Nel mio precedente articolo Ten dei Pearl Jam, la storia di un capolavoro del grunge ho accennato alla storia della nascita del grunge e al contesto storico che l’ha generato.
Ho parlato brevemente del DIY, l’etica punk su cui si basa il genere, ovvero il totale disprezzo per il mainstream e l’indipendenza dalle major a favore delle etichette indie come la Sub Pop.
Seattle e la poetica del grunge
Ho accennato anche – ma qui approfondirò l’argomento – a come il grunge sia stato, per molti protagonisti della scena, un atto di ribellione contro le ingiustizie e i soprusi causati dalla crisi dell’America reaganiana. Confluiti tutti a Seattle, nello Stato di Washington, non si diedero però l’obiettivo di cambiare il mondo. Seattle era un territorio fertile, perfetto per veder realizzato un connubio tra metal e punk, la musica che tutti loro hanno amato da bambini e adolescenti. Era una città piccola, isolata, motivo per cui fu semplice per le band crescere mantenendo purezza e onestà, c’era poca contaminazione rispetto alle grandi metropoli. I toni crepuscolari e il clima perennemente uggioso, inoltre, abbracciavano alla perfezione la sensazione di malessere espressa dal grunge.
Non c’erano scopi da perseguire, risposte da cercare e condividere, c’erano solo impotenza, cinismo e sentimenti di dissenso
Era di questo che, pur non volendo, si fecero testimoni i grunger, rifiutando i fenomeni di divismo e la musica da classifica. Diventarono testimoni della rabbia, dell’angoscia e del malcontento della loro generazione. Una generazione che tentò di cambiare al massimo sé stessa per affrontare la propria realtà, poiché troppo rassegnata e disillusa per rivoluzionare il sistema. Il grunge più di tutti, infatti, è il genere degli outsider, di giovani musicisti alieni ai modelli genitoriali, che rifiutavano le istituzioni e preferivano sentirsi onesti ai margini della società invece che abbracciare l’estetica imposta dai mass media.
I Nirvana
Nell’85 Kurt Cobain fonda con Dale Crover i Fecal Matter, rilasciando al Chicago Tribune un’intervista in cui annuncia l’intenzione di omaggiare le band hardcore con cui è cresciuto (Alice Cooper, Kiss, MC5), facendosi crescere i capelli e fregandosene del giudizio della critica. Grazie alla sua amicizia con i Melvins, band dallo stile heavy metal di forte ispirazione per i grunger, conosce Krist Novoselic. Insieme fondano gli Stiff Woodies, nome poi cambiato in Nirvana per comunicare un senso di libertà.
Nirvana significa liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno e questo si avvicina al mio concetto di punk.”
(Kurt Cobain)
Il primo album, Bleach, fu pubblicato dalla Sub Pop nell’89. Non entrò in classifica ma fu recensito positivamente dalla critica. Alla batteria non c’era ancora Dave Grohl, che all’epoca suonava negli Scream. Quando la band si sciolse, Buzz Osborne (Melvins) lo mise in contatto con Novoselic e così entrò nei Nirvana.
Nevermind
Il 24 settembre 1991 uscì Nevermind, album che spodestò Dangerous di Michael Jackson dalla vetta della Billboard 200, vendendo circa 300mila copie a settimana. Il percorso dei Nirvana verso il successo era iniziato grazie a Butch Vig, produttore discografico che era stato fortemente voluto da Kurt per via della sua vicinanza a band prettamente punk. La Geffen Records tentò svariate volte di spingerli a adottare produttori di personaggi importanti come i R.E.M. o Neil Young, ma Kurt voleva restare nel mondo indipendente. Questo fu solo uno dei conflitti affrontati durante la produzione dell’album. Tra gli altri: i problemi di alcolismo di Krist, gli sbalzi umorali di Kurt e la tendenza a cantare a squarciagola perdendo la voce.
