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Mark David Chapman: l’assassino di John Lennon che disse “Mi sentivo tradito da lui”

John Lennon

L’8 dicembre del 1980, nei pressi di Central Park, davanti all’ingresso del Dakota, all’uscita da casa di John Lennon, un signore sconosciuto gli stringe la mano chiedendogli un autografo da firmare sulla copertina di “Double Fantasy”, suo ultimo album. 

Il fotografo Paul Goresh scatta una foto celeberrima della futura vittima e del suo futuro assassino

In un’epoca in cui viene tutto documentato e propalato con puntiglio e compiacimento sciacallesco dai media di massa, questa foto presaga testimonia succintamente di un’icona assoluta e di un perdente che la vuole immolare sull’altare fatale della propria vanità e ricerca di riflettori.

In quello stesso giorno Mark David Chapman, il nostro signor nessuno attende pazientemente e senza segni di squilibrio apparente, per ben quattro ore, il ritorno della star: il John Lennon che aveva cantato, in Imagine (dell’album omonimo risalente appena a nove anni prima)di un auspicabile mondo di pace e concordia, senza ragioni per uccidere o per cui morire, senza religioni e senza proprietà privata. Attende le fatidiche ore 22.51, in cui Lennon fa rientro, ed esplode contro di lui quattro colpi di calibro 38, di cui tre fatali che decretano la fine di John Lennon uomo.

Le parole di John Lennon avevano parlato da sole con versi cristallini e ispirati

“Imagine there’s no Countries / It isn’t hard to do / Nothing to kill or die for (verso che ha la sua controparte allucinata nell’atto folle e assassino, apparentemente gratuito di Chapman) / And no religion too… Imagine no possession (un colpo dritto al mito americano della Proprietà Privata che nella mente squilibrata di Chapman strideva con la vita agiata e il successo stesso di Lennon) / I wonder if you can / no need for greed and hunger / a brtotherood (una fratellanza dettata dalla concordia e che fermi la mano di ogni Caino, forse) of man / Imagine all the people / Sharing all the world…

In una intervista del 2000 Chapman dirà:

Mi sentivo tradito, ma a un livello puramente idealistico. Vagando per le biblioteche di Honolulu mi imbattei nel libro John Lennon. One Day at a Time. Quel libro mi ferì perché mostrava un parassita che viveva la dolce vita in un elegante appartamento di New York. Mi sembrava sbagliato che l’artefice di tutte quelle canzoni di pace, amore e fratellanza potesse essere tanto ricco. Eravamo come due treni che correvano l’uno contro l’altro sullo stesso binario. Il suo ‘tutto’ e il mio ‘nulla’ hanno finito per scontrarsi frontalmente.”

Si dovrebbe porre un’attenzione specifica a queste parole del mitomane assassino

Egli leggeva e rileggeva con febbrile e crescente immedesimazione un romanzo generazionale che in molti avevano amato e in molti ancora amano: Catcher in the Rye di Salinger. Il protagonista, Holden Caulfield, narra in prima persona le sue picaresche avventure da disinserito, lontano da scuola e famiglia, dalle istituzioni in cui non crede pedissequamente, come sembrano fare la maggior parte dei suoi coetanei, che anzi, da anticonformista, reputa farisaiche e tali da forgiare destini infelici e inautentici. Il fatto che il suo stesso destino (quale personaggio letterario), sia quello adombrato nel finale del libro, cioè di essere ricoverato in una clinica per malati di nervi, avvicina vertiginosamente il piano della sua esistenza a intersecare quello di Chapman (che ha un passato segnato da abusi di droghe e ricoveri psichiatrici).

Ma la cosa che più colpisce è che Holden ha in odio il cinema e il suo star system, le figure deputate, cioè, a meglio incarnare il successo e una vita sotto i riflettori della stampa e l’attenzione famelica, se non devozione “sacra”, di tregende di fans

Egli non ama in generale niente di troppo mediato e insincero, cerca verità e schiettezza in un mondo che ne è tragicamente privo e forma i giovani per un verso che condanna loro a pose e costumi posticci, artefatti e mendaci. Nella mente offuscata di Chapman, John Lennon era già stato processato e ritenuto colpevole in una sorta di assurda sentenza personale che rintracciava in lui ogni guasto di una società dell’immagine che serializzava con ogni tinta, le icone del successo, esattamente come in un dipinto pop di Warhol. Una vendetta privata, quella dell’insano nessuno che cerca attenzione e fama per sé sottraendo la vita a Lennon, la quale passa, sì, per i binari di una motivazione folle, ma che è lo specchio di una società dove i ruoli non dettano nessuna fratellanza e sono altrettante “divise” in cui identificarsi e mettere i propri fini per irrelati e anzi assoluti. 

