dei figli dei fiori e della Summer of Love, John Fogerty e soci scelgono un’altra via, tradizionale e al tempo stesso coraggiosa.

La guerra del Vietnam, le istanze pacifiste, l’allargamento della coscienza: tutto questo, almeno inizialmente, rimane lontanissimo dalla filosofia rock’n’roll dei Creedence Clearwater Revival. E mentre Jefferson Airplane, Grateful Dead e decine di altri gruppi portano una rivoluzione politica e musicale, i nostri cercano di riportare la scena ai tempi d’oro del rock’n’roll.

Camicie a quadri, look dimesso, una sezione che pompa come uno stantuffo e un leader che canta con voce rabbiosa e fa ringhiare la chitarra; questi sono i Creedence Clearwater Revival quando debuttano col primo, omonimo disco.  Le radici del gruppo vanno cercate alla fine degli anni ’50.

Da principio il leader è Tom Fogerty, fratello maggiore di John, futuro boss del gruppo. Tommy Fogerty & The Blue Velvets suonano un canonico quanto sanguigno rock’n’roll e sono formati da tre compagni di scuola di El Cerrito. Tom canta e suona la chitarra, Stu Cook il basso e Doug Clifford la batteria. A loro si aggiunge presto il giovane fratello minore di Tom, John Fogerty.

John è a sua volta cantante e chitarrista; tuttavia è molto più bravo di Tom e questo sarà in una volta il seme sia del successo che dello scioglimento.

Grazie ai contatti di John, alla fine del 1961 i ragazzi registrano dei pezzi che però non hanno nessun successo. I quattro allora si dividono e trovano lavori lontani dalla musica. Tom fa il camionista, Doug è assunto come guardiano notturno e Stu collabora con lo studio legale del padre. John è l’unico a inseguire ancora il sogno di fare musica; rimane nell’ambiente, iniziando a collaborare con la Fantasy, etichetta specializzata nel jazz.

Saul Zaentz, il bizzoso capo della Fantasy, vuole dare ai giovani un’ultima possibilità e i quattro si trovano di nuovo a registrare come The Visions. Questo inizialmente, visto che poi i pezzi vengono pubblicati a nome The Golliwogs.

La band ottiene un timido successo, ma la chiamata alle armi di John cristallizza una situazione che esploderà proprio grazie a questa pausa. Nel periodo lontano da casa John suona con musicisti di diverse estrazioni, maturando un nuovo sound. Al ritorno prende definitivamente le redini e il sopravvento negli equilibri della band.

Nascono così i Creedence Clearwater Revival.
Il nome – così racconta John – è ispirato dal vecchio amico Creedence Newball, dallo spot di una birra (It’s cool, clearwater) e dalla volontà di recuperare le radici del r’n’r. È subito successo.

Il disco è composto da otto canzoni a cavallo di vari generi, una mistura che farà la fortuna della band; il Bayou Sound, così lo chiameranno, quasi a rimarcare la distanza dalla musica californiana del periodo. Un suono che pare uscire dalle paludi del profondo sud degli Usa, proprio quel bayou che si trova in Texas e Lousiana.

Il rock’n’roll dei padri fondatori è la base, ma anche il blues più grezzo e il country dei cowboy, tutto questo costituisce la cifra dei Creedence Clearwater Revival. John è un chitarrista spesso sottovalutato, il cui nome non trova mai posto tra i grandi guitar hero; eppure la sua tecnica, pur grezza e priva di grandi virtuosismi, è di incredibile efficacia.

Il suono della sua sei corde è tagliente, metallico e acido; le frasi che John sciorina con apparente facilità, quasi noncuranza, sono nervose e secche. I suoi lick ripetuti e inconfondibili gettano un ponte tra il rock’n’roll di Scotty Moore e il chitarrismo selvaggio di Buddy Guy, senza restare all’oscuro delle nuove suggestioni hendrixiane.

Il primo album si apre subito con una cover, ce ne sono tre in tutto l’album, un brano che fa già storia a sé. L’attacco è infatti di I Put a Spell On You, micidiale versione del classico di Screamin’ Jay Hawkins. Il brano, già coverizzato mille volte da altri artisti, acquista nuova vita con una versione furente e indimenticabile.

L’andamento cadenzato della chitarra ritmica ha il respiro del grande classico; il pathos della voce di carta vetrata di John Fogerty è ancor più stupefacente se pensiamo che il cantante all’epoca un 23enne al debutto. I lunghi assoli di chitarra diventano un vero e proprio standard per il rock di ogni tempo. Un inizio che lascia l’ascoltatore attonito ancora oggi, chissà qual era l’effetto all’epoca? Possiamo solo immaginarlo.

