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“Highway 61 Revisited” di Bob Dylan: il rock diventa adulto

Un ragazzo ci fissa con lo sguardo a metà tra sfida e indolenza, seduto sui gradini di un edificio vittoriano al numero 4 di Gramercy Park, a New York.

Siamo quasi alla fine della primavera del 1965 e quel giovane in camicia sgargiante e t-shirt della Triumph è Bob Dylan, l’artista che sta cambiando in modo definitivo e visionario il rock’n’roll e l’immagine è la foto di copertina del suo album più importante, “Highway 61 Revisited”.

In pochi anni Robert Allen Zimmerman – questo il suo vero nome – è passato dall’essere un timido e impacciato musicista di Duluth, arrivato a New York in cerca di fortuna, alla voce più importante della musica americana dai tempi dell’idolo di gioventù, Woody Guthrie; eppure, se c’è una caratteristica che può riassumere l’ultradecennale carriera di Bob, questa è l’assoluta refrattarietà a qualsiasi etichetta. E così il menestrello di Duluth, il profeta della ribellione giovanile al sistema, la voce dei ragazzi alternativi che, al ritmo delle sue ballate folk, sognano di emulare la vita on the road di Jack Kerouac e di cambiare il volto all’America del futuro, in quel 1965 è stanco di suonare sempre le stesse canzoni.

Al ritorno da un tour in Gran Bretagna, dove è idolatrato e preso ad esempio anche dai Beatles, che stanno meditando di abbandonare le canzonette alla volta di percorsi meno turistici e più avventurosi, Bob è talmente disgustato dal mondo della canzone che medita di smettere e darsi alla scrittura. Per la verità la sua rivoluzione è già iniziata con “Bringing It All Back Home”, in cui un filo di elettricità inizia ad affiorare tra le sue ballate, ma è al ritorno dalla terra d’Albione che tutto si concretizza.

Il sentimento che domina il Dylan di quei tempi, come detto, è il disgusto, unito all’odio; scrive come un pazzo, Bob, e le centinaia di pagine che vengono fuori in quel periodo saranno pubblicate solo nel ’71 in “Tarantula”, pretenzioso e sostanzialmente fallimentare flusso di coscienza e tentativo di unire prosa e poesia; fa niente, da quelle pagine viene fuori uno sfogo che Dylan definirà un “vomito lungo 20 pagine” da cui emergerà quel diamante purissimo che è “Like A Rolling A Stone”, forse la canzone più importante della storia del rock, di sicuro la sua chiave di volta.

Poco importa stabilire chi fosse la donna oggetto di tanto odio e protagonista della canzone: forse Edie Sedgwick, musa di Andy Warhol, modella di culto con cui Bob intrecciò una breve relazione; o forse Marianne Faithfull, o ancora addirittura Joan Baez. “Like A Rolling Stone” diviene leggendaria da subito, con una serie di aneddoti sulla registrazione che fanno impallidire qualsiasi altro pezzo rock; da Al Kooper che si imbuca sperando di suonare la chitarra, ma trova il posto occupato da Michael Bloomfield, il miglior chitarrista blues dell’epoca, e si ricicla all’organo, millantando un riff rivoluzionario che non ha ancora concepito, a Bob Dylan stesso che apostrofa Bloomfield, invitandolo a non suonare la “solita merda alla B.B. King”, ma qualcosa di più esplosivo. Dylan è un concentrato di arroganza e supponenza, ma quello che ha tra le mani e che registra in una settimana scarsa è il suo miglior materiale di sempre.

Nel bel mezzo delle registrazioni di quello che sarà “Highway 61 Revisited” si incastona anche l’episodio forse più famoso della carriera di Bob, il concerto al festival folk di Newport. Accolto come un profeta nei due anni precedenti, Dylan si presenta con “Like A Rolling Stone” appena uscito come singolo e forte di un album già canonicamente rock come “Bringing It All Back Home” dell’anno prima, accompagnato per giunta dalla Paul Butterfield Blues Band, ingaggiata per l’occasione forse coi buoni uffici di Bloomfield, che ne è chitarrista. Sull’episodio in tanti hanno dato versioni diverse, fatto sta che Dylan viene contestato dai puristi folk per l’elevato volume e l’inaccettabile tenore elettrico dell’esibizione. Il mondo del folk, che lo aveva adottato come massimo profeta, gli si rivolta contro, sebbene parzialmente; ma si sa, le voci contro fanno sempre più rumore e Bob verrà tacciato di tradimento e di essersi svenduto al mercato del rock’n’roll.

Come sempre Dylan pare trovare energie più dal disprezzo che dal vedersi incensato, e torna in sala di registrazione ben deciso a chiudere le registrazioni del suo capolavoro.

L’operazione che il musicista ha in mente è semplice e rivoluzionaria: unire la profondità dei temi del folk con l’elettricità e la forza dirompente del rock, che allora era ancora rock’n’roll, ovvero un genere che rimaneva nell’ambito della musica da ballo, i cui testi non si discostavano da una superficialità quasi imbarazzante.

“Il rock’n’roll non mi bastava – è Bob a parlare – non rifletteva la realtà della vita. Quando mi sono dedicato alla musica folk, ero consapevole che si trattava di una cosa più seria. I brani sono colmi di disperazione, tristezza, trionfo, fede nel soprannaturale, sentimenti più profondi. C’era più vita reale in una sola frase di quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock ‘n’ roll. La vita è una faccenda complessa e il rock’n’roll proprio non la rifletteva. Se sono riuscito a fare qualcosa di importante, è stato proprio fare incontrare questi due generi.”

