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John Mayall con Eric Clapton, la svolta del blues inglese

John Mayall e Eric Clapton

Nel marzo del 1965 i destini di John Mayall ed Eric Clapton stanno per unirsi; i due musicisti britannici non hanno ancora collaborato, ma solo un anno dopo daranno alle stampe il capolavoro del British Blues.

John Mayall è nato a Macclesfield, un sobborgo di Manchester, il 29 novembre del 1933. John è un po’ più grande della generazione che rivoluzionerà il rock inglese negli anni Sessanta; quei dieci anni in più faranno sì che John divenga una sorta di padre, oltre che talent scout, per i giovani rocker del decennio.

Giovanissimo, si appassiona al blues e al jazz grazie alla grande collezione di dischi del padre; a 13 anni, Mayall è già in grado di suonare con un suo stile personale la chitarra, il pianoforte e l’armonica. Tuttavia il suo amore per la musica dovrà aspettare un po’; dopo il college e il servizio militare svolto in Corea, John trova impiego come grafico pubblicitario.

Quella vita, però, non fa per lui. Sono i tempi in cui in Gran Bretagna impazza lo skiffle e in cui basta un po’ di volontà e qualche amico per mettere su una band. John inizia così a suonare, ma sarà l’incontro nel 1963 con Alexis Korner a dare la svolta definitiva. Korner, con Cyril Davies, è il primo musicista a portare il blues in Inghilterra e, dopo una breve collaborazione, John Mayall decide di buttarsi.

Con Pete Ward alla batteria e Bernie Watson alla chitarra nasce il primo embrione dei Blues Breakers; al basso arriva poi John McVie, che diventerà un grande del rock coi Fleetwood Mac.

Il complesso inizia a esibirsi nei mitici locali di Londra, portando in giro il nuovo verbo del blues; oltre a suonare al Marquee e al Flamingo, Mayall e soci incidono il primo disco, intitolato John Mayall Plays John Mayall. Il disco vende però pochissimo e risulta penalizzato da una certa evanescenza del chitarrista.

Nello stesso periodo Eric Clapton vive una delle tante fasi travagliate della sua vita; Slowhand ha appena conosciuto il successo a diciannove anni con gli Yardbirds, ma li ha già abbandonati. Per Eric il sound della band sta diventando troppo commerciale e lontano dall’ortodossia blues. In quei giorni Clapton divide un appartamento con Ben Palmer, ex compagno d’avventura nei Roosters.

Le idee del chitarrista sono confuse; vorrebbe riformare un gruppo con Palmer, ma questi rifiuta. Ciononostante, i due passano le giornate a discutere di blues, tanto che il giovane Eric decide di andare a Chicago, patria del blues elettrico, a cercare fortuna. Il piano è piuttosto scombinato: per fortuna arriva la telefonata di John Mayall. Una telefonata che cambierà la vita di entrambi.

John ha saputo che Clapton ha abbandonato gli Yardbirds e non ci pensa due volte a proporgli il posto da chitarrista. Tra i due è amore artistico a prima vista; Eric, che è cresciuto coi nonni convinto che fossero i genitori, è in quel periodo alla ricerca di figure di riferimento; Mayall, più grande di dodici anni, gli mette a disposizione casa sua nel Lee Green a Londra e la sua collezione di dischi di blues.

Per Eric è la svolta; passa giornate intere a copiare nota per nota le parti di chitarra di quei vinili; Freddie King, Buddy Guy, Eddie Kirkland, Albert e B.B.King per lui non hanno più segreti.

Alla fine di quel particolare apprendistato, il chitarrista timido degli Yardbirds si è trasformato; ora padroneggia gli stili dei grandi a tal punto da sintetizzarne uno suo, efficace e lirico, intriso di feeling pur sfruttando una gamma di effetti molto varia. Il suo è un blues saturo e pieno, una potenza di fuoco che nella Musica del Diavolo non si era mai vista.

