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White Album: un prisma eclettico che seduce ancora (prima parte)

Ammetto di essere in “leggero” ritardo nel parlare dei dischi che nel 2018 hanno compiuto cinquant’anni, ma ciò non mette affatto in discussione l’importanza di tali traguardi.

L’emozione che si prova nell’ammirare i capolavori del 1968 diventa eccitante se si pensa che siamo davvero in prossimità di altri straordinari anniversari, a partire da quello del colossale Abbey Road, opus magnum con cui in realtà si chiude la lunga e memorabile avventura dei Beatles, passando attraverso quello di Arthur, opera rock con cui i Kinks si conquistano un posto di tutto rispetto nel panorama del 1969, per concludere in gloria con quello di Let It Bleedla risposta dei Rolling Stones a cotanta concorrenza.

Per quanto riguarda i Beatles, protagonisti di questo articolo, il 2018 li vedeva schierare in campo un agguerrito esercito di edizioni celebrative – da un minimo di 2 cd ad un massimo di 6, più un blu-ray – del 50º anniversario del loro LP eponimo, che in tutto il mondo è conosciuto come il White Album, dato che risalta all’occhio per via della sua copertina completamente bianca, in cui il titolo/nome della band si legge solo perché in rilievo.

Di solito di un libro la prima cosa che si osserva è la copertina. Stessa cosa per il disco dei Beatles. Se un qualsiasi ascoltatore del gruppo mettesse in fila i loro dischi (meglio se in formato vinile) noterebbe che dal 1963 le copertine passano da una concezione basilare – cioè una semplice foto dei quattro, senza chissà quali pretese artistiche – a una progettazione sempre più curata. Le vette le riconosciamo nel biennio 1966-1967, quando il dominante clima psichedelico partorisce gioielli come le copertine di Revolver (opera di Klaus Voormann), Sgt.Pepper’s (ideata da Paul e realizzata da lui in collaborazione con Peter Blake) e Magical Mystery Tour.

Arrivati al 1968, ci acceca un improvviso bagliore. Dopo il carnevale dei colori, il trionfo della luce pura. Cosa che spiazza non poco, dato che la moda psichedelica continua imperterrita, pur iniziando a mostrare segni di stanchezza.

Affacciandoci all’interno dell’album bianco, notiamo che la copertina ci ha ingannati, dal momento che i due vinili di cui è composto sono pieni di colore, il colore dei vari generi musicali che incontriamo lungo questo memorabile viaggio di 90 minuti, articolati in 30 canzoni in cui si passa dall’hard rock al blues, dal collage sonoro alla nostalgia degli anni Trenta, dal pop barocco al folk. Il punto di forza del doppio LP risiede nella potente e audace combinazione di questa incredibile varietà di stili, varietà che un ascoltatore distratto e superficiale potrebbe scambiare per incoerenza e frammentarietà, ma che un fine amante del gruppo coglie nell’insieme come monumentalità.

30 brani non sono pochi. Al giorno d’oggi starebbero all’incirca entro un cd, più o meno, ma nel caso di un 33 giri sono decisamente troppi, dato che il vinile classico può contenere dai 40 ai 60 minuti di musica (divisi tra Lato A e Lato B), indipendentemente dalla lunghezza delle singole canzoni. George Martin, il celeberrimo e acclamatissimo produttore dei Beatles, era dell’avviso di selezionare un numero di brani per la pubblicazione di un singolo disco. Ma i Beatles, superato il momento di comprensibile smarrimento dopo la morte del loro manager Brian Epstein (27 Agosto 1967), erano diventati una forza creativa non più disposta a sottostare al comando di nessuno, nemmeno di Martin stesso, motivo per cui decisero che la raffica dei 30 pezzi era più che giustificata.

Riguardo all’origine delle nuove canzoni non bisogna dimenticarsi che la loro genesi si collocava all’inizio del 1968, nel periodo più o meno lungo di soggiorno nell’ashram (luogo di meditazione) di Rishikesh, in India, dove si erano recati per riscoprire – insieme al Maharishi Maheshi Yogi (guru che Lennon colpisce col suo tagliente sarcasmo in “Sexy Sadie”) – una dimensione spirituale che lo star system aveva fatto loro smarrire. Il bilancio della permanenza indiana era stato abbastanza magro e deludente, dato che solo Harrison era tornato in patria con un rafforzato interesse nella cultura indiana (soprattutto nella spiritualità), ma non lo stesso si poteva dir per le canzoni scritte, che bastavano – e avanzavano – per imbastirci un nuovo disco.

In Aprile tutti e quattro i Beatles erano in patria, e dopo un mese circa si ritrovarono a Kinfauns, l’ampia casa di George Harrison, ad Esher, nel Surrey (luogo dove abitò al 1964 al 1970). Il momento era propizio per provare a sentire come suonavano le nuove composizioni, che impatto avevano all’ascolto. Di questi incontri informali resta testimonianza, dal momento che le registrazioni su nastro di queste prove domestiche hanno ricevuto degno remix e confezionamento nell’ultima edizione del White Album: indipendente dalla confezione, i Kinfauns demos vengono nell’ordine dopo i due cd dell’album originale. Gran parte delle canzoni finiranno nel disco definitivo; qualche brano invece troverà spazio nella produzione solistica post-1970 (es. “Child of Nature”, di Lennon, che diverrà la famosissima “Jealous Guy”, contenuta in Imagine, del 1971).

I demo di Kinfauns, come del resto le takes dell’edizione super deluxe (ascoltabile sul profilo YouTube dei Beatles), dimostrano un gruppo che – nonostante i litigi che potevano capitare qualche volta, e nonostante il breve abbandono di Ringo e di Geoff Emerick – nel memorabile 1968 era ancora assai solido e tutt’altro che in crisi creativa, anzi! Il drastico cambio di rotta con la complessità barocca della psichedelia dell’anno precedente si tradusse in un’esplosione di energia repressa. Questo è il White Album.

[L’analisi delle canzoni troverà spazio nella seconda e ultima parte]

 

— Onda Musicale

Tags: Imagine, White Album, Abbey Road, The Beatles, George Harrison, Revolver, Kinks, Magical Mystery Tour, Brian Epstein
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