La registrazione avvenne chiudendosi in studio tra le 8 e le 10 ore al giorno, quasi interamente in presa diretta per dar vita all’energia della band e mettere in evidenza la bellezza della voce sofferente di Kurt. Si occupò del mixaggio Andy Wallace, produttore degli Slayer scelto da Cobain, ma il risultato non fu come se lo aspettava la band. Nel frattempo, i Nirvana partirono per un tour di sette mesi in cui distrussero strumenti, litigarono con i buttafuori e incitarono il pubblico alla rivolta. Insomma, rimasero fedeli all’etica del punk, rifiutando anche un tour con Metallica e Guns N’ Roses. Il mixaggio di Andy Wallace, però, sancì la fine dell’atmosfera libera respirata fino ad allora e l’inevitabile avvicinamento alla commercialità.
Il produttore addolcì il suono fino a renderlo artefatto, costruì un prodotto con una scaltra operazione che consisteva nel non apparire troppo commerciali per poi esserlo a tutti gli effetti.
Kurt era l’emblema della contraddittorietà, a volte si diceva scontento, altre volte sosteneva di aver trovato un equilibrio tra l’alternative e la commercialità. Non rifiutò i soldi guadagnati né i premi vinti e comparve sulle copertine di Rolling Stone e Kerrang!. Il video di In Bloom vinse addirittura il premio di miglior video alternative agli Mtv Music Awards, manifestazione mainstream che avevano sempre rifuggito.
Kurt presentò Smells Like Teen Spirit agli altri quando era solo un riff di chitarra e una melodia senza testo. Non fu presa subito sul serio, lo stesso Cobain la definì «uno stupido mix tra Louie Louie e More Than a Feeling». Fu riconsiderata quando Vig capì che l’energia della chitarra e la voce graffiante la rendevano seducente e rabbiosa. Si tratta infatti di un anti-inno rivolto a una generazione apatica, cresciuta durante gli anni Ottanta e annebbiata dai media. E lo fa con suoni e liriche schizofreniche che colpiscono come un calcio in piena faccia.
L’ispirazione per il titolo arrivò durante una notte in compagnia della cantante delle Bikini Kill, Kathleen Hanna, che scrisse sul muro della casa di Cobain «Kurt smells like teen spirit» per prenderlo in giro. Era il riferimento a un deodorante per adolescenti, il Teen Spirit. Kurt non conosceva il prodotto, perciò credeva che l’amica avesse apprezzato la discussione che avevano avuto su anarchia e punk dicendo che Kurt profumava ancora di uno spirito adolescenziale e rivoluzionario. Cobain ha anche ammesso di aver scritto il brano ispirandosi ai Pixies, band da lui molto amata, e di aver preso da loro il senso dinamico, iniziando con suoni più tenui per giungere all’esplosione finale.
Anti-inno o no, è subito diventata un vero inno per i giovani degli anni Novanta, frustrati, dimenticati, disillusi e senza prospettive future, l’inno di chiunque non si riconoscesse nella società.
E questo grazie alla combinazione del suono rabbioso, della melodia malinconica e delle liriche ironiche. La ricetta perfetta per esprimere la rassegnazione e la rabbia dell’epoca.
I’m worse at what I do best / And for this gift, I feel blessed / Our little group has always been / And always will until the end”
(Sono il peggiore a fare ciò che faccio meglio / E per questo dono mi sento benedetto / Il nostro piccolo gruppo è sempre esistito / E sempre esisterà fino alla fine)
Le liriche enigmatiche, spesso indecifrabili, in questo caso sono di facile interpretazione e forse è per questo che il brano si è aggiudicato un ruolo così importante: «Caricate le pistole e portate gli amici», «Mi sento stupido e contagioso».
Insomma, sentiamoci stupidi e contagiosi insieme agli amici, non c’è nessuna fretta di diventare grandi, facciamo festa e neghiamo tutto il resto, non dobbiamo preoccuparci di nient’altro. Non ci piacerebbe mettere il naso fuori e annusare questo mondo che ci respinge. Meglio spegnere le luci, divertirci e negare. A denial, a denial, a denial.
