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The Beatles 1966 World Tour (parte seconda)

Bentornati con la seconda puntata del lungo e complesso racconto dell’ultimo e memorabile Tour Mondiale dei Beatles. Potete leggere la prima parte a questo LINK.

Dopo aver fatto un breve cenno alla loro rapida sosta in Alaska, tappa obbligata prima dell’atterraggio in Giappone a causa delle avverse condizioni metereologiche (quando si vola, le turbolenze di un tifone sono quanto di meno consigliabile ci sia per un aereo!), il gruppo era finalmente arrivato all’Haneda, l’aeroporto della capitale nipponica, il 29 o il 30 giugno (a questo proposito i racconti dei testimoni dell’entourage e quelli degli studiosi sono lievemente discordi, ma questo cambia di poco la sostanza della vicenda).

Com’era prassi consolidata, non appena arrivati, i quattro dovevano immediatamente tenere una conferenza stampa, occasione che prestava loro il fianco per rispondere in maniera sarcastica e divertita al profluvio di domande che puntualmente giungevano dai giornalisti giunti per documentare il loro arrivo nel Paese. Il sarcasmo era un modo per difendersi dal logorio di domande superflue e inutili che, in altri casi, avrebbero francamente irritato, e per questo motivo erano stati etichettati come terribilmente altezzosi.

La conferenza del 30 Giugno 1966, introduttiva delle performances nipponiche, è da ricordare perché in quell’occasione John Lennon per la prima volta espresse pubblicamente considerazioni sue e degli altri tre Beatles contro la guerra del Vietnam (in corso dal 1955, e che proprio negli anni Sessanta – sotto Kennedy e Johnson – stava conoscendo la sua drammatica escalation).

La permanenza in Giappone, anticipata già ad Amburgo da un telegramma anonimo contenente minacce di morte che era meglio non sottovalutare, fu – senza timore di sbagliarsi – il momento di maggior tensione dell’intera tournée. Quattro giorni vissuti nella prigione dorata dell’Hilton Hotel, con la vita che si svolgeva entro le pareti di una suite. Le ore – scandite da lancette di piombo – sembravano eterne, quindi il tentativo di sgattaiolare fuori dalla struttura per farsi a proprio modo un giro della capitale era una prevedibile conseguenza di tale reclusione. Ma l’evasione durava sempre troppo poco, dato che la sicurezza riusciva sempre a riacciuffarli per rimetterli al loro posto. La noia della permanenza forzata fu vinta anche grazie alla realizzazione con gli acquerelli di un disegno psichedelico.

Come sede delle performance era stato scelto il Nippon Budokan Hall (colloquialmente “Budokan”): la struttura, assai moderna per l’epoca, era stata costruita per le Olimpiadi del 1964 come luogo deputato alle arti marziali. Il Budokan per i giapponesi rivestiva anche un significato più profondo rispetto all’importante ruolo sportivo: era il tempioin cui, ogni 15 Agosto, si commemoravano i caduti della seconda guerra mondiale. Per i nazionalisti più accesi il violarne la sacralità con un gruppo musicale occidentale era un gesto chiaramente e gravemente oltraggioso.

La reazione profondamente ostile dei gruppi più conservatori era anche il sintomo della condizione di una nazione che a distanza di vent’anni dalla fine della guerra stava ancora lavorando per ritrovare una propria identità. L’arrivo di una brezza carica di giovinezza, energia ed ottimismo (rappresentata dai Beatles) turbava profondamente un Paese sospeso tra chiusura e apertura alla modernità, provocando reazioni contrastanti.

Con premesse come queste (la lettera di minacce, l’ira dei nazionalisti), non stupisce il fatto di sapere che i Beatles fossero sorvegliati e protetti con piglio militaresco da una miriade di poliziotti. Il timore che qualche mano armata  – dei cecchini – attentasse alla loro incolumità, era tutt’altro che infondato: il palco – con un fondale sul quale campeggiava a colori accesi la scritta THE BEATLES, ciascuna delle lettere evidenziata da un contorno di lampadine – fu realizzato su un podio di 8 piedi di altezza (circa 2,5 metri); i posti immediatamente a ridosso del palco furono interdetti al pubblico, che quindi poté trovare posto solo a partire dal primo anello.

Uno dei pochi aspetti positivi delle performances in estremo Oriente fu che esse vennero riprese a colori dalla televisione nazionale giapponese (una riproduzione virtuale dell’allestimento al Budokan venne realizzata nel 2009 per il videogioco The Beatles Rock Band, pubblicato per piattaforme quali PS3, Xbox 360 e Nintendo Wii).

La pressione della combinazione di fattori quali la sorveglianza dei poliziotti, la natura riservata dei giapponesi, il divieto per chiunque di stare in piedi per applaudire, il non sentire gli strumenti, influirono sull’energia dell’esecuzione, che anche in questa circostanza fu debole. Dello scarso risultato ottenuto i Beatles furono parecchio dispiaciuti. Nonostante ciò, la loro presenza lasciò un segno duraturo e vitale nel Sol Levante, facendo germogliare negli anni seguenti numerosi artisti e gruppi stimolati dal loro esempio, ed incrementando rapidamente e vigorosamente il processo di modernizzazione del Paese, annoverato al giorno d’oggi tra i più tecnologicamente avanzati al Mondo.

La mattina del 3 Luglio, dopo cinque spettacoli, i Beatles si erano rapidamente imbarcati per le Filippine (via Hong Kong), arrivando a Manila nel pomeriggio dello stesso giorno. Roba da far girare la testa, se si pensa che poco più di una settimana prima erano in Germania! Il 1966, a quanto pare, si stava rivelando decisamente più stressante delle annate precedenti.

Gli unici due spettacoli nella cornice di Manila si tennero il pomeriggio e la sera del 4 Luglio al Rizal Memorial Stadium. La brevissima permanenza nelle Filippine però passò alla storia per due episodi principali: nel primo, i quattro furono brevemente tenuti come ostaggi del magnate Don Manolo Elizalde, desideroso di accondiscendere alla richiesta del figlio di mostrare i Beatles in persona ai suoi amici; nel secondo, i quattro ebbero “l’ardire” di snobbare l’incontro che Ferdinando e Imelda Marcos – presidente e first lady delle Filippine, ma in realtà più simili a dittatori – avevano organizzato per loro prima della loro esibizione allo stadio.

A condire il tutto vi fu il fortunosamente evitato incontro con i facinorosi e il salasso in termini di tasse che subirono all’aeroporto, prima di imbarcarsi alla volta dell’India.

Grazie al cielo il soggiorno a Manila era stato breve, pur essendo stato sostanzialmente un incubo. Il 5 Luglio erano riusciti a fuggire rocambolescamente dal Paese, per atterrare a Delhi, in India. La breve sosta si caratterizzò per l’interesse della stampa locale e per il fatto che Harrison colse l’occasione per acquistare alcuni strumenti locali, tra cui un sitar. Questo primo incontro con il subcontinente indiano farà nascere in lui un forte amore per la quella cultura, portandolo successivamente ad abbracciare la fede hinduista.

La sosta indiana era stato il preludio dell’agognato ritorno in Inghilterra, ma la permanenza sull’isola sarà una pausa abbastanza lunga prima dell’inizio della loro ultima e travagliata tournée statunitense, con cui si concluderà ufficialmente la loro carriera del vivo.

Il racconto del tour 1966 si concluderà nella prossima ed ultima puntata. Non mancate!

— Onda Musicale

Tags: John Lennon, The Beatles
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