La band, con Clapton che ruba la scena a Mayall, fa faville; il saggio John intuisce l’incredibile potenziale di Eric e lo lascia fare, tanto che il chitarrista diventa l’idolo dei locali di Londra. Il complesso inizia anche a registrare, con alterne fortune. Una session con Bob Dylan, in tour a Londra, non dà buoni frutti; Eric ricorderà come il grande Bob fosse leggermente ubriaco e poco in vena. Meglio va con Jimmy Page in veste di produttore e sforna un paio di singoli: Lonely Years e Bernard Jenkins.

Clapton è però in quel periodo simile alla nitroglicerina; la sua potenza è elevata ma altrettanto instabile. Giovane e libertario, Eric è insofferente al modo di gestire la band di John Mayall, rigido e severo. A un certo punto Slowhand prende e scappa in Grecia col solito Ben Palmer; l’idea romantica è quella di mettere su un gruppo – The Glands – e suonare, l’esito è poco meno che disastroso.

Mayall ancora una volta lo lascia fare; sostituisce Eric con Peter Green, mentre Jack Bruce prende per un periodo il posto di McVie.

L’accordo prevede però che se Eric decidesse di tornare il posto sarebbe di nuovo suo. Così accade e – con un Clapton finalmente centrato – il discorso riprende laddove si era troncato. L’idea iniziale prevede di registrare un live che catturi le loro incendiarie performance – in quel periodo si può leggere sui muri la celebre scritta Clapton is God – ma i mezzi dell’epoca sono limitati e il progetto naufraga.

Si prova allora in studio. L’inizio è disastroso: Clapton vuole usare tutti gli effetti che impiega dal vivo e litiga con tutti anche sulla posizione dei microfoni. Risolte le bizze del giovane fuoriclasse, ogni elemento va al suo posto e quello che ne uscirà sarà uno dei migliori dischi di blues della storia. Quello che – di sicuro – definisce il suono del British Blues.

Il mio ricordo di quel giorno nello studio di registrazione è noi che scarichiamo la strumentazione, la portiamo dentro, suoniamo, ricarichiamo gli strumenti e ce ne andiamo!

Eric Clapton

La testimonianza di Clapton dà la misura della spontaneità del disco; l’intera tracklist viene registrata in una sola giornata e anche la copertina è piuttosto naif. Una foto dei musicisti seduti su un muretto con Eric che legge Beano, una rivista di fumetti molto popolare. Lo scatto diventa iconico, tanto che tra gli appassionati il disco è conosciuto proprio come Beano. Il titolo – in realtà – è semplicemente Blues Breakers with Eric Clapton, a riprova dell’appeal del chitarrista.

La scaletta del disco è divisa tra quattro brani originali di John, uno tradizionale arrangiato e sette standard blues. L’attacco è per il superclassico All Your Love, cavallo di battaglia di Otis Rush e del blues di Chicago. Il pezzo sarà coverizzato infinite volte e ispirerà classici come Black Magic Woman di Peter Green. Mayall e soci calano subito le carte in tavola; il blues sanguigno e istintivo di Rush viene trasportato nella Swingin’ London. La ritmica si fa geometrica, il canto in falsetto di John Mayall evoca gli holler ma con spiccato accento british. La chitarra di Eric fa scintille, stabilendo lo standard del genere.

Un brano epocale che sarò studiato nota per nota da legioni di chitarristi. Allora, però, non si era mai sentito nulla di simile; bisogna considerare questo aspetto, nel valutare la portata rivoluzionaria del suono del ventunenne Clapton.

Il pezzo successivo è Hideaway, uno strumentale di Freddie King con Clapton che si prende tutte le luci dei riflettori. Il brano diventerà una vera palestra per chitarristi, un esame da superare per entrare nell’accademia del blues. Il suono è pulito e potente al tempo stesso; i lick sono studiati minuziosamente, eppure la sensazione dell’improvvisazione rimane. L’organo Hammond di Mayall puntella il tutto assieme alla ritmica puntuale di McVie e Hughie Flint. La perfezione di un brano blues.

