In primo piano

“Obscured By Clouds”, il disco più sottovalutato dei Pink Floyd

Obscured By Clouds” è il settimo disco in studio dei Pink Floyd ed è la seconda collaborazione della band di Cambridge col regista francese Barbet Schroeder, dopo “More” del 1969.

Il titolo, che vuol dire letteralmente “oscurato dalle nuvole”, fa riferimento a una zona della Nuova Guinea, vicina ai territori della tribù Mapuga, inesplorata e resa ancor più misteriosa dalla costante presenza di bianche nubi che ne impediscono la vista anche dall’alto. Eppure il titolo può anche essere visto – col senno di poi – un po’ come una metafora del disco stesso, finito “oscurato” dalla grandezza del lavoro precedente (“Meddle”) e soprattutto del successivo, “Dark Side Of The Moon”.

Ciononostante, come per la precedente colonna sonora di “More”, possiamo a buon diritto parlare di un album tutt’altro che minore e che, anzi, riveste particolare importanza nel decifrare il percorso musicale dei Pink Floyd alla vigilia di quello che sarà il loro massimo trionfo e che al tempo stesso minerà definitivamente gli equilibri all’interno del complesso.

Si può addirittura dire che “Obscured By Clouds” sia l’ultima espressione di un vero lavoro di gruppo, visto che da “Dark Side” in poi gli equilibri compositivi si sposteranno sempre più dalla parte di Roger Waters.

Ma andiamo con ordine; il film, innanzitutto.

Barbet Schroeder, dopo l’esperienza tutto sommato positiva di “More”, un crudo spaccato della controcultura sessantottina, dal movimento dei figli dei fiori all’abuso di stupefacenti, gira alcuni documentari e nel 1972 dà un ideale seguito ai temi del film precedente con “La Vallée”. La collaborazione coi Pink Floyd, tre anni prima, è stata quasi idilliaca, tanto da convincere Barbet a tornare sul “luogo del delitto” e ad affidarsi nuovamente al complesso inglese. Il film racconta la storia di Viviane, un’annoiata giovane donna dell’alta borghesia francese, moglie del console francese a Melbourne, che combatte il tedio della vita lontana da casa andando in cerca di oggetti esotici da rivendere a Parigi. Unitasi a una comitiva di hippie guidati da una sorta di guru, li segue in una spedizione che si propone di arrivare ad esplorare la famosa valle oscurata dalle nubi, in cui sperano di trovare un simbolico paradiso inesplorato. La pellicola viene presentata al Festival di Venezia, il 27 agosto del 1972. Il film ottiene scarso successo e anche la collaborazione con i Pink Floyd stavolta va avanti in modo meno fluido che in passato.

Nel 1972 Waters e soci sono in piena esplosione creativa; sono lontani i tempi dell’abbandono di Barrett e del panico che pervadeva “Ummagumma”, con la divisione dei compiti che non faceva altro che mettere in luce la superiorità compositiva di Roger Waters. “Atom Heart Mother” in parte, e “Meddle” soprattutto, hanno segnato il deciso cambio di rotta dalla psichedelia degli inizi e l’avvicinamento al prog. Già da febbraio la suite di “Dark Side” è stata presentata in concerto e i ragazzi si accingono – dopo una serie di aggiustamenti e quadrature – a registrala in studio. La proposta di Schroeder giunge dunque in un momento di massimo impegno, ma il gruppo accetta e affronta di petto, come già era stato per “More”, la registrazione.

Le session si svolgono dal 23 al 29 febbraio in Francia, nel Castello d’Hèrouville, a pochi chilometri da Parigi nella Val d’Oise. Come per “More”, i musicisti guardano le immagini e si lasciano ispirare, scrivendo e registrando i brani in pochissimo tempo. Ultimate le registrazioni partono per un breve tour in Giappone e, una volta tornati, effettuano il missaggio ai Morgan Studios di West Hampstead a Londra.

La fase artistica e tecnica anche stavolta fila liscia, sebbene ascoltando il disco e assistendo al film si nota un certo scollamento tra le immagini e la musica, che sembra quasi un normale disco targato Pink Floyd, a tratti quasi avulso dalle atmosfere oniriche della pellicola. Ma qualcosa stavolta va storto con la casa di produzione di “La Vallée”, Les Films du Losange, fondata dallo stesso regista Schroeder. Sorge una disputa ed è questo il motivo per cui il disco prende il nome di “Obscured By Clouds”, riservando l’unica citazione del film alla parte posteriore della copertina.

Proprio alla copertina, dovuta come sempre allo studio Hipgnosis, è dovuto un curioso aneddoto. Storm Thorgenson era ben poco ispirato dalle immagini del film, e inoltre il proiettore utilizzato non voleva saperne di funzionare, tanto che il sanguigno creativo cercò di metterlo a posto con la forza. Le maniere forti adoperate da Storm fecero spostare le lenti, tanto che l’immagine che era proiettata in quel momento, di un uomo su un albero attraverso cui filtrava la luce, risultò talmente sfocata da apparire come un quadro psichedelico degno dei primi lavori floydiani; a quel punto per Thorgenson i giochi erano fatti, aveva la sua immagine di copertina.

La musica viene impiegata da Barbet Schroeder in modo molto misurato, praticamente solo sui titoli di testa e nelle scene finali con “Obsured By Clouds” e “Absolutely Curtains” che infatti aprono e chiudono anche l’album. Per il resto, le canzoni del disco vengono utilizzate perlopiù in modo diegetico, ovvero fanno da sottofondo ad alcune scene incidentalmente, magari trasmesse da una radio. Va però detto che questa modalità era tipica della cifra da “nouvelle vague” di Schroeder.

