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A briglia sciolta: “Horses” di Patti Smith

Nel 1975 New York era una città non particolarmente ospitale. Gang di teppisti infestavano quartieri che, fino a qualche anno prima, erano tra i più lussuosi del mondo: Bronx, Queens…

Addirittura la stessa polizia, all’uscita del JFK Airport, distribuiva pamphlet intitolati “Welcome to Fear City”, su come sopravvivere nella città della Grande Mela. Il fatto è che in quel periodo la città si trovava in crisi finanziaria e migliaia di persone erano senza lavoro. Il crimine iniziò a dilagare e bande armate occupavano i quartieri dei sobborghi. Anche il cinema ce lo mostra: Taxi Driver, I Guerrieri Della Notte, sono film che girano intorno a storie di degrado urbano. Ed è in questo contesto che bisogna inserire Horses, il primo disco di Patti Smith.

Perché è uno dei più importanti capolavori della discografia rock? Cioè, perché una ragazzina ribelle è riuscita a smuovere così tanto le acque da formare uno tsunami culturale che perdura ancora oggi?

Patti Smith è figlia del suo tempo

A New York la musica si era già smossa da qualche anno, soprattutto grazie ai Velvet Underground di John Cale e Lou Reed. Anche il mondo dell’arte non era rimasto fermo, ma è inutile che vi parli di Andy Warhol o di Mapplethorpe. E Horses si colloca in quel buco libero, occupa il posto che gli spetta e che trova libero non per pura circostanza, ma perché era il suo destino.

Non è un caso, d’altronde, che Patti Smith sia la Sacerdotessa del rock. Il livello di artisticità di questa donna è sorprendente: nasce come poetessa e, con l’intento di diventarlo, si trasferisce a NY. Qui entra subito a contatto con le realtà artistiche della città e conosce Robert Mapplethorpe, che sarà suo compagno per qualche anno. Sua è la foto di copertina del disco.

Dopo aver scritto delle liriche poetiche, Patti decide di scrivere canzoni

Nasce così Horses, album al quale lavora insieme a quel John Cale che, con i Velvet Undergound, ha contribuito a trasformare il rock in musica d’arte. E il suo tocco si sente. Basti pensare a Birdland, terza traccia, o al long medley Horses/Land Of A Thousand Dances/Mer(de).

Non è facile scrivere un album. Voglio dire: non è facile mettere in piedi una struttura che si regga da sola e che non sia un semplice contenitore di canzoni. Inoltre, io che ho vissuto le audiocassette e il walkman, mi metto nei panni di chi ascoltava musica in vinile: ad un certo punto il supporto va girato, e il rischio di perdere l’aura magica che si è creata, è fortissimo. Il musicista deve essere davvero bravo a riportarci allo stesso punto in cui ci siamo fermati. Al punto in cui, finita l’ultima canzone prima di doverci alzare per girare il vinile e rimettere la puntina al punto di partenza, il mondo che ci circonda, con i suoi suoni, le sue luci, i rumori, i clacson, gli odori, ci inonda di realtà incondizionatamente. Il disco ha solo le prime note, solo i primi secondi di suoni per riportarci nel mondo delle meraviglie.

E, cavolo, Horses è tutto così!

Non fraintendetemi, non è certo l’unico disco realizzato in questo modo (e, dicendolo, credo di sfondare non una porta ma un cancello aperto), ma Horses è proprio su un altro pianeta. Sarà il misticismo, sarà la spiritualità intrinseca, sarà che Patti Smith era davvero la persona giusta nel luogo giusto, aiutata dalle persone giuste, ma è davvero innegabile che questo disco sia un capolavoro totale.

John Cale, che ha studiato con La Monte Young (che non era certo uno qualunque), ha saputo tirare fuori tutto dalla band il meglio di loro stessi. Il pianismo di Richard Sohl è magico e viene spesso usato per aprire i brani più evocativi; Lenny Kaye, alla chitarra, ci riporta subito ai Velvet Undergound o ai Doors, non tanto per il tocco della sua mano ma per il sound. E la voce di Patti Smith è leggendaria: dolce quando serve, ma cattiva al punto giusto da far credere che abbia inventato il Punk.

I ritmi sono spesso forsennati e, come horses, le canzoni tendono ad accelerare fino al galoppo, come accade in Gloria (In Excelsis Deo). Eppure tutto assume una tinta pacifica. Il senso di spiritualità che pervade tutto il disco sovrasta l’agitazione della musica. La voce della Smith rende le sue canzoni delle vere e proprie preghiere.

E poi i testi

Maria Teresa Rachetta, su ondarock, dice che “I testi di Patti Smith sono tra i migliori della storia del rock, ma darle della poetessa equivale ad ammettere implicitamente una superiorità della poesia rispetto alla canzone”. E sono d’accordo. Ma mi prendo la responsabilità di dire che leggere i suoi testi è leggere delle poesie. È verissimo che la musica (le canzoni) e la poesia sono due materie diverse tra loro, ma la grande capacità di Patti Smith sta proprio nel riuscire a rendere bene entrambe le facce della medaglia. Le sue liriche funzionerebbero benissimo anche quando fossero solamente lette. Rimbaud è il suo grande maestro ispiratore. Solo Dylan è riuscito a fare altrettanto, e gli hanno anche dato un Nobel.

Anche la foto della copertina, di Mapplethorpe, diede ulteriore spinta al successo di un disco che aveva fama già nel DNA. La Smith viene presentata come Frank Sinatra o un altro crooner di rilievo, vestita in modo androgino con un completo maschile e la cravatta non legata, come fossero bretelle.

Per Patti Smith, l’arte rappresenta una questione centrale, fondata su tre aspetti fondamentali: ricerca, metodo e spiritualità. Tutto è rivolto alla costante ricerca di comunicare qualcosa che veicoli la sua essenza. Cosa che farà capire bene con i lavori successivi.

(articolo scritto da Fabio Saba)

— Onda Musicale

Tags: Patti Smith, Bob Dylan
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