Si prosegue con Little Girl, originale di John Mayall composto in perfetto stile Chicago. Il brano non è tra i più memorabili della raccolta, ma mette di nuovo in mostra le doti vocali di Big John e la chitarra ispirata e ficcante del suo allievo prodigio.

Another Man è un traditional arrangiato da Mayall che lo suona in perfetta solitudine. La sua voce, un’armonica perfetta e il battito delle mani, non serve nient’altro a John per creare un piccolo capolavoro.

La successiva Double Crossin’ Time – a firma Mayall/Clapton – è un blues lento da antologia. La voce di John Mayall è sofferta, quasi lancinante, e la chitarra di Eric onnipresente. L’assolo è qualcosa che all’epoca fa sanguinare le orecchie degli adolescenti, abituati alla chitarra educata di George Harrison. Oggi abbiamo sentito questi suoni mille volte, ma all’epoca Jimmy Page e compagnia erano ancora ben di là da venire.

https://www.youtube.com/watch?v=9lD9Ibr36V4&t=2s

What’d I Say è un tributo a Ray Charles con Mayall in grande evidenza; all’interno c’è addirittura un break di batteria piuttosto lungo di McVie, qualcosa che al tempo si sentiva solo nel jazz. Clapton a un certo punto mescola il classico di Charles col riff di Daytripper dei Beatles, con inventiva straordinaria e padronanza totale.

Key To Love – di Mayall – e Parchman Farm, cover di Mose Allison, portano avanti il discorso con efficacia e preparano il terreno al gran finale. Have You Heard è l’altro lentone del disco, col sassofono di Alan Skidmore sugli scudi. La voce di Mayall, praticamente perfetta, e la chitarra di Clapton testimoniano una simbiosi che purtroppo durerà poco. Call e response si fondono in un’alchimia irripetibile; lo strumento di Clapton non sarà mai più così chiaro e ispirato, forse nemmeno nei voli pindarici che lo attendono coi Cream.

Ramblin’ On My Mind è un altro standard blues che offre una chicca storica. È infatti il debutto di Eric Clapton alla voce, convinto da Mayall, che offre una prestazione molto simile a quella del suo mentore.

L’arrangiamento è da downhome; il piano saltellante di John e la chitarra rurale di Eric, che si produce in un assolo che evoca il fantasma di Muddy Waters e del delta del Mississippi.

C’è ancora spazio per Steppin’ Out, altro strumentale cavallo di battaglia di Clapton. Eric lo riproporrà anche coi Cream, in una versione potenziata all’inverosimile. Il brano, di nuovo di scintillante perfezione, rende l’idea della libertà che Mayall offriva al suo pupillo. Degno di nota il lavoro del leader all’organo.

Si chiude con la campagnola It Ain’t Right, ma il climax è dietro le spalle; il brano fa da camera iperbarica per lasciare il disco senza troppi danni.

Il disco – inaudito per un lavoro di blues puro – vende benissimo e dà la stura a decine di album simili. Dieci settimane in Top Ten con l’apice del sesto posto. Eric Clapton è però in quel momento totalmente in preda al delirio del successo e abbandona quasi subito il suo pigmalione; le sirene del supergruppo con Jack Bruce e Ginger Baker, la crema della scena, sono irresistibili. Poco male, John lo lascia andare senza rimpianti.

I tempi sono quelli irripetibili e visionari di blues e psichedelia. Sia Clapton coi Cream che Mayall con Peter Green prima e Mick Taylor poi, sforneranno a breve altri capolavori della storia del rock.

Leggi anche: Quattro chiacchiere con John Mayall leggenda del blues

— Onda Musicale

Tags: Muddy Waters, Eric Clapton, Jimmy Page, John Mayall
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