Parliamo ora della musica di “Obscured By Clouds”.

Il disco si apre con la title track, uno strumentale teso e vibrante, con la chitarra di Gilmour che emerge dal bordone di sintetizzatore di Wright, disegnando evoluzioni che ben evocano le nubi a cui allude il titolo. Un pezzo che tra il ’72 e il ’73 i Pink Floyd eseguono spesso dal vivo. Si passa a un altro strumentale, “When You’re In”, leggermente più duro, quasi anticipatore delle atmosfere che si faranno concrete in “The Wall”.

Burning Bridges” è il primo pezzo cantato e uno dei brani più in linea con le atmosfere che ritroveremo in “The Dark Side Of The Moon”. La voce di Gilmour declama dolcemente, seguita da una parte di chitarra assolutamente archetipica del suo stile.

The Gold It’s In The…” spezza invece l’atmosfera in modo drastico. Si tratta di un pezzo rock classico, con una ritmica quasi rock blues e qualche accenno glam, allora molto in voga. La chitarra di David Gilmour suona molto più bluesy del solito, quasi a citare Eric Clapton. Un brano molto gradevole ma quasi straniante sia nel contesto, sia rispetto allo stile tipico del complesso.

Wot’s Uh the Deal” è invece una bella ballata che sarà ripresa da Gilmour anche nei live più maturi, nel 2006, nell’ultimo tour con Richard Wright; le atmosfere sono affini ai Pink Floyd più gentili e bucolici, con qualche ricordo beatlesiano che affiora qua e là. Un pezzo di grande suggestione, ingiustamente poco conosciuto.

Con “Mudmen” – un altro strumentale – torniamo verso atmosfere più affini a quelle che di cui sarà permeato “Dark Side”; un lento e placido crescendo che culmina nel solo di Gilmour, con la chitarra che si rifugia nei tipici fraseggi che renderanno leggendario il chitarrista, ma che allora non erano ancora così tipici della sua cifra.

Arriviamo così a “Childhood’s End”, il vertice del disco, almeno per chi scrive; si tratta di una composizione a firma esclusiva di David Gilmour – è anzi l’ultima ad esclusivo appannaggio del chitarrista, almeno fino all’abbandono di Waters – ed è l’ideale punto di congiunzione tra i Pink Floyd precedenti e quelli di “Dark Side”. L’introduzione con il martellante pulsare di un suono artificiale sembra preludere al capolavoro “Time” e così il canto di Gilmour che si fa leggermente più aggressivo del solito. L’assolo di chitarra non è ancora centrato come quelli che verranno, ma il suono e le melodie che David tira fuori sembrano anticipare pezzi storici come appunto “Time” o “Shine On You Crazy Diamond”.

Il titolo è lo stesso del romanzo fantascientifico di Arthur C. Clarke (“Le guide del tramonto” in Italia), che ispirerà anche la copertina di “Houses Of The Holy” dei Led Zeppelin l’anno dopo. Anche la cover di quel disco sarà curata da Hipgnosis, a testimonianza di un filo che lega forse l’ispirazione comune, anche se – va detto – il testo di Gilmour non cita in nessun modo l’opera di Clarke.

Free Four” è invece la canzone che venne scelta come singolo ed è forse il momento in cui si mette maggiormente in luce Roger Waters, abbastanza in disparte nel resto del lavoro. Il pezzo, che in America ebbe un discreto airplay radiofonico, cosa inusuale per i Pink Floyd dell’epoca, ha un suono abbastanza peculiare per la band. L’andamento quasi country e scanzonato è bilanciato dai cupi interventi del sintetizzatore di Wright e da un break chitarristico in cui le atmosfere si fanno molto più blues.

Stay” è invece una placida ballata dominata dalla voce di Richard Wright, che si prende la scena come non accadeva spesso, e resa particolare dall’utilizzo del wah-wah da parte di Gilmour, un’altra rarità. Un pezzo che rilassa prima del finale di “Absolutely Curtains”, lo strumentale che accompagna la scena finale di “La Vallée” e conclude anche l’album. Forse è il momento in cui meglio le musiche si amalgamano con le immagini di Schroeder; le suggestioni create dal tappeto di percussioni – ossessive e oniriche – di Nick Mason e dai ricami tastieristici di Wright, restituiscono un’atmosfera tipicamente floydiana di inquietante attesa. Un sentore trascendentale che ben si accompagna alle immagini del film, raggiungendo il climax con l’inserimento dei canti tribali che segnano la cerimonia con cui si conclude la pellicola, voci che si levano ebbre di esperienze oniriche.

Obscured By Clouds” è così giunto alla fine, un viaggio forse discontinuo e non sempre pertinente rispetto alle immagini del film, ma denso di suggestioni e soprattutto di intuizioni che aiutano l’appassionato a ricostruire i mesi che precedettero la definitiva esplosione dei Pink Floyd; il successo planetario che li proiettò finalmente nell’Olimpo del rock, minando però gli equilibri in modo irreparabile.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, David Gilmour, Richard Wright, The Dark Side of the Moon, Nick Mason, Led Zeppelin, More
Sponsorizzato
Leggi anche
John Deacon e Freddie Mercury: storia di un’amicizia vera e di una ferita mai guarita
Sognare l’America in mezzo al caos: il 1968 dei Rolling Stones [Parte Seconda]