Creedence Clearwater Revival prosegue con The Working Man, inno del lavoratore americano; è facile vedere in un testo così semplice, operaio in un certo senso, la contrapposizione ai raffinati intellettualismi psichedelici delle band della Bay Area. In realtà non c’è volontà politica nei ragazzi di El Cerrito: loro stessi passeranno a contestare il Vietnam e a scrivere testi più impegnati, di lì a poco.

Ma nel 1968 i Creedence Clearwater Revival vogliono solo divertirsi col blues e col rock’n’roll. The Working Man, musicalmente, deve molto alla Paul Butterfield Blues Band di Born in Chicago; in questo pezzo il sound è puro blues, con la scintillante e grezza chitarra di John Fogerty in bella evidenza.

Al terzo brano della loro nascente carriera, la band azzecca subito un altro cavallo di battaglia, Suzie Q. Il pezzo – una cover di Dale Hawkins – mostra qualche ambizione in più, con una durata che supera gli otto minuti. L’ossessionante riff di chitarra profuma di paludi e – riproposto in tante varianti – sarà un cliché della band californiana.

Suzie Q è uno dei pochi pezzi in cui alla voce solista John si alterna col fratello Tom; la vocalità di Tom, a suo modo più raffinata e suadente di quella selvaggia di John, risulta tuttavia meno efficace. Gli assoli di chitarra sono molteplici e lancinanti; la ritmica lavora incessantemente e qualche parte più sperimentale si ravvisa nei cambi di timbro della chitarra e in alcuni bizzarri cori quasi da west coast. L’effetto è a tratti straniante.

Il brano rimane un cavallo di battaglia, l’unico successo da classifica non scritto da John Fogerty, e assurgerà anche a manifesto dell’epoca e delle contestazioni al conflitto vietnamita.

Il lato B si apre con Ninety-Nine and a Half (Won’t Do), ultima cover del disco. Il pezzo, dalle parti del soul blues, fa parte del repertorio di Wilson Pickett e John Fogerty sfoggia una prestazione grintosa, abbastanza nera da non far rimpiangere l’originale. Il brano, estremamente compatto, non risulta tra i più memorabili ma non fa comunque calare la tensione.

Get Down è una nuova immersione nel blues più genuino.
La chitarra – ancora più grezza e ficcante – pare uscire da qualche juke-joint del Mississippi, mentre la voce di Fogerty è qui leggermente più carezzevole. Sembra davvero un pezzo del blues elettrico prima che venisse fagocitato dal rock e dai decibel delle moderne amplificazioni. La chitarra di John non ha nulla da invidiare a quelle di Otis Rush e Buddy Guy; difficilmente dei musicisti bianchi sono mai riusciti a essere più credibili nel suonare il blues.

Porterville è un brano che era stato registrato in origine come Golliwogs; la differenza si sente, siamo quasi più in terreno beat, anche se le peculiarità dei musicisti sono più che evidenti. La canzone risulta però un po’ disorganica nel tessuto di questo primo album.

Gloomy è ancora una composizione di John Fogerty, anche se il debito con la classica Spoonful di Willie Dixon è piuttosto evidente; siamo davvero ai limiti del plagio, anche se nel campo del blues le questioni sono sempre scivolose, esistendo il concetto di standard e di strutture musicali fisse.

Il brano suona bene e il debito vocale di John con Howlin’ Wolf è pagato col sinistro ululare prima dell’assolo di chitarra. Ed è proprio la sei corde, ronzante e quasi dissonante, a segnare la particolarità di un brano che nel corpus generale finisce per essere quasi trascurabile.

Walk on the Water è di nuovo un brano dei Golliwogs, stavolta però riarrangiato in chiave Creedence Clearwater Revival; il risultato è peculiare. L’ossatura del brano, melodica e quasi cupa, è molto diversa col loro nuovo sound, tuttavia l’arrangiamento più duro e acido fa sì che la differenza rimanga quasi impalpabile. John nel finale sciorina uno dei suoi tipici assoli, a chiudere questo primo, riuscito album.

Tirando le somme, il debutto sulla lunga distanza dei Creedence Clearwater Revival è sicuramente un disco molto riuscito. Forse i ragazzi pagano un po’ di fretta e di inesperienza in sala di registrazione; la prima parte è infatti di gran lunga più efficace della seconda facciata, dove, a parte qualche intuizione blues, i brani calano di qualità.

Manca però pochissimo: già dal 1969, in cui i ragazzi licenziano ben tre album, il suono sarà più a fuoco. Coi dischi successivi il Bayou Country dei Creedence Clearwater Revival lascerà le immaginarie paludi della California per conquistare il mondo.

https://www.youtube.com/watch?v=M5x02GWp8jU

— Onda Musicale

Tags: Grateful Dead, Jefferson Airplane, Creedence Clearwater Revival, Buddy Guy
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