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Un disco per il week end: “Acqua e terra” de I ratti della Sabina

Mi sembra ieri quando, un mio caro amico scrittore (leggi qui l’intervista), ci consigliava di ascoltare un pezzo di un gruppo folk rock italiano dal titolo La morale dei briganti” dedicata al personaggio di “Fontamara” Berardo Viola.

Il nome del gruppo poi, I ratti della Sabina, cattura subito la mia attenzione grazie al più che evidente riferimento di storia romana. In poco tempo diventano tra i miei ascolti principali durante gli anni dell’università nonostante lo scioglimento e la “rinascita” sotto forma del progetto Area765. Di dischi ne hanno fatti pochi, ma tutti pieni di senso, ironia, ma soprattutto buona musica. Diamo quindi un’occhiata al loro esordio del 1998, poi rimasterizzato nel 2004, intitolato Acqua e terra:

Il sogno del menestrello: chitarre e fisarmonica aprono le danze di questa ballata che narra il desiderio di libertà e di musica del cantore per eccellenza, ovvero il menestrello, costantemente in viaggio. Narratore il cantante e polistrumentista, nonché fondatore, Roberto Billi.

Ricordi: teneri arpeggi di chitarra acustica e di violino immergono l’ascoltatore in un’atmosfera sognante tipica delle leggende rurale ed il folk del luogo.

“Sono stato allevato dai meli, dagli uccelli ho imparato le mie prime parole. E ho giocato tra gli ulivi incantati e i ciliegi che a maggio si mostrano in fiore” questi i dolci versi che vedono la sovrapposizione di più voci, magnifica.

Fra le braccia della luna: più ritmata e scanzonata con le sonorità tipica delle feste di paese e di gruppi come i Modena City Ramblers. Si canta infatti di feste, bevute e musica tra il mandolino di Paolo Masci e la fisarmonica di Alberto Ricci.

Il pazzo e la stella: alzi la mano a chi non sono venuti in mente i celebri versi e le melodie di Fabrizio De André. Un matto chiede infatti ad una stella cadente di far soffiare un vento sui suoi pensieri fino a renderli “liberi da farmacie e catene”.

Purtroppo le stelle cadenti non fanno avverare i nostri desideri, ma alla fine il protagonista è comunque contento perché capisce che “si brilla di luce nell’arco del tempo finché il buio non ci cattura”.

Carnevale liberato: il basso di Valerio Manelfi scandisce il tempo del racconto di un carnevale, perso tra un violino (Alessandro Monzi) ed un ricordo lontano.

Nel giorno della liberazione: la batteria di Carlo Ferretti si tinge di toni militareschi perché si parla di un atto di eroismo di tre giovani della Sabina.

I ragazzi disinnescarono le mine lasciate dai tedeschi in ritirata durante la guerra, ma purtroppo una di esse esplode portandoseli via. Il ricordo è ancora sentito nella memoria del paese ed ora vive negli ascoltatori di questa band sparsi per l’Italia.

In viaggio: sonorità arabeggianti si mischiano a quelle della chitarra elettrica, qui autrice di un fantastico assolo, mentre la voce di Billi si tinge sempre più di dolcezza e di qualche sorriso increspato dalle lacrime del viaggio. A livello sonoro, dalla seconda metà in poi, il brano assume forme prog facendoci ricordare la PFM dei primi tempi.

Alla malinconia: trasposizione musicale ispirata dall’omonima poesia di Herman Hesse, “An die Melancholie”.

L’Omo: pura goliardia paesana mista a stornelli vernacolari per un brano che vi farà saltare su dalla sedia e ballare in giro per la stanza. È la buffa storia del classico “raccomandato” che pensa di essere un grand’uomo, ma in verità è minuscolo soprattutto se messo a confronto con il mondo. Occhio comunque ai suoi inganni ed alle sue false promesse.

Ballata di acqua e di terra: elettricità e strumenti folk si mischiano assieme in un ritmo coinvolgente che si scaglia contro i potenti che riducono in miseria la popolazione e distruggono l’ambiente.

Un chiaro invito alla riflessione ed alla presa di coscienza della situazione che, in fin dei conti, si ripresenta simile in ogni epoca.

Lettera mai scritta: tra le canzoni più toccanti dell’intero disco, e tra le mie preferite del gruppo sabino, è una ballata acustica dedicata ad una “dolce ragazza dai bruni capelli”.

Lei ed il suo innamorato sono divisi dalla guerra, ma ciò che spaventa di più l’innamorato non è il conflitto, è il non rivedere più il sorriso di lei. La speranza, si sa, “sa volare più in alto di ogni barricata e del rumore dell’artiglieria”, godetevi l’assolo finale di chitarra elettrica!

Oltre la città: ritorno alle atmosfere paesane e scanzonate che “smorzano” un po’ la tensione del brano precedente.

Piccola canzone: avete presente tutte quelle “canzoni d’amore” che passano alla radio? Scordatevi quelle sdolcinatezze ed ascoltate questa!

La ciucca: serve dire altro? Un finale col botto!

In conclusione che dire di questo disco? Una chicca per gli appassionati del genere, ma anche della musica italiana in generale, che mostra come il folk ed il rock possono andare benissimo a braccetto insieme!

— Onda Musicale

Tags: PFM, Fabrizio De Andrè, Modena City Ramblers
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