In Bloom è un brano energico dall’inizio alla fine, totalmente in stile grunge. Il sound esplosivo è sostenuto dalla voce raddoppiata di Kurt e dalle armonizzazioni di Dave Grohl. Fu difficilissimo per Vig convincere Kurt a sovraincidere la sua voce, dato che il frontman voleva restare fedele all’etica punk. Riuscì a farlo solo dicendogli: «L’ha fatto anche John Lennon». Determinanti per l’energia del brano sono anche la potenza e la precisione di Grohl alla batteria, che con le sue stoccate dure e decise ha aiutato a veicolare il messaggio (nonostante il suono fu un po’ semplificato durante il mixaggio).
Il messaggio è nascosto nell’ormai nota contraddittorietà di Cobain
E si ripete all’infinito per tutta la durata della canzone. Kurt voleva essere una rockstar ma non voleva il successo, voleva la popolarità ma non voleva l’ipocrisia. Invece iniziava a trovarsi davanti un pubblico che lo seguiva per moda senza capire il significato delle canzoni e della musica underground.
He’s the one / Who likes all our pretty songs / And he likes to sing along / And he likes to shoot his gun/ But he knows not what it means”
(Lui è quello / A cui piacciono tutte le nostre canzoncine carine / E gli piace cantare a lungo / E gli piace sparare con la sua pistola / Ma lui non sa cosa vuol dire)
Costruito su un giro magnetico di basso e chitarra, anche Come as You Are è un brano dalla classica struttura formata da strofa e ritornello. Una canzone semplice ma non immediata, suonata con la rabbia tipica del genere. Rabbia generata dal tema molto caro a Cobain dell’accettazione di sé stessi e degli altri.
Come, as you are / As you were / As I want you to be / As a friend / As a friend / As an old enemy”
(Vieni come sei / Come eri / Come voglio che tu sia / Come un amico / Come un amico / Come un vecchio nemico)
Ispirata a un cartello che vedeva quando scappava dalla famiglia e si rifugiava in un ostello, si può interpretare come una canzone sull’importanza di essere sé stessi, a prescindere da quanto si è incasinati. Ciò che conta è non dimenticare chi siamo e non uniformarci alle convenzioni. Interessante, a questo proposito, il verso ripetuto con gravità in una sorta di cantilena: «And I swear that I don’t have a gun», giuro di non avere una pistola. Probabilmente un modo per sottolineare la distanza dalla società, e quindi una dichiarazione convinta di rinnegamento delle convenzioni (sebbene poi sappiamo tutti come sia andata a finire per lo stesso Cobain).
Breed è una canzone punk come la voleva Cobain, alla Ramones. Riff di chitarra aggressivo, basso adeguatamente distorto (ovvero, il più possibile), amplificatori a palla e la voce di Kurt urlata come al solito.
Il titolo del 1989 era Immodium (con una “m” di troppo), dal nome del medicinale contro la dissenteria. La versione originale fu incisa agli Smart Studios con Vig nel ’90, ma quel titolo non c’entrava nulla col testo della canzone. Anche stavolta è difficile dare un’interpretazione universale. Potrebbe raccontare una relazione, come sembrerebbe dal ripetuto «She said» dopo ogni ritornello, quasi si volesse catturare un dialogo.
Oppure potrebbe esprimere la sensazione di essere intrappolati nell’America della classe media.
We don’t have to breed / We can plant a house / We can build a tree / I don’t even care”
(Non dobbiamo allevare / Potremmo piantare una casa / Dovremmo costruire un albero / Non mi interessa nemmeno)
O magari potrebbe significare tutto questo insieme, potrebbe voler mostrare il desiderio di Kurt di avere una famiglia al di fuori dei canoni imposti dalla società. Senza dover per forza procreare, comprare una casa o piantare un albero.
Lithium fu uno dei brani registrati agli Smart Studios nel ’90, incluso nel demo che girò per le major prima di approdare alla Geffen. È un pezzo che alterna momenti calmi e suoni abrasivi, senza gentilezza nel passaggio tra gli uni e gli altri, che al contrario avviene in maniera brusca e improvvisa, senza avvertimento.
Il nome potrebbe rimandare all’uso del litio come stabilizzatore dell’umore. Questo e le liriche vaghe ha fatto sì che nascesse l’interpretazione controversa della descrizione del disturbo bipolare, anche se non ci sono prove che Kurt ne soffrisse. Inoltre Cobain disse che la canzone raccontava di un uomo che trova Dio e la salvezza nella religione dopo la morte della sua ragazza.
I’m so lonely, that’s okay, I shaved my head / And I’m not sad / And just maybe I’m to blame for all I’ve heard / But I’m not sure / I’m so excited, I can’t wait to meet you there / And I don’t care / I’m so horny, that’s okay”
(Sono così solo, e va bene, mi sono rasato la testa / E non sono triste / E solo forse sono da incolpare per tutto ciò che ho sentito / Ma non sono sicuro / Sono così emozionato, non vedo l’ora di incontrarti lì / E non mi interessa / Sono così eccitato, e va bene)
Polly è una delle poche canzoni difficili da fraintendere. È il racconto di uno stupro dal punto di vista del violentatore, basato su un fatto di cronaca accaduto nell’87 a Tacoma. Una ragazzina di 14 anni fu rapita, stuprata e torturata in un camper, riuscì a fuggire e l’uomo fu arrestato e condannato.
Il testo è disturbante quanto geniale, nella sua doppia lettura. È il racconto di una violenza ma anche una riflessione sulla dicotomia bene-male e sui giochi di potere. D’altronde lo stupro ha molto a che fare con questo, col senso di potere esercitato sulla vittima, come si evince dalle riflessioni del violentatore.
Polly wants a cracker / I think I should get off her first / I think she wants some water / To put out the blow torch / Isn’t me, have a seed / Let me clip your dirty wings / Let me take a ride, cut yourself / Want some help, please myself”
(Polly vuole un cracker / Penso che dovrei scendere da lei prima / Penso che voglia un po’ d’acqua / Per spegnermi la fiamma ossidrica / Non sono io / Noi abbiamo qualche seme / Lasciami tagliare / Le tue sporche ali / Lasciami fare un giro / Non farti male / Voglio un po’ d’aiuto / Per aiutare me stesso)
Fu uno dei pochi pezzi non ritoccati dalla Geffen Records, perché la registrazione scarna solo chitarra e voce esprimeva alla perfezione la devastazione della violenza. È una canzone intima, dal suono delicato, fondata su basso e melodia ripetitiva. Non ci sono stacchi furiosi tipici della band, al contrario, un’atmosfera pacata che sfocia nell’inquietudine.
Con Territorial Pissings torniamo al sound punk: pochi accordi, batteria rabbiosa, voce urlata fino a stonare. Stavolta sembra che il brano non abbia un significato, come dice lo stesso Cobain, che ammette di scrivere spesso i testi in studio, in fase di registrazione, e nella metà dei casi non sa cosa voglia dire.
Drain You sembra essere la preferita di Kurt, che la eleva al di sopra di Smells Like Teen Spirit. Non è chiaro se tratti della relazione che ha avuto il frontman con Tobi Vail delle Bikini Kill o del suo rapporto con l’eroina: «I travel through a tube / And end up in your infection», viaggio attraverso un tubo e finisco nella tua infezione.
Crover alla batteria costruì la ritmica, il giorno dopo Kurt scrisse il testo e aggiunsero il bridge strumentale, un suono sperimentale vicino al punk ma più vicino ancora al sound dei Sonic Youth, considerati i padri della scena alternativa.
Lounge Act è un titolo insolito per dei grunger, si riferisce a un suono da band lounge e fu scelto ironicamente, dato che non c’entra nulla con l’esecuzione del brano. Cobain finisce infatti per urlare a squarciagola come suo solito su un riff di chitarra ripetuto che ricorda molto lo stile dei Sex Pistols.
Si potrebbe interpretare anche questa come una canzone su una delle relazioni di Kurt, precisamente sulla rottura con Tobi Vail. A validare questa ipotesi ci sarebbe una lettera citata nella biografia di Cobain, Heavier Than Heaven di Charles R. Cross, destinata alla batterista delle Bikini Kill:
Not all the songs on the record are about you. No, I’m not your boyfriend. No, I don’t write songs about you, except for Lounge Act, which I don’t play except when my wife is not around.”
(Non tutte le canzoni dell’album parlano di te. Non sono il tuo ragazzo. No, non scrivo canzoni su di te, tranne che Lounge Act, che non suono se c’è mia moglie)
Stay Away è un omaggio al punk tanto amato, come Breed e Territorial Pissings.
La prima versione registrata agli Smart Studios aveva il titolo Pay To Play, riferito all’uso di far pagare il palco alle band e di farle suonare solo se garantivano un pubblico (e quindi l’acquisto del biglietto). Il testo è chiaramente provocatorio, senza un filo conduttore che unisca tutti i versi, come capita spesso. «Rather be dead than cool» e «Fashion shits, fashion style» potrebbero essere i versi chiave, che vogliono contrapporsi a moda e popolarità.
On a Plain è definita dallo stesso Vig un pezzo pop, e in effetti non si può dargli torto, seppur mantenga bene lo stile Nirvana. Il testo anche in questo caso sembra mancare di senso logico e di un significato preciso, è costruito associando frasi e idee contraddittorie.
Something in the Way viene registrata in modo molto diverso rispetto agli altri brani. Kurt seduto da solo sul divano, chitarra appena sfiorata e voce bisbigliante… una melodia inquietante che ipnotizza e incanta (perfetta per il film The Batman, grazie al quale sono risaliti gli ascolti, fino a superare il milione).
Underneath the bridge / Tarp has sprung a leak / And the animals I’ve trapped / Have all become my pets / And I’m living off of grass / And the drippings from my ceiling / It’s okay to eat fish / Cause they don’t have any feelings / Something in the way”
(Sotto al ponte / Il telo ha aperto una falla / E gli animali che ho catturato / Sono tutti diventati miei animali domestici / E sto vivendo fuori dall’erba / E lo sgocciolio dal cielo / Ma va bene mangiare pesce / Perché non hanno sentimenti / Qualcosa lungo il percorso)
È la storia di Kurt, raccontata per la prima volta in modo dettagliato e senza rumori eccessivi in sottofondo a distrarre dal significato. Rievoca i momenti in cui, cacciato di casa da tutti i parenti, era costretto a vivere sotto un ponte. Quel «something in the way» è la chiave del testo: ogni volta che credeva di sentirsi meglio, qualcosa si metteva in mezzo e lo ricacciava in una pericolosa abulia.
Il regista di The Batman, Matt Reeves ha dichiarato che il suo film è basato proprio sul frontman dei Nirvana. Ha voluto raccontare un Bruce Wayne vulnerabile e segnato dalle tragedie passate, episodi che lo hanno reso un recluso.
Una rockstar ma anche un recluso, come Kurt Cobain.
Per finire, Endless, Namless è una ghost track, una traccia nascosta, inizialmente esclusa dall’album e poi reinserita. Anch’esso un brano furioso, che si apre con strumenti distorti e voce urlata. Poi sembra calmarsi, si inseriscono vocalizzi quasi annoiati finché si torna a distorsioni e grida che rendono impossibile la comprensione delle parole. E avanti così per sei minuti, fino alla fine del brano.
È uno sfogo che nasce dopo la registrazione di Lithium: Kurt non riusciva a chiudere una take decente e per scaricare la rabbia ha chiesto agli altri di suonare come se fossero in prova. Ne approfittò per urlare, tirare calci, rompere una chitarra. La canzone fu registrata ma non uscì nelle prime copie di Nevermind, appena si resero conto dell’errore lo fecero ristampare. Nell’edizione originale parte dieci minuti dopo Something in the Way, come una sorta di scherzo.
Credevi di aver concluso l’ascolto con un brano lento e tranquillo, poi la realtà tornava a bussare alla tua porta: non c’è niente di lento e tranquillo nella vita e neanche nell’album dei Nirvana.
Uno degli ultimi capolavori coerenti e onesti prima della nascita del fenomeno che scoppiò a livello mondiale. L’arte povera per disadattati divenne una moda e fu decontestualizzata, perse il suo vero significato e tutta la sua importanza. Kurt, si sa, non riuscì a sopportarlo.
(Fonti: Barbara Volpi, La storia del rock – Smells Like Teen Spirit, Editori Riuniti, Roma, 2005)