In questi termini i Beatles e Gesù sono interscambiabili e l’”icona blasfema”, che canta di un mondo senza religioni, “deve” essere doppiamente punita:

Ascoltavo quella musica e diventavo sempre più furioso verso di lui, perché diceva che non credeva in Dio… e che non credeva nei Beatles… Volevo proprio urlargli in faccia chi diavolo credesse di essere, dicendo quelle cose su Dio, sul Paradiso e sui Beatles… Dire che non crede in Gesù o cose del genere.”

Chapman sembra adorasse i bambini e avesse lavorato anche a contatto con essi

Facile intuire che la loro schiettezza e spontaneità doveva sembrare ai suoi occhi la cosa più preziosa, e John Lennon un traditore in quanto idolo frutto d’artefazione e celebrazione di tutto ciò che aveva in odio il personaggio di Salinger. In una società in cui isteria e fanatismo innervano persino le Istituzioni di maggior peso e in cui fuori dai tribunali si inneggia alla esecuzione a morte dei colpevoli; in un Paese di sette, patronati, istituti e istituzioni che inneggiano a diritti/doveri ritenuti santi e figli di una supposta integrità (sdrucciola e puritana); in un Paese che crea miti e poi li cannibalizza, Chapman è la risultante (malata) di dinamiche in cui il confine tra pubblico e privato si sgretola, in cui tutto può improvvisamente incrinarsi per un verso fuori controllo, trasudando inni alla vendetta contro il vigere di diritti apparentemente figli della colpa e del privilegio, e suscettibili di essere puniti perché ritenuti niente altro che il frutto dell’albero avvelenato: una morale censoria e arbitra massimalista di destini sempre al bivio tra successo e anonimato, in cui o si vince o non si è nessuno.

La proprietà privata adombrata da Lennon nella sua celeberrima canzone, che abbiamo citato, è un altro mostro sacro e spina dorsale della cultura a stelle e strisce

Ma non sia troppo antiamericano dire che là dove si difende con armi acquistate e detenute con disinvoltura da Far West, episodi come quello di Chapman sembrano ammonire e trovare il proprio corrispettivo in stragi tragicamente note come quella della Columbine. Troppo facile vedere in John Lennon, come in Che Guevara, un’immagine cristica, e pressoché agnina, che cade vittima di barbari sacrifici di sangue che la santificano ed eternano: vogliamo aggirare questa ovvietà un po’ bieca. Resta il fatto che in un consesso sociale in cui l’immagine sostituisce la presenza, in cui il mito sostituisce la cogenza e la veridicità dell’essere semplici uomini (né giganti né insetti), e una febbricitante, vendicativa sete di giustizia (privata e non) sconfina nel delirio, in un Paese in cui la presenza può essere cellula tumorale e impazzita che compromette la salute di un organismo sofferente il gigantismo stesso dell’immagine, diviene cagionevole un diverso concetto e primato di giustizia: quello fondato sull’equità e tale da disinnescare individualismi barbari.

Come qualcuno ha detto, ecco scritto il ferale ventisettesimo capitolo di “Catcher in the Rye”, quello mancante nel libro

Ma sarebbe meglio ricordare ciò che un mite e sincero insegnante dice a Holden circa la differenza tra persone mature e immature… Parafrasando: la differenza tra un ragazzo e un adulto è che il primo vorrebbe morire per una causa e il secondo sceglie invece di vivere per essa. Ci pare che questo ispirato motto valga da monito contro ogni forma di fanatismo e isteria, privata o collettiva.

Cantava Lennon di dare una chance alla pace, e vorremo ricordarlo così, con questo suo auspicio che apre le coscienze al dialogo e nega la violenza e la sopraffazione, o gli spettri di menti che si credono nel giusto muovendo conflitti in nome della vendetta dei singoli come delle Nazioni.

(di Massimo Triolowww.pangea.news)

— Onda Musicale

Tags: The Beatles, Andy Warhol, Yoko Ono, Mark David Chapman
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