Highway 61 Revisited” è costituito da nove canzoni, divise equamente tra pezzi da novanta del repertorio dylaniano e canzoni leggermente più leggere, che fanno quasi da cuscinetto tra quelle più importanti. L’attacco col rullante di “Like A Rolling Stone” è entrato ormai nel mito, Bruce Springsteen ha dichiarato che è forse il momento che gli ha cambiato la vita; sulla canzone è stato detto tutto, dalla sequenza di accordi pare presa da “La Bamba”, agli arrangiamenti elettrici fatti di fili sciolti che paiono non portare da nessuna parte ma che alla fine miracolosamente danno vita a una perfezione ineguagliabile, fino alle liriche di Bob che raggiungono le vette più alte. Dylan inventa un’incredibile galleria di personaggi, dal Napoleone in stracci al vagabondo misterioso, dalla presuntuosa “Miss Lonely” protagonista al diplomatico col gatto siamese sulla spalla; un testo sospeso tra il surreale e la più spietata vendetta, un distillato d’odio e rabbia che ognuno trova modo di fare suo, mettendoci la sua esperienza personale. Con in più il colpo di genio del “rolling stone”, la pietra scalciata espressione tipica del blues – tanto da dare il nome ai Rolling Stones – che qui acquista una diversa accezione di disperazione, opposta a quella di vagabondo sornione del blues.

Segue la maestosa introduzione “Tombstone Blues”, più canonica musicalmente ma di nuovo fenomenale in un testo che mischia tutte le ansie e le paranoie dell’America del periodo, prendendosi gioco di un certo spirito reazionario e paternalistico a stelle e strisce; pare che l’ispirazione arrivasse da una conversazione tra due poliziotti captata da Dylan casualmente. “It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry” rallenta il ritmo con un pianoforte da vecchio saloon e la bella armonica del menestrello a menare le danze, mentre “From A Buick 6” è leggermente più sostenuta, ma viene oscurata dalla grandezza del pezzo successivo.

Ballad Of A Thin Man” è forse l’altro vertice del disco, una stupenda ballata blues con un pianoforte sepolcrale e la chitarra di Bloomfield sempre sul punto di esplodere; il testo è tra i più celebri di Bob, una spietata invettiva verso un fantomatico Mr. Jones – in cui molti hanno visto un giornalista – che rappresenta forse l’americano medio che giudica tutto e tutti dall’alto senza tuttavia comprendere la vera essenza di ciò che ha di fronte: “sta succedendo qualcosa qui/ ma tu non sai che cosa/non è così, Mr. Jones?” Un testo a tratti criptico, dalle dense atmosfere kafkiane, tuttavia ancora oggi estremamente attuale nel definire un certo atteggiamento ottuso nei confronti del cambiamento.

Queen Jane Approximately” e “Just Like Tom Thumb’s Blues” sono altri due pezzi che in mezzo a tali capolavori fanno quasi la figura dei riempitivi, e sono separati dalla title track, un altro incredibile affresco di surrealismo dylaniano, una leggendaria galleria di personaggi strambi e indimenticabili. La Highway 61 era la strada che collegava il nord degli USA col sud, fino al Mississippi. Era la strada del blues, cantata in decine di standard, la stessa che i neri percorrevano nella speranza di riscattarsi dalla miseria magari arrivando a Chicago; la stessa dove Robert Johnson vendette l’anima al diavolo per diventare un grande bluesman e, soprattutto, la stessa che lambiva la Duluth di Bob Dylan. Un luogo simbolico dove il cantautore fa rivivere tutta l’America e la storia, dal biblico Abramo a Georgia Sam, da Mack The Finger a Re Luigi, dal giocatore di poker all’agente pubblicitario, il tutto su un rock sostenuto dall’elettricità della band e da infinite invenzioni sonore.

A chiudere il disco della svolta elettrica, col tipico colpo di teatro alla Dylan, “Desolation Row”, un pezzo folk di undici minuti, completamente acustico. La versione elettrica non aveva convinto l’incontentabile genio del Minnesota, così il produttore fece arrivare da Nashville Charlie McCoy, un chitarrista acustico molto rinomato, e la registrazione andò in porto sul velluto. Il “vicolo della desolazione” allude a una desolazione interiore, forse all’ideale opposizione di un mondo di sconfitti, di falliti, di diversi, con quello socialmente accettabile, e lo fa proponendo una nuova galleria di personaggi indimenticabili: da Cenerentola che imita lo stile di Bette Davis a un Romeo dei quartieri malfamati; da Caino e Abele al Gobbo di Notre Dame; da Ofelia a un Einstein travestito da Robin Hood, c’è insomma spazio per ogni genere di umanità. Una chiusura che commuove e che riporta Dylan ai fasti del folk.

Highway 61 Revisited” sarà seguito dal doppio “Blonde On Blonde”, a chiudere idealmente la trilogia elettrica di Bob, ma rimane sostanzialmente “il” disco per eccellenza del cantante. Mai più Bob sarà così centrato e corrosivo e mai più così efficace come cantante e nel mettere insieme una band irripetibile.

E tuttavia la “Highway 61” della carriera di Bob Dylan sarà ancora lunghissima e densa di personaggi e incredibili avventure, dal misterioso incidente in moto alle apparizioni cinematografiche, dai premi prestigiosi come l’Oscar e il Nobel a capolavori come “Blood On The Tracks”. Un’autostrada talmente lunga da durare ancora oggi.

— Onda Musicale

Tags: Joan Baez, Bob Dylan, Andy Warhol, Woody Guthrie, Mississippi, Marianne Faithfull, Robert Allen